Omelia di Don Silvano Nistri nel trigesimo della morte di Don Emilio Gandolfo

(Roma, 3 gennaio 2000 - Letture da Sapienza 3, 1-9 - Salmo 121 - 2 Cor. 4,5 - Gv. 19,25-31)

 

Gesù, vedendo la madre e lì, accanto a lei, il discepolo che egli amava, disse alla madre: "Donna, ecco il tuo figlio!". Poi disse al discepolo: "Ecco la tua madre!" (Gv. 19,26-27)

Il ritorno dei settantadue discepoli dalla missione, secondo il Vangelo di Luca, viene salutato dal Signore con una eucaristia, cioè con un commosso inno di grazie. "Gesù esultò nello Spirito Santo e disse: "Io ti lodo, o Padre, che hai voluto rivelare ai piccoli i misteri del Regno…"

Anche noi che siamo riuniti nel ricordo di don Emilio abbiamo il dovere di partire di qui, da questo grazie; di fare davvero, anche in questo senso, eucaristia. La sua morte ci ha lasciato sgomenti: non solo la perdita ma il modo con cui è avvenuta sono un pensiero insistente che non ci riesce di cancellare dalla mente. Eppure c’è anche, profondo, in tutti noi, il sentimento di riconoscenza al Signore per questo prete umile e schivo, per la sua presenza tra noi tanto luminosa e serena, per quanto lui ci ha dato e ha significato nella nostra vita. Un piccolo prete, sempre consapevole della sua povertà, eppure capace di far risplendere – lo dice l’apostolo Paolo nella seconda lettura (2 Cor. 4,5-16) – qualche raggio "della conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo." Scriveva Emilio nel ‘63, dal traumatologico di Roma dove era ricoverato per un grave incidente: "Il vaso di creta che noi siamo esperimenta tutta la sua povertà. Ma proprio allora si accorge di portare una ricchezza divina".

Il vangelo della messa (Gv. 19,25-31) è il racconto della morte di Gesù, lo stesso delle esequie a Vernazza. Un brano caro ad Emilio.

Intanto è di Giovanni, l’evangelista che lui prediligeva. Tra le sue fatiche c’era stata la traduzione del commento a Giovanni di Agostino, che avrebbe anche desiderato rivedere.

Amava sempre introdurre il Vangelo di Giovanni citando Origene: "Occorre aver l’ardire di affermare, da una parte che i Vangeli sono le primizie di tutta la Scrittura; dall’altra parte che primizia dei Vangeli è Giovanni il cui senso profondo non può cogliere se non chi abbia poggiato il capo sul petto di Gesù e da lui ricevuto Maria come propria madre".

E poi la morte del Signore, morte come compimento"tutto è compiuto" – come atto conclusivo e definitivo del progetto di Dio. "Una vita compiuta è come una spiga colma, matura", scriveva. "È compiuta quando in essa è compiuto il mistero per cui è stata concepita. Non si nasce per caso e non si vive per caso. E la morte, più che la fine è da considerare il compimento (tèlos). Tale è il senso dell’espressione di Giovanni."

Si dice spesso, forse senza neanche rifletterci troppo, che il mistero del cristiano è il mistero stesso di Cristo, che siamo stati battezzati nella sua morte, ma raramente avviene che una morte ci interpelli tanto come nel caso di Emilio. Una morte tanto assurda e gratuita, in pura perdita, dove sembra essersi scatenata tutta la cieca violenza del mondo. Potrà anche essere catalogata tra gli episodi di cronaca nera quotidiana, uno dei tanti, uno qualsiasi, ma, sul piano religioso, ha riferimenti, coincidenze misteriose, che non lasciano indifferenti. Ritorna insistente la parola del Signore: "Dove sono io là sarà anche il mio servo".

Una icona da contemplare, il brano evangelico, tra l’altro esclusivo dell’evangelista Giovanni, dove compaiono due personaggi senza nome che assumono un evidente valore di simbolo.

