Gesù risorto e Tommaso, Santo Domingo di Silos, bassorilievo XI secolo (Burgos)

 

Lettera di Pasqua agli amici ~ 1999

Noto che oggi è molto diffusa l'attesa spettacolare del regno di Dio. La gente accorre appena giunge voce di qualcosa di straordinario e di miracoloso. E' certo che Gesù compì dei miracoli, ma è altrettanto certo che egli non venne per questo. Il primo miracolo lo compì alle nozze a Cana in Galilea. Prima di allora egli condusse a Nazaret, umile villaggio della Galilea, una vita del tutto simile alla nostra. Né fece mai nulla per attirare l'attenzione, tanto che i suoi compaesani furono gli ultimi a credere. "Venne in casa sua, ma i suoi non lo hanno accolto" (Gv 1,11). E proprio a Cana, dove compì il primo miracolo, ad un funzionario del re venuto a chiedergli la guarigione del figlio, non senza malinconia, disse: "Se non vedete segni e prodigi, voi non credete" (Gv 4,48). Avrebbe voluto che credessero in lui senza pretendere segni straordinari.

Ai farisei che pretendono un segno straordinario risponde che non sarà dato altro segno se non quello di Giona il profeta, e cioè il segno della sua morte e sepoltura fino al terzo giorno glorioso. Un segno distintivo che richiama il primo segno dato ai pastori di Betlemme: "Troverete un bambino avvolto in fasce e adagiato nella mangiatoia". Gli chiedono quando verrà il regno di Dio, ed egli risponde che il regno di Dio non viene in modo da attirare l'attenzione, cioè in modo spettacolare, perché il regno di Dio è già in mezzo a noi. Tale discrezione risponde ad un particolare riguardo ai più deboli. Egli non vuole frantumare la canna spezzata né spegnere il lucignolo fumigante.

Durante l'ultima Cena dichiara che si manifesterà a chi lo ama. Allora un discepolo gli chiede perché vuole limitarsi a tale manifestazione silenziosa. Non sarebbe meglio se si manifestasse al mondo con tale potenza e maestà da soggiogarlo? Gesù risponde confermando il suo stile umile e silenzioso. Lo stile che definitivamente manifesta nell'Apocalisse, con il tenero accento di una lettera personale: "Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me" (Ap 3,20).

Tutto ciò conferma il suo stile di vita, l'umiltà che lo indusse a spogliarsi della sua gloria divina per assumere la nostra condizione umana, a scegliere anzi la condizione di schiavo facendosi obbediente al Padre fino alla morte, morte di croce. "Per questo Dio lo esaltò" risuscitandolo da morte e costituendolo Signore. La fede, insegna san Paolo, è fondata su questo: "Se con la tua bocca proclami che "Gesù è il Signore", e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo" (Rm 10,9). Questo è il nucleo essenziale di quella fede "ch'è principio a la via di salvazione": riconoscere che Gesù Cristo è venuto nella carne, che nella carne è stato veramente crocifisso e nella medesima carne è veramente risuscitato, e che oggi vive in noi come speranza della gloria.

A ben vedere, il miracolo più grande sta nel fatto che il Figlio di Dio accettò la condizione umana in tutto simile alla nostra fino alla morte di croce. Così egli manifestò la sua gloria, che altro non è se non il suo amore folle per l'uomo. E l'unico privilegio che promette a chi lo segue è quello di bere il suo stesso calice. Prendendo posto a tavola per l'ultima cena pasquale, dichiara "Io sto in mezzo a voi come colui che serve" (Le 22,27). E promette che nel suo regno ci farà sedere a tavola e lui stesso passerà a servirci (Lc 12,37). Insegnandoci così che il metterci a servizio gli uni degli altri è l'unico modo di osservare il comandamento nuovo, cioè l'amore vicendevole. Ed è questa l'unica condizione per essere un giorno suoi commensali, serviti personalmente da lui.

Di recente sono tornato in Siria e con amici fiorentini e romani ho celebrato l'Eucaristia sulle rive dell'Eufrate, dove passò Abramo quando Dio lo chiamò. Egli partì senza sapere dove sarebbe andato a posarsi, fidandosi unicamente di chi l'aveva chiamato. Con Abramo comincia l'avventura della fede. Ma ricordo spesso anche Teresa di Lisieux, la quale dichiarò: "Oh! no, io non desidero vedere il buon Dio sulla terra. E tuttavia lo amo!". Si accontentava di vivere di fede camminando nell'oscurità, in attesa della luce senza tramonto. E mi consola molto ciò che scrisse san Pietro ai primi credenti sparsi nel Ponto, nella Galazia, nella Cappadocia e nella Bitinia, i quali, come noi, non avevano visto coi loro occhi il Crocifisso Risorto: "Voi lo amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui". E aggiunse anche per noi: "Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre raggiungete la mèta della vostra fede" (1 Pt 1, 8-9).

Roma, Pasqua 1999

 

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