Il mulino mistico, Vézelay, XII sec.

Il mulino mistico è il più bel capitello simbolico della cattedrale di Vézelay, tappa fondamentale del pellegrinaggio sulla Via Lattea che conduceva a Compostela. Un uomo, con un vestito corto e con calzali, versa grano in un mulino mentre l'altro, stempiato, con i piedi nudi e vestito con una toga ampia, raccoglie la farina. Il primo personaggi o rappresenta il profeta Mosè: il grano che egli versa, l'Antica Legge ricevuta sul monte Sinai; il mulino che macina il grano è figura di Cristo (gli assi della ruota formano una croce); l'uomo che raccoglie la farina, è l'apostolo Paolo e la farina rappresenta la Legge Nuova. La legge di Mosè conteneva senz'altro la verità, ma era una verità oscura, nascosta come la farina nel grano. Attraverso il sacrificio di Cristo sulla croce, è stata trasformata in farina assimilabile la nuova legge del Vangelo, che san Paolo ha avuto il compito di raccogliere e distribuire. La profondità teologica e la bellezza di questo capitello lo fanno attribuire all'autore del grande timpano del nartece. La cattedrale di Vézelay è dedicata a Maria Maddalena, la peccatrice redenta, colei a cui molto fu perdonato perché molto aveva amato, ma anche il primo testimone della Risurrezione. E' sulla sua bocca che la liturgia pasquale pone l'accento festoso: E' risorto Cristo mia speranza!

 

Lettera di Pasqua agli amici ~ 1994

Ho davanti agli occhi due immagini: l'albero dalle lunghe radici e la casa costruita sopra lo roccia. Il profeta Geremia parla dell'albero che "verso la corrente stende le sue radici" e "non smette di produrre i suoi frutti". E' chi giorno e notte medita la parola di Dio, e non si lascia frastornare dalle chiassose parole umane. Gesù in Matteo parla di "chi ascolta e subito accoglie con gioia la Parola, ma non ha radice in sé ed è incostante". Chi invece è ben radicato nella parola di Dio è come l'albero che, avendo lunghe radici, non teme né siccità né uragano. E' come la casa costruita sopra la roccia; "cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa non cadde perché era fondata sopra la roccia". E invece la casa costruita sopra la sabbia, viene spazzata via.

Ho assistito recentemente qui a Vernazza a ripetute e furiose mareggiate, che per ore e ore hanno flagellato le scogliere delle Cinque Terre, e ho avuto modo di apprezzare la saggezza degli abitanti, che hanno costruito le loro case e la loro chiesa non sulla sabbia, ma sopra la roccia. Ma penso anche a quanti hanno costruito sulla sabbia. L'uragano che si è abbattuto sul nostro Paese, è stato come un severo giudizio divino. Non ha risparmiato niente e nessuno. Ho ricordato: "Ha nella mano il ventilabro per mondare la sua aia; raccoglierà il suo frumento nel granaio e brucerà la pula con fuoco inestinguibile". Ricordo le rovine accumulate dalla guerra; ma ora l'insidia è più sottile e il verme roditore più subdolo. Per tanti anni si è vissuto in un clima di euforia e di falsa sicurezza, come al tempo in cui il profeta Geremia ammoniva a non riporre le proprie sicurezze nel tempio e a riporre invece la speranza nel Dio vivente: il tempio era diventato un idolo, una menzogna e fu spazzato via. Dopo l'esilio il tempio fu ricostruito, divenne ancor più sontuoso e tornò l'idolatria con le false sicurezze. "Non resterà pietra su pietra". Il severo giudizio divino si attuò. Ma prima ci fu il grande evento di Pasqua. Nel momento stesso in cui il Cristo dalla croce lanciò un forte grido e spirò, il velo del tempio, che chiudeva l'accesso al Santo dei santi, si squarciò in due dall'alto in basso, per annunciare che una via nuova e vivente si era aperta nella sua carne, la via al Padre per tutti gli uomini.

