Le associazioni Donne in nero e non solo
e Assopace lanciano un appello: per il diritto alla
vita, terra, libertà del popolo palestinese. Per la pace
giusta tra israeliani e palestinesi.
Si uniscono ai comitati delle donne palestinesi
e delle donne israeliane per la pace. Insieme invocano
l'intervento sul territorio palestinese delle forze delle Nazioni
Unite per porre fine al massacro che, a seguito dell'occupazione
militare israeliana, causa, dal Settembre dell'anno scorso -
ogni giorno - morte, dolore, sofferenze.
Si organizzano e mettono in atto un progetto di
solidarietà e denuncia.
Infatti, dal 2 Dicembre, con
cadenza settimanale, le due associazioni organizzano
viaggi alternati in Palestina e Israele per visitare gli ospedali, i
villaggi, i luoghi bombardati, fermarsi ai check point militari e
testimoniare la verità.
'' Noi donne italiane che crediamo nella pace
vogliamo rispondere a questi appelli e portare i nostro occhi
testimoni, i nostri corpi solidali nei luoghi in cui si violano i
più elementari diritti umani. Andiamo in Palestina per fare,
simbolicamente, quello che le Nazioni Unite non vogliono e che
dovrebbero fare: interporsi pacificamente in difesa degli inermi,
cercare e impedire la violenza quotidiana, testimoniare la verità. E
vogliamo continuare a costruire relazioni con donne e uomini
palestinesi e israeliani, che lavorano per una pace giusta: il
riconoscimento delle Stato della Palestina nei confini del 67, il
ritorno dei profughi alle loro case, lo smantellamento degli
insediamenti israeliani, Gerusalemme condivisa, capitale dei due
stati''
Con queste parole vengono illustrate le
motivazioni del progetto.
Di seguito pubblichiamo le riflessioni
di Marinella Sanvito che ha partecipato a uno dei viaggi
delle Donne In Nero (2-8 dicembre scorsi) insieme alla
europarlamentare italiana Luisa Morgantini.
IO, DONNA VADO IN
PALESTINA
Per il diritto alla vita, terra, libertà del popolo
palestinese
Per la pace tra israeliani e
palestinesi
riflessioni di Marinella
Sanvito
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Le donne di Ramallah, le donne di Beit Jala, le
donne di Hebron, le donne di Gaza, le donne di Al Ram, le donne di
Bat Shalom e le donne in nero di Gerusalemme ovest e molte altre
ancora abbiamo incontrato durante il nostro viaggio in Palestina e
Israele.
|
Tutte ci hanno testimoniato una sofferenza e un
dolore difficilmente dicibili, davvero difficile trovare le "parole
per dirlo", per raccontare ciò che abbiamo visto, ascoltato,
sperimentato, subito con loro e attraverso loro.
Una vita quotidiana distrutta in cui il
bollettino delle morti diventa prassi dolorosa e dilaniante ma
abituale, la disoccupazione riduce alla sopravvivenza l'intera
popolazione, la sofferenza psicologica, le depressioni, la paura,
l'aggressività fanno parte del vivere quotidiano delle famiglie, il
più delle volte, incapaci di contenere e di gestire il dolore dei
bambini delle bambine, degli adolescenti, delle donne e degli uomini
che hanno visto man mano svanire i propri sogni e le proprie
speranze di autonomia e di libertà.
I morti, certo, trovano spazio nelle pagine dei
giornali, ma non trovano spazio le vite distrutte degli uomini,
delle donne, dei bambini/e, dei ragazzi/e che vivono reclusi, non
hanno la libertà, la possibilità di recarsi a scuola, di giocare, di
correre per le strade, di andare a lavorare, andare a trovare i
parenti, partecipare al funerale del padre, della madre perché il
governo israeliano chiude le strade, perché sei un cittadino/ una
cittadina di seconda classe, non hai diritto alla gioia, non hai
diritto al dolore, non hai diritto al lavoro, non hai diritto ad
incontrarti con gli amici.
Nella striscia di Gaza,
completamente isolata, nessuno può, da settembre, uscire o entrare
(al checkpoint c'eravamo solo noi e altri due-tre sperduti reporter
stranieri), abbiamo visto interi campi di ulivi distrutti, centinaia
di palme abbattute, decine di famiglie vivere in tendopoli senza
acqua, senza servizi di prima necessità. Per tutti cominciano a
scarseggiare prodotti di tutti i tipi, cibo, medicinali,
sigarette…
Ovunque l'inquietante presenza degli insediamenti,
chiamati dai media "aree residenziali", e dei coloni
armati.
La città vecchia di Hebron, ghetto nel ghetto,
vede la forzata e violenta convivenza di palestinesi e israeliani, i
primi vivono e lavorano nei negozi al piano terreno (moltissimi sono
attualmente chiusi), i secondi abitano ai piani superiori delle case
(dopo averle requisite) con i bambini reclusi dietro le grate delle
finestre e i soldati che presidiano massicciamente la città. Ogni
volta che un israeliano, un 'israeliana esce in strada
immediatamente viene affiancato/a dalla camionetta dei soldati e
accompagnato/a nel tragitto. Così abbiamo visto fare nei confronti
di una ragazza con un cane al guinzaglio e nei confronti di un
colono in auto che Luisa ha fermato per dirgli che cosa pensava
della sua presenza in quel luogo. Gli abitanti di Hebron e di tutta
la regione spesso non possono servirsi dell'ospedale gestito dalla
Mezza Luna Rossa perché i continui blocchi non permettono di
transitare da una parte all'altra della città, è capitato che i
soldati abbiano arrestato e anche ucciso i conducenti delle
ambulanze che portavano malati o feriti all'ospedale.
Dal
moderno e ben attrezzato centro riabilitativo di Betlemme, ora in
una crisi economica e gestionale spaventosa, abbiamo potuto vedere
l'insediamento di Ghilo, costruito direttamente sulla collina che si
trova di fronte in modo che i feriti, possono, stando in ospedale,
osservare coloro che sono stati la causa diretta della loro
sofferenza.
Nei campi profughi abbiamo toccato con mano la
sofferenza di giovani mogli, di madri, di padri, di fratelli, di
sorelle che hanno perso un marito, un figlio, un fratello, diventato
martire, la cui immagine viene riprodotta ingigantita fuori e dentro
la casa. Così i bambini, gli adolescenti ci mostrano con orgoglio la
sua gigantografia e ci dicono: "noi tiriamo pietre ai soldