DIRETTRICE DI RIVISTA

ELISABETTA ALESSAndrini

    "Il "pallino" della giornalista l'ho avuto fin dall'inizio, da quando al liceo scrivevo sul giornalino della scuola (era la fine degli anni '60). Mentre frequentavo l'Università ho iniziato a fare quel che mi capitava: dalla correzione di bozze di libri (sottopagata, ma comunque un mezzo per iniziare ad infilare il naso nel mondo dell'editoria) a piccoli articoli per giornali, a pezzulli sulle pagine milanesi di Repubblica (che nascevano in quegli anni). Insomma scrivevo un po' di tutto per quattro lire. Ho fatto anche per un paio di estati la "tremesista" in un settimanale nazionale: ti facevano un contratto a termine per lavorare in redazione e sostituire i giornalisti che andavano in ferie, puro lavoro di manovalanza, ma era entusiasmante lavorare in una redazione vera! Sono andata avanti così fino all'ultimo anno di Università, quando seppi che a Livorno, alla redazione del "Tirreno" cercavano giovani volenterosi. Conoscevo il direttore, feci un colloquio ed ebbi il mio bravo contratto a termine: 6 mesi.

    Finalmente un quotidiano! Era esattamente quello che avrei voluto fare. Ero così entusiasta che non mi feci toccare più di tanto neanche dal fatto che, fra giornalisti e tipografi, ero la sola donna, né dall'ambiente, diciamo goliardico, che regnava allora nelle redazioni dei quotidiani di provincia, né dalle difficoltà inutili che colleghi anziani ed esperti mettono di fronte all'ultimo arrivato. Mi ricordo che il primo pezzo che dovetti scrivere fu la cronaca di una partita di calcio tra due squadre locali. Di calcio non ne capivo assolutamente niente, di quelle squadre non conoscevo l'esistenza (erano di non so quale girone, di non so quale categoria!). Mi ritrovai con l'elenco dei nomi dei calciatori e un block notes in mano, seduta su un gradino di uno stadio.

    Panico! All'inizio cercai di seguire quel che accadeva, ma persi subito il filo. Scrissi un pezzo di folklore calcistico (dando ovviamente il risultato della partita, ma niente di più). Tornai in redazione con una certa fifa e il capocronista (che avvedutamente aveva mandato anche qualcun altro a quell'incontro), si congratulò con me per non essermi persa d'animo. Una "messa alla prova" che aveva funzionato, per mia fortuna  Livorno fu un'esperienza davvero importante: capii che quello era il lavoro che volevo fare. E' vero, il pensiero femminile non era certo il pensiero dominante nella redazione, ma un po' di "avventurismo" femminista da un lato e un po' di disponibilità, mi diedero la possibilità di farcela. Lavorare in un mondo di uomini - perché la redazione di un giornale, se si escludono i femminili è un luogo di lavoro "al maschile" - significa doversi comunque abituare a convivere ancora con modi, tempi, linguaggi diversi. _ un confronto che sicuramente aiuta poi anche nella vita di tutti i giorni, ma allora, giovane e anche inesperta, mi trovai a fare i conti con un genere di relazioni complesso. Un esempio?     Mi ricordo che avevo un paio di jeans con dietro due tasche di tessuto rosso fatte a forma di mela. Per andare dal mio tavolo a quello del capocronista dovevo attraversare uno stanzone nel quale erano disposti, a ferro di cavallo, i tavoli dei miei colleghi, che da quel giorno mi soprannominarono "belle mele". Il mio spirito femminista si ribellò immediatamente, ma non ci fu verso, indipendentemente dai pantaloni che avessi quello fu il mio soprannome. Che fare? Decisi di prendere la cosa come un complimento, di non darle peso e un po' alla volta, riacquistai il mio nome.     Questo in una redazione femminile non sarebbe mai accaduto! Evidentemente dovevo funzionare nel lavoro perché quando l'editore del "Tirreno" (il Gruppo L'Espresso) acquistò la "Provincia Pavese" mi proposero di entrare in quel giornale con un contratto vero, cioè da praticante. Era fatta!

    Feci il praticantato, l'esame, divenni professionista, andai per sei mesi a Sassari alla "Nuova Sardegna". Un'altra avventura. Il giornale passava dalla vecchia tecnologia a piombo, ai nuovi sistemi informatici che a Pavia già si usavano. Mi interessava lavorare da cronista, non fare cioè "carriera" interna come caposervizio, caporedattore, eccetera. Del giornalismo mi piaceva "lo stare sul campo" e del quotidiano il fatto che nell'arco di una giornata il tuo lavoro era compiuto: cercare la notizia, scoprirla, raccontarla e vederla stampata, letta dagli altri il giorno dopo. E poi c'era la possibilità di dare una lettura femminile anche dei fatti di cronaca spicciola, di proporre inchieste che ai colleghi maschi non venivano neanche in mente. Mi ricordo che in Sardegna feci un'inchiesta a più puntate sulla situazione delle donne sarde; girando in Barbagia, nel Gennargentu, nelle città e nei paesi, raccontai storie sepolte, sconosciute, incontrai donne straordinarie ed ascoltai e raccolsi i loro racconti, le ansie, le gioie. Questo potei farlo solo perché anche io ero donna come loro. Tempi e orari della redazione di un quotidiano non ti consentono però di avere i ritmi delle persone normali che cenano ad una certa ora, vanno al cinema, possono programmare una cena o un teatro. E' tutto irrimediabilmente scandito dalle necessità anche improvvise del giornale. E' sicuramente una professione totalizzante: i colleghi diventano spesso gli amici perché hanno i tuoi tempi, gli altri, gli amici che fanno lavori diversi, si diradano, i compagni (mogli e mariti di giornalisti/e) devono avere una grande disponibilità. Non è un caso che molti giornalisti siano single, né che le mogli siano considerate "vedove-bianche", né che di donne nelle redazioni ce ne siano poche e, fra queste, pochissime con figli.