Dovevano perciò cessare tutte le discriminazioni razziali e religiose, culturali e sociali, che le strutture del tempio tendevano a conservare. E quando il soldato romano vibrò il colpo di lancia nel costato di Cristo che pendeva dalla croce, allora si aprì la sorgente della vita compiendosi la profezia: "Attingerete con gioia alle sorgenti della salvezza". Allora nella croce si manifestò l'albero della vita. Nel paradiso il tentatore aveva insinuato: "Se ne mangiate, i vostri occhi si apriranno e sarete come Dio". Si aprirono sì, i loro occhi, ma sulla loro vergogna. Ora invece possiamo cogliere il vero frutto dall'albero della vita. Come i due discepoli di Emmaus aprirono gli occhi e riconobbero il Signore, quando a tavola spezzò il pane, anche a noi, che partecipiamo al banchetto pasquale, è concesso di aprire gli occhi e di riconoscere il Signore vivente nella nostra stessa carne. E se davvero i nostri occhi si aprono e riconosciamo il Signore nel mistero dell'altare, impariamo a riconoscerlo dovunque lo incontriamo e in chiunque egli rivela e insieme nasconde il suo volto, il volto del povero bambino di Betlemme, il volto radioso del Tabor e il volto irriconoscibile di Getsemani e della Via Dolorosa.

Riconoscere lui vuol dire imparare a conoscerci meglio fra noi; imparare ad accettarci vicendevolmente così come siamo, con la nostra radicale povertà e con il mistero impresso in ciascuno; imparare a donare con gioia e insieme a ricevere con umiltà, "gareggiando nello stimarci a vicenda". Sapendo poi che il Signore e Maestro si è messo in ginocchio con profondo rispetto davanti ai discepoli, non escluso Giuda, per lavare loro i piedi, e ha detto di essere venuto non per essere servito ma per servire, e ha preso davvero l'ultimo posto, dichiarando che egli è in mezzo a noi come colui che serve, appare ridicola nei suoi discepoli la gara per primeggiare, la corsa al potere in nome del servizio, l'avidità del denaro, questa sordida farina di idolatria, la spregiudicatezza machiavellica.

"E se mala cupidigia altro vi grida uomini siate e non pecore matte, sì che il Giudeo di voi tra voi non rida!" (Par V, 78-81).

Non è più il Giudeo che può ridere dei cristiani, bensì il non credente, presente in mezzo a noi e in ciascuno di noi, può ridere dei credenti, che talora sono davvero "come penna ad ogni vento", come alberi senza radici, come case costruite sopra la sabbia. Il credente più che mai deve sapere che la fede è un dono gratuito e immeritato, e non un privilegio discriminante, semmai una ricerca di Dio per tutta la vita. Perciò non dovrà mai dimenticare che il suo compito è di essere lievito umilmente mescolato alla pasta e insieme lucerna che non cessa di far luce nelle ore più buie; senza mai dimenticare però che lui non è la luce. Come tutti, sperimenta, anche dentro di sé, le tenebre, perciò invoca umilmente il dono della luce, e si lascia illuminare ogni giorno dalla parola di colui che è la vera luce, che illumina ogni uomo. Soprattutto non potrà mai dimenticare che non v'è superiorità d'uomo sopra gli altri uomini, se non in loro servizio, e sarà sempre disposto a rendere conto a tutti della speranza che è in lui, la quale non è suo possesso esclusivo, poiché tutti sono chiamati alla medesima e unica speranza; e perciò l'uomo di fede saprà rendere testimonianza, con profondo rispetto del mistero che abita in ogni uomo, in modo tale che nessuno si senta escluso dalla grazia e tutti si sentano invitati al convito nuziale di Pasqua.

E come ci si può rassegnare a vedere vuoti accanto a noi i posti di tanti che, come noi e meno indegni di noi, sono stati invitati alle nozze? C'è da chiedersi se non siamo, anche noi, con la nostra scarsa attenzione agli altri e la nostra presuntuosa sicurezza, a tenerli lontani. Quanti uomini di buona volontà, giovani e non più giovani, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia, come lo attesta il loro generoso amore fratello e la loro fame e sete della giustizia, rimangono lontani o si sentono esclusi! Se sapessero che manca sempre qualcosa alla gioia del Signore, finché alla sua tavola ci sono posti vuoti! Non è egli forse morto per tutti? E la vocazione dell'uomo non è effettivamente una sola, quella divina? "Perciò dobbiamo ritenere - dice il Concilio - che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire a contatto, nel modo che Dio conosce, col mistero pasquale."

Roma, Pasqua 1994

 

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