C’è la madre, la donna: due titoli scelti dall’evangelista in evidente parallelismo con le nozze di Cana, quella pagina che Emilio, a voi amici di Roma, ha commentato tante volte, spesso attualizzandola perché qualcuno di voi festeggiava anniversari particolari. A Cana il primo dei segni, l’archetipo; qui, sul Calvario, l’ultimo, il compimento. Qui si compiono le nozze messianiche di cui Cana è figura e anticipazione. E ora come allora è presente Maria, dalla parte nostra: lei accoglie il discepolo come figlio, anche lei peregrinante nella fede, anche lei discepola del Signore, immagine della Chiesa: "la faccia che a Cristo più si somiglia, amava dire Emilio con il suo Dante, "la sua chiarezza sola ti può condurre a veder Cristo."

E c’è il discepolo, il discepolo che Gesù amava, il discepolo senza nome che, dirà Gesù a Pietro, deve rimanere. "Se io voglio che egli rimanga finché io venga, che importa a te?", il discepolo con la cui testimonianza si chiude il Vangelo di Giovanni. Chi è questo discepolo di cui Pietro sembra non abbia neanche il diritto di interessarsi, che arriva primo al sepolcro, che è sempre il primo a riconoscere il Signore, che deve rimanere nella Chiesa sempre , quello sul quale l’istituzione ha il dovere di non metter le mani? È certamente l’amore cristiano, l’agàpe con tutte le sue esigenze di libertà e di gratuità; l’amore vigile, contemplativo, silenzioso, che non avanza diritti, che non ha potere, non ambizioni o progetti propri da rivendicare. La sua Teresa di Lisieux aveva qui trovato la sua vocazione: "Io nella Chiesa sarò l’amore" e l’altro amico di Emilio, Origene, commentando il brano evangelico che abbiamo ascoltato, concludeva: "Io sono quel discepolo e la Chiesa mi deve sentire figlio".

Credo che questo sia il punto da cui bisogna partire per capire Emilio: voleva solo essere discepolo del Signore. " A dispetto dell’etimologia – gli aveva insegnato Lyonnet – il discepolo non è colui che impara un catechismo. No: è uno che entra in contatto intimo con Cristo e lo segue e ne condivide la vita, fino in fondo".

Aveva fatto esperienze le più diverse, aveva cambiato più volte residenza, aveva, anche nel campo degli studi, percorso diverse strade. Ma sarebbe un errore attribuire tutto questo ad un carattere inquieto, alla ricerca della propria identità. Emilio è lo stesso, fin dal primo giorno del suo sacerdozio. Primo Mazzolari, scrivendogli in occasione dell’ordinazione sacerdotale, lo aveva capito subito: "Tu vedi col cuore e ti sei messo dalla parte dell’amore per vedere il tuo altare". La molla della sua ricerca, pur nella consapevolezza delle sue misure umane, era solo l’esigenza di potare sempre di più le fronde per ridursi lì, al vangelo. Questo significava per lui esser discepolo. L’ideale è alto. Ogni giorno sei sul piede di partenza. Vertigini, momenti di pànico sono comprensibili. Ma, diceva con Agostino, "per trovare il Signore bisogna cercarlo perché è nascosto e quando si è trovato bisogna cercarlo ancora perché è immenso."

Anche il suo studio, serio ma mai accademico, era orientato quì: gli serviva per questo scopo. Un anno fa, poco più, a Damasco, siamo andati insieme a trovare le piccole sorelle di Gesù. All’uscita dalla casa, nel cortile di un poverissimo condominio arabo, dopo un colloquio con sorella Pia che ci aveva particolarmente colpiti, sento ancora la voce commossa di Emilio:" Vogliono dare il sacerdozio alle donne. Sarebbe un delitto. Sarebbe togliere loro il vangelo. Il sacerdozio è potere. Questo è il vangelo." Non mi pare che dal sacerdozio Emilio abbia avuto un gran potere, almeno potere umano, ma anche quel poco gli sembrava troppo.

Don Emilio era un monaco. Del monaco aveva gli ideali, lo stile di vita, il radicalismo evangelico, il metodo di lavoro, la libertà spirituale. Come monaco metteva al primo posto la lectio divina, quella lettera di Dio agli uomini scritta non con l’inchiostro ma con lo Spirito di Dio vivente, che, diceva con Gregorio, ci fa conoscere il cuore di Dio nelle parole di Dio.

