L'antico e il nuovo Adamo, scultura della Cattedrale di Chartres (sec. XIII)

La scultura rispecchia il pensiero di San Paolo: "il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l'ultimo Adamo divenne Spirito datore di vita. Il primo uomo tratto dalla terra è di terra, il secondo uomo viene dal cielo. E come abbiamo portato l'immagine dell'uomo di terra, così porteremo l'immagine dell'uomo celeste" (1 Cor 15, 44-49). Tertulliano dice che quando il Creatore modellava con la creta il primo uomo pensava a Cristo, l'uomo che doveva venire. In realtà il primo uomo è Cristo. La vera immagine di Dio è Cristo, e l'uomo è stato fatto a immagine di Cristo. "Cristo è immagine dei Dio invisibile, generato prima di ogni creatura. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è il primogenito di coloro che risuscitano dai morti" (Col 1, 15-30).

 

Lettera di Pasqua agli amici ~ 1997

L'anno scorso a Vernazza alcuni giovani vollero ripristinare la processione del Cristo morto secondo la migliore tradizione dei padri. Dal punto di vista folkloristico fu un avvenimento. Anche da fuori accorsero in molti ad assistere allo "spettacolo". Uso il termine preciso che usa Luca quando racconta la crocifissione del Signore. Racconta che molti a Gerusalemme erano accorsi al luogo del Cranio "per assistere allo spettacolo"; ma poi aggiunge che "se ne tornarono a casa battendosi il petto". Quello spettacolo li aveva sconvolti e coinvolti totalmente: non erano rimasti semplici spettatori. Cominciarono a rendersi conto che quella morte li riguardava, che quel sangue era versato anche per loro.

Non si può infatti assistere alla morte del Signore senza attendere "il terzo giorno", per festeggiare la sua risurrezione. Certo i padri, che iniziarono la processione del Cristo morto, non si limitavano a piangere un morto, ma si preparavano all'incontro con il Vivente. Non limitarsi a piangere il morto, ma fare festa entrando in comunione col Vivente, questo era per loro "fare Pasqua". Infatti, alle donne che il terzo giorno si erano recate al sepolcro con aromi per onorare un morto, l'angelo disse: "Perché cercate il Vivente tra i morti?". Tuttavia, è anche vero che, secondo la redazione di Marco, l'angelo disse alle donne: "Voi cercate Gesù di Nazaret il Crocifisso? Il risorto, non è più qui! ".

Ciò vuol dire che non si può separare il Risorto dal Crocifisso, né può incontrare il Risorto se non chi segue il Cristo fin sulla croce. Anche se per ora i giovani di Vernazza non sono venuti a festeggiare il Risorto, cioè a "far Pasqua" come in genere l'intendevano i loro padri, tuttavia è apprezzabile il loro attaccamento alle tradizioni, e penso che il Cristo vivo, di cui hanno onorato la morte, ha posato su di essi il suo sguardo, come guardò il giovane presentatosi a lui: "fissatolo, lo amò" (Mc 10,2 1).

Ma se non ci si può fermare al Cristo crocifisso e morto, perché bisogna incontrare il Risorto, il Vivente, è anche vero che celebrare l'eucaristia significa "annunciare la morte del Signore", appunto perché non si può trovare il Risorto se non si cerca il Crocifisso. La Croce non è una sconfitta e la morte è la manifestazione suprema dell'amore di Dio per l'uomo. Risuscitando da morte il Figlio, Dio dimostra di aver gradito il suo sacrificio per noi, e noi possiamo credere all'amore che Dio ha per noi, poiché egli non ha risparmiato il suo unico Figlio ma lo ha sacrificato per noi: a tal punto Dio ha amato il mondo, fino a dare il suo unico Figlio.

Quest'anno ricorre il XVI centenario della morte di sant'Ambrogio, e mi piace ricordare qui ciò che egli scrisse in occasione della morte del fratello Satiro: "Il mondo è stato redento con la morte di uno solo. Se Cristo non avesse voluto morire, poteva farlo. Invece egli, non ritenne di dover fuggire la morte quasi fosse una debolezza, né ci avrebbe salvati meglio che con la morte. Pertanto la sua morte è la vita di tutti. Noi portiamo il sigillo della sua morte; quando preghiamo la annunciamo; offrendo il sacrificio la proclamiamo; la sua morte è vittoria, la sua morte è sacramento, la sua morte è l'annuale solennità del mondo".

