Poitiers, Notre-Dame-la-Grande, (XI-XII secolo), facciata occidentale, la Natività.

 

Lettera di Natale agli amici ~ 1999

Sono tornato a Betlemme qualche giorno fa, e ancora una volta mi si è affacciato con insistenza l'immagine di Ravi, "Rapito", il pastore che in molti presepi si presenta davanti alla grotta del Bambino Gesù a mani vuote e con gli occhi spalancati, rapito per lo stupore davanti all'inaudito prodigio dell'Altissimo che si è umiliato nella nostra carne, per renderla gloriosa e santa. Soltanto lo stupore dell'infanzia rende capaci di penetrare il sublime mistero natalizio, perché, come si esprime il Prefazio di Natale, contemplando la realtà visibile amore rapiamur, siamo rapiti d'amore per le realtà invisibili. Chi si ferma a ciò che gli occhi vedono: un bambino avvolto in fasce e deposto nella mangiatoia, non giungerà mai all'Invisibile. Gesù infatti è icona del Dio invisibile. Questo passaggio è possibile solo per via d'amore: per amorem agnoscimus, insegna Gregorio.

A Betania s'incontra spesso un tale che offre piccoli baccelli contenenti semi di senape, il più piccolo di tutti i semi, che il Signore paragona al Regno: "Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell'orto, e diventa un albero ove gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami" (Mt 13,32). Subito dopo questa parabola, viene la parabola del lievito, che fa fermentare tutta la pasta. E' da credere che a Nazaret Gesù abbia osservato sua madre quando faceva il pane: impastava la farina con un pizzico di lievito, per farla fermentare. E' il lievito che solleva e trasforma la pasta del mondo. Ma per questo occorre che il lievito, come il sale, permei e penetri la realtà di questo mondo, occorre che il discepolo, accettando la legge dell'Incarnazione, approfitti del Giubileo per ritornare alle origini, per convertirsi dalla mentalità mondana del successo rapido ed effimero all'essenziale nudità del messaggio evangelico: è necessario che, spogliandosi da ogni seduzione degli idoli, riscopra i passi del Cristo su questa "aiuola che ci fa tanto feroci".

Dopo tanti anni ho riletto ciò che Bergson scrisse negli anni trenta, quando l'uomo cominciava ad illudersi di essere cresciuto e giunto ad una altezza mai prima raggiunta. Il filosofo francese, con intuizione davvero profetica, faceva osservare che sì il corpo era cresciuto ma l'anima era rimasta quella di prima e che occorreva "un supplemento d'anima". Questo è il vero problema che si pone agli uomini di oggi, e in particolare ai credenti, che lasciano alle spalle questo secolo, fiero delle sue conquiste e insieme ferito per le sue sconfitte.

Questo secolo segnato profondamente da un evento di capitale importanza, non solo per la Chiesa: il concilio vaticano Il, che non senza divina ispirazione fu voluto da Giovanni XXIII e che Paolo VI da valente pilota guidò in porto. E' stato un invito, fervido e appassionato, rivolto a tutti gli uomini ad attingere con gioia alle sorgenti della salvezza. E che altro significato può avere il fatto che Giovanni Paolo II nella notte di Natale aprirà la porta santa? La porta è Cristo. Lo afferma chiaramente lui stesso: "Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato" (Gv 10,6). "In nessun altro c'è salvezza - dichiara a sua volta Pietro - non vi è infatti al mondo altro nome dato agli uomini, nel quale dobbiamo essere salvati" (At 4,12).

Ma il significato della porta santa non si limita al Signore, ma si applica a chiunque voglia entrare davvero per essa. E' l'invito toccante che definisce per sempre, nell'Apocalisse, l'atteggiamento del Signore nei confronti dell'uomo: "Ecco: sto alla porta e busso. Se uno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me" (Ap 3,20). Quale dolce intimità ci viene offerta! Ora, se per entrare in una moschea bisogna togliersi le scarpe come segno di rispetto e di purezza, tanto più occorre la conversione del cuore per partecipare alla grazia e alla gioia del giubileo.

Questo giubileo intende ricordare il più grande evento della storia umana: "Il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi". Letteralmente si dovrebbe tradurre: "è venuto a porre la tenda in mezzo a noi". Si è fatto carne, significa che egli ha scelto la condizione umana nella sua debolezza e fragilità, nella sua provvisorietà e precarietà; tenda significa che egli è venuto a camminare con noi, nomade e pellegrino, senza fissa dimora, se non quella di un popolo in cammino verso la patria, di una carovana pellegrinante verso la città santa, la Gerusalemme celeste, che è la nostra vera patria. Il giubileo richiede autentici pellegrini, su l'esempio di Paolo, il quale diceva: "Mi sforzo di correre per conquistare la meta, perché anch'io sono stato conquistato da Cristo" (Fil 3,12). Il giubileo ci fa risalire alle origini. Risalire alle origini significa anche questo: riscoprire la dimensione pellegrinante della Chiesa.

Sia Roma che tutta la Terra Santa, appare un grande cantiere, che molti non ritengono un segno positivo, mentre taluni sognano ancora una chiesa trionfante e con nostalgia evocano una fede "ai trionfi avvezza". Ma il papa che vent'anni fa inaugurò il suo pontificato col grido: "Aprite le porte a Cristo!" e che in un primo tempo andò per le vie del mondo impugnando la croce come una spada, da qualche tempo lo vediamo appoggiarsi ad essa senza nascondere la sua infermità e umana debolezza. Fa ricordare san Paolo, che diceva: Virtus in infirmitate perficitur. Sì, la forza di Dio si manifesta pienamente nella nostra debolezza. E ci soccorre un pensiero di sant'Agostino: "Attraverso strutture provvisorie": per machinas transituras, il divino architetto costruisce domum mansuram, la casa in cui abiteremo con lui per sempre.

Roma, Natale 1999

 

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