Come monaco frequentava i Padri: il suo Gregorio, Agostino, Ambrogio, Origene, i Cappadoci, su su fino a Carlo De Foucauld e a Teresa di Lisieux, ma sempre con una curiosità spirituale che lo portava a scoprire anche gli ultimi autori, da Bernanos ad Erri De Luca, da don Milani a Turoldo, da Pomilio a Pier Giorgio Camaiani. Una conoscenza mai erudita, tutta volta ad alimentare qualcosa che è dentro, e sempre partecipata agli amici con quei foglietti minuscoli sui quali era solito trascrivere i brani più saporosi. Era questa la sua quotidiana conversazione. "Conversatio nostra in coelis est…"

Del monaco aveva il distacco dalle cose, il metodo di lavoro, gli orari di preghiera, la passione per la liturgia. Come monaco amava il deserto. Che belle cose ha scritto sul deserto Emilio! La messa nel deserto era uno dei momenti più alti nei suoi itinerari in Terrasanta: il deserto come luogo dove Dio chiama per parlare al cuore; dove gli orizzonti si dilatano e crollano gli idoli perché rimanga solo il Signore; il deserto come scuola severa dove l’uomo viene spogliato delle sue sicurezze per essere rivestito dell’unica speranza che non delude.

Eppure avrebbe avuto difficoltà a stabilirsi in un convento, in una qualche famiglia religiosa che gli togliesse la sua libertà: beninteso la libertà di poter esser discepolo come lui voleva essere. Aveva il carisma della libertà. "Il Signore è lo spirito, dice l’apostolo Paolo, e dove è lo spirito del Signore ivi è libertà".

Sì, Bose cui ha lasciato la sua biblioteca, o Lanuvio, dove lo dirigeva la sua simpatia per tutto ciò che è giovane, che si apre agli orizzonti nuovi dello Spirito. Però alla fine Emilio si difendeva. A me fiorentino faceva venire in mente un altro personaggio che a Firenze ha dato tanto e che per certi aspetti gli somigliava: don Bensi. Quando, tra i preti, si cominciò a parlare di comunità sacerdotali, don Bensi stava a sentire anche con simpatia. Poi diceva: "Io sono come san Filippo Neri. Fondò una comunità ma stette sempre solo". Emilio era così. Era entrato giovanissimo nella Card. Ferrari, amava la Compagnia dove aveva inteso realizzare un suo ideale missionario, ne aveva vissuto, anche con sofferenza, tutte le vicende, ma di fatto era sempre rimasto un po’ ai margini.

Monaco nel mondo – a Roma, a Levanto, a Bonassola, a Vernazza– e anche con una autonomia di gestione ammirevole – "ma le camicie non ho ancora imparato a stirarle", diceva, prendendosi in giro – ma in mezzo alla gente. E non è una contraddizione. Il deserto per Emilio non era evasione, non era una fuga. Leggo parole sue: " Il deserto che anche su noi esercita un fascino potente, non è evasione dalla città che anzi tende a renderci spazi di libertà e di comunione. È qui nella città che il cristiano è chiamato a realizzare la sua vocazione nella fedeltà a Dio e alla terra degli uomini. Se dall’aridità e dalla solitudine nascerà una più ardente sete di Dio e un più sincero bisogno di comunione fraterna anche il deserto della città è destinato a fiorire." Diceva con Peguy: "Il Figlio che Dio ci ha mandato ha importato in cielo un certo gusto dell’uomo, un certo gusto della terra". Da allora neanche gli uomini possono più amare Dio senza un certo gusto dell’uomo.

E il suo ministero al Virgilio, che era stato certamente il periodo più bello della sua vita, aveva rivelato questo suo amore per gli uomini. Il Virgilio era l’unico luogo dove il nomade Emilio aveva messo radici. Mi sono riletto in questi giorni la raccolta delle lettere curata per il suo cinquantesimo di sacerdozio. È una pubblicazione che andrà ripresa, ordinata e integrata, certo non si può perdere. Oggi, a distanza di anni, questo rapporto con i suoi ragazzi ci sembra miracoloso. Un rapporto sempre ispirato alla fede, sorretto da un grande amore e rispetto.