Sant'Ambrogio ha ragione. La Pasqua non è festa soltanto per la Chiesa, ma per il mondo intero. Perché infatti il Cristo fu crocifisso fuori delle mura della città santa? Perché - spiega Leone Magno - la sua croce non doveva essere l'altare del tempio di cui non rimase pietra su pietra, ma ara mundi, l'altare del mondo. E la Chiesa esiste soltanto per questo: per annunciare questa gioiosa speranza a tutti gli uomini, perché tutti sono chiamati a questo convito di grazia; tanto che ognuno può fare propria la voce del salmo che dice a Dio: "Tu hai cambiato il mio lamento in danza, hai mutato il mio saio in abito di festa". Ma chi può veramente incontrare il Risorto, se non chi cerca il Crocifisso? Chi può veramente partecipare alla Pasqua del Signore, se non chi ha imparato a gioire con chi gioisce e a piangere con chi piange?

Ho letto De senectute di Norberto Bobbio e mi ha fatto male la sua dichiarazione: "Non ho nessuna speranza. In quanto laico, vivo in un mondo cui è sconosciuta la dimensione della speranza". Sono però sempre più convinto che certi uomini, retti e onesti, sono migliori delle loro parole e penso che nessuno può vivere estraneo fino all'ultimo al mistero pasquale di Cristo. Colui che entrò a porte chiuse nel luogo dove i primi discepoli si erano rinchiusi per paura e che sempre sta alla porta e bussa aspettando che uno senta la sua voce e gli apra, possiede la chiave di ogni cuore per l'ora che solo lui conosce. "Il tuo volto, Signore, io cerco: non nascondermi il tuo volto". La voce del salmo è la voce, insistente e umile, d'ogni credente, anche per chi non riesce a credere.

Penso spesso ai due discepoli fuggiti da Gerusalemme, dove hanno assistito alla morte nel luogo del Cranio come atto finale. E' il terzo giorno, ma essi il Risorto non l'hanno visto e hanno perduto la speranza. "Noi speravamo", dicono con amarezza. Hanno perduto la speranza e li ha invasi la tristezza. Non ci può essere vera gioia senza speranza. Il Signore li raggiunge sulla via e cammina con loro, ma i loro occhi sono incapaci di riconoscerlo. Quando però, giunti al villaggio, egli "finge" di andare oltre, allora essi lo invitano, anzi "lo costringono" a fermarsi con loro. Era quello che voleva. Accetta l'invito, si mette a tavola con loro e comincia a spezzare il pane. Allora i loro occhi si aprono e lo riconoscono. Ma il cuore aveva già cominciato a battere quando lungo la via conversava con loro.

E' urgente riscoprire il significato della Via. E' urgente che i credenti si riconoscano, come i primi cristiani, "seguaci della Via". La Via non è solo una dottrina o un'etica, è innanzitutto una persona, è il Cristo crocifisso e risorto, che ci ha raggiunti e con noi cammina e con noi conversa per liberarci dalla tristezza e riconciliarci con la speranza. Aspetta sempre d'essere invitato, per spezzare il pane con noi e aprire i nostri occhi. Ma il gesto di "spezzare il pane", che riassume tutta la sua esistenza, deve tradursi nella vita di ogni commensale, che impara a spezzare il pane ogni giorno con ogni uomo con cui cammina. Se solo si sapesse nell'incontro di ogni giorno ripetere il gesto di pace, diventato troppo spesso un gesto puramente rituale, come autentico gesto di comunione e di speranza, la Pasqua potrebbe uscire dal tempio e penetrare anche attraverso le porte chiuse.

Il comandamento nuovo ("amatevi come io ho amato voi"), che Gesù proclamò istituendo l'eucaristia, convito nuziale del suo amore, è l'invito più pressante a superare ogni forma di egoismo e ad abbattere ogni muro di divisione, per giungere alla vera comunione con lui e fra di noi. Dante indica come caratteristica del Regno "che solo amore e luce ha per confine", la comune partecipazione al sommo Bene che rende beati: "per quanti si dice più lì 'nostro', tanto possiede più di ben ciascuno" (Purg XV 55-56). Il "noi" della liturgia non sopprime l'io personale, ma soltanto l'individualismo che sconfina nell'egoismo. A nessuno Dio ha dato tutto, ma ha dato a ciascuno un dono da mettere in comune. Se amo ho nell'altro ciò che io non ho. Dico "Padre nostro" e chiedo ogni giorno il "nostro pane", senza pensare troppo che un terzo del genere umano soffre la fame. Così vado alla "comunione" con l'illusione di ricevere un bene esclusivo. Dovrei tornare da messa meno soddisfatto e andarci più consapevole. Non devo andare a messa per sentirmi a posto, ma per imparare ad amare come sono amato, chiedendomi, almeno qualche volta, se per caso il mio atteggiamento non tenga lontano dalla mensa del Signore qualcuno che come me è invitato.

Roma, Pasqua 1997

 

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