    A proposito di figli, nell'82 nacque la mia prima figlia, poi un altro, un altro ancora fino ad arrivare a cinque. Ma giornalismo e figli convivono a volte assai male. Riuscii a lavorare, facendo i salti mortali fino alla nascita del terzo: accettavo i turni notturni che mi consentivano di stare il più possibile con loro, ma ormai avevo fatto una scelta che con il giornalismo, soprattutto con quel tipo di giornalismo, era incompatibile.

    Non fu difficile mollare perché la nuova avventura, quella di madre, mi attirava, mi coinvolgeva; non mi sentii costretta o frustrata quando diedi le dimissioni e mi trasferii con tutta la famiglia che andava crescendo, nella campagna tra Pesaro e Urbino, vicino al luogo di lavoro del padre dei miei figli. Bambini, animali, conserve di pomodoro, marmellate, altre donne con figli, asili. Insomma un'altra storia sia nelle Marche sia a Milano dove tornai quando mia figlia iniziò le elementari. A Milano ritrovai vecchie amicizie, ricominciai ad andare al cinema, ad uscire dal ruolo di donna di campagna - nel quale peraltro stavo bene - a scrivere qualche articolo; ma il ritorno fu l'inizio di un'epoca davvero difficile. La lontananza con il padre dei miei figli - che rimase a Pesaro a lavorare e tornava nei week end - il peso di una famiglia "pesante", la casa, le scuole, gli asili, i pannolini ecc. ecc. Di fronte all'infrangersi del sogno della grande famiglia perfetta nella quale padre e madre si alternano ruoli, fatiche e piaceri, mi ritrovai con cinque figli sulle spalle, una relazione assai logora e la voglia di riappropriarmi del mio cervello.

    Bisognava fare qualcosa e sapevo che prima o poi qualcosa sarebbe arrivato. Mandai l'ultimo figlio al nido a due anni e iniziai a guardarmi intorno. Con un amico ci venne l'idea di realizzare anche a Milano (già esisteva a Bologna oltre che all'estero) un giornale di strada, scritto e distribuito dai senza fissa dimora. Facemmo nascere così "Scarp de tenis", con tanto di redazione, cronisti e segretari. Ricominciai a lavorare, anche se solo mezza giornata e con ritmi assai flessibili. Il pomeriggio mi occupavo dei figli, della casa, spesa e resto. Facevamo stampare il giornale dalla tipografia interna del supercarcere di Opera. Lì nacque un altro progetto: realizzare un periodico scritto dai detenuti che facesse sentire la voce di chi "è dentro". Ci lavorai un anno, riuscii a mettere in piedi una redazione con detenuti e detenute con la quale mi incontravo due mattine alla settimana.     Purtroppo l'esperienza non ebbe seguito: fatto il numero zero, dovetti lasciare. Da un lato la burocrazia, dall'altro la volontà a non fare uscire quel che è "dentro", mi costrinsero a non portare a termine il progetto, che purtroppo non ebbe seguito.

    Nel frattempo, sul piano personale, mi separai. Anche questo non fu semplice. Andai a vivere con i bambini e con il mio nuovo compagno (quell'amico con il quale avevo ripreso a lavorare): fu un periodo durissimo. A ciò si accompagnò, sul fronte lavorativo, una nuova iniziativa; cedemmo la testata "Scarp de tenis" e ne fondammo un'altra "Solidarietà Come", un quindicinale distribuito per strada da extracomunitari. Il giornale esiste da sei anni ed io lo dirigo; abbiamo una redazione formata da ragazzi italiani e immigrati, scriviamo di attualità, di cronaca, di arte, di

cultura, di libri; insomma una finestra sulla diversità, su modi diversi dai nostri di vivere. L'obbiettivo è, da un lato quello di far conoscere "gli altri" e la loro diversità, dall'altro quello di consentire ai ragazzi italiani e non, di iniziare la loro strada in un giornale.

    Guardando chi adesso vuole fare questo mestiere mi ritengo fortunata ripensando ai miei inizi; oggi è più difficile entrare in un giornale, anche se per contro è più semplice trovare situazioni informali: dai giornali di quartieri a quelli delle associazioni, dalle possibilità che dà Internet, allo spazio offerto dal volontariato. Inoltre un po' di fantasia non guasta mai; alle volte bastano un po' di menti che si mettono insieme, parecchie braccia, una buona idea e qualche soldo (non tanti) per iniziare un'avventura che può diventare il sogno di una vita".

 

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