Non intendo fermarmi troppo su un servizio che molti di voi hanno conosciuto di persona, e che ha lasciato segni incancellabili. Don Emilio ha amato i suoi ragazzi di un amore umanissimo, ma senza mai sovrapporsi, rispettando la personalità di tutti, anche i loro difetti, così com’erano. Un’attenzione a ciascuno, fatta di premure, di rispetto fino allo scrupolo. L’ultima volta che ho visto Emilio è stato l’11 novembre scorso. Veniva da Roma. Quando sono andato a prenderlo a Firenze, mi ha raccontato che si era fatto accompagnare alla stazione Termini da uno di voi. Era commosso nel riferire che la persona interpellata per telefono si era subito resa disponibile. Anzi, prima di lasciarlo, gli aveva detto: "Mi sarei offesa se tu non me l’avessi chiesto".

Con questi ragazzi della scuola aveva cominciato ad organizzare i suoi viaggi, viaggi avventurosi, bellissimi, che oggi sembrano appartenere a un’età favolosa, in Grecia, in Egitto, in Asia Minore, in Palestina. Soprattutto con loro aveva vissuto la grande stagione del Concilio e l’aveva vissuta con l’entusiasmo di un giovane. Quante volte nelle sue lettere di quegli anni – prima erano solo scritte per Natale e per Pasqua ma al tempo del Concilio cominciano ad essere scritte regolarmente anche per Pentecoste – parla commosso di papa Giovanni. "In maniera singolarissima egli ci ha riportato al Vangelo e ce ne ha rivelato l’originalità, la semplicità, la profondità, l’attualità e ci ha aiutato a gustarlo come si gusta il pane di casa fatto da nostra madre, come si respira a pieni polmoni l’aria del paese in cui siamo nati". E poi Paolo VI. Erano i suoi papi.

La Chiesa del Concilio era la sua Chiesa, la Chiesa del dialogo, la Chiesa in ascolto della parola di Dio ma anche in ascolto degli uomini ai quali è inviata, la Chiesa i cui abitanti sono gli abitanti di tutto l’ecumène, che ha ritrovato la sua vocazione profetica, che sa rendere storicamente visibile quel soffio dello Spirito che è il suo vero segreto, pronta a buttar via le ricchezze d’Egitto che la appesantiscono e le impediscono di camminare, capace di raccogliere "con reverenza e gioia" i semi del Verbo presenti in ogni cultura, in ogni religione, in ogni esperienza umana.

Emilio cerca di trasmettere ai suoi ragazzi questa passione, questo entusiasmo. Ma deve farlo a suo modo, con grande rispetto e sempre nella fedeltà al vangelo. La bussola è quella. Scrive negli anni difficili della contestazione: "L’unico modo di vincere e superare la violenza che inquina la terra non è rispondere con un’altra violenza, ma uscire dal sistema della violenza. E per uscire dal sistema della violenza è necessario credere davvero a quell’amore che solo è capace di rigenerare il mondo. Non è debole l’amore, è più forte della morte."

Lasciò il Virgilio nel ‘72, dopo vent’anni, convinto che fosse ormai chiusa una stagione. Da allora il ritorno alla sua Liguria, poi l’impegno in Terrasanta, dove ebbe la fortuna di frequentare lo Studio Francescano, discepolo di padre Bagatti. È con Bagatti che si conclude la triade di quelli che considerava i suoi maestri: Lyonnet, Pellegrino, Bagatti. I viaggi – Terrasanta, Siria, Grecia, Russia, Egitto, Asia Minore, Africa – furono sempre più numerosi, sempre occasione di apostolato e di nuove amicizie – quanti amici aveva don Emilio? – e svolti con un segreto di giovinezza commovente e con uno sguardo di fede che sapeva sempre andare oltre – oltre il segno, oltre i monumenti o la storia – per arrivare al mistero. Ab historia in mysterium.

Trovo una sua confessione, che sa tanto di autobiografico, in due di quei volumetti che lui preparava per i suoi itinerari sulle orme di Paolo. Sono due pagine scritte in tempi diversi. Ne metto insieme poche frasi a collage. Credo ci aiutino a conoscere Emilio. Scrive, dunque, in una sorta di dialogo personale con l’apostolo Paolo: "Lascia ora, Paolo, che dopo aver parlato di te, parli un po’ con te. Ti voglio dire grazie per averti incontrato. Non so immaginare la mia vita senza questo incontro… Quand’ero giovane ero affascinato dal tuo spirito avventuroso, dal tuo correre da un capo all’altro della terra per portare a tutti, piccoli e grandi, il nome di Cristo… Poi mi hai insegnato che il discepolo di Cristo deve innanzi tutto accettare umilmente se stesso e insieme il mistero di Cristo operante in lui. La vita intesa non tanto come una mèta interamente davanti, ma come l’approfondimento di una realtà già posseduta… ‘Per me il vivere è Cristo…’ Sì, una corsa fervida, non ansiosa, ma come progressivo e totale aprirsi a qualcosa che sta germogliando dentro, nell’ interiorità, dove nulla rimane escluso o negletto, dove tutto viene accolto e amato nel soffio vivificante dello Spirito. ‘Tutto è vostro: il mondo, la vita e la morte, il presente e il futuro. Sì, tutto è vostro ma voi siete di Cristo come Cristo è di Dio’ (1 Cor. 3,22)".

Cosa ci lascia Emilio?

Intanto ci lascia questa testimonianza di fedeltà alla sua vocazione. C’è un mistero del prete che è sempre mistero di uno sguardo di amore particolare da parte di Dio. Non si è preti da sé, né per sé. "Noi non predichiamo noi stessi ma Cristo Gesù come Signore. Siamo i vostri servitori per amore di Gesù." Non ci lascia delle cose: è morto povero, ma ci lascia se stesso, la testimonianza della sua vita. Aveva scritto nell’89: "Povertà umana e gratuità divina. Due temi che da mesi vado ruminando e di cui ora colgo meglio l’antitesi e insieme la misteriosa sintesi. Colui che è infinitamente ricco si è fatto povero per noi, onde arricchirci non con la sua ricchezza, ma con la sua povertà. ‘Spogliò se stesso’ significa ‘donò se stesso’".

Ritorno sulla morte di don Emilio. Nel 1987 era andato a Tamanrasset, nel deserto del Sahara, sui luoghi di Carlo De Foucauld. Al ritorno scrisse agli amici: "Fratel Carlo non è morto martire, ma assassinato in un fortino di Tamanrasset, all’alba del 1 dicembre 1916. Egli è morto solo, ma la sua morte è l’ultimo atto di una vita…grano di frumento, sepolto nella sabbia, in pura perdita. Ma il frutto non si è fatto attendere." Certo balza agli occhi l’affinità sorprendente tra la sua morte e quella morte. Non sarà forse anche questa morte il certificato di autenticità del discepolo?

Ci lascia questo suo segreto di giovinezza che lo ha accompagnato fino all’ultimo. Don Emilio è morto giovane, con quell’intatto stupore di cui parlava tante volte, lo stupore del pastore del presepio di Bonassola – ravì – che ha le mani vuote. Ha solo da offrire al Signore il suo stupore. "Colui che cerca non cessi mai di cercare finché non trovi, quando avrà trovato si stupirà…"

Ci lascia un’immagine di Chiesa, ma di una chiesa povera, che "non nasconde la sua infermità e umana debolezza", convinta che virtus in infirmitate perficitur, soprattutto una Chiesa che si lascia portare dal vento dello Spirito.

E ci dà un appuntamento. Ho ripensato in questi giorni ad un romanzo che gli era caro, i Karamazov, e a quel discorso di addio che il monaco Alioscia, il monaco che vive nel mondo, dà ai suoi ragazzi. È un invito alla gioia e alla speranza. Sono parole, quelle del discorso di addio presso la pietra di Iliuscia, che assomigliano tanto a quelle che don Emilio scrisse a modo di prefazione, nella raccolta stampata in occasione del cinquantesimo: "Ringrazio il Signore del dono di tanti amici, come della mia più vera ricchezza. È con tutti loro che io spero un giorno di trovarmi a tavola nel Regno. Allora potremo bere insieme il vino nuovo, come il Signore ha promesso nell’ultima cena, quando istituì il banchetto nuziale del suo amore, ordinando di fare questo in sua memoria e in attesa della sua venuta. Che disse allora consegnando il calice nelle mani dei suoi discepoli? In verità vi dico che io non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel Regno di Dio (Mc.14,25). È un appuntamento al quale, certo, nessuno vorrà mancare."

 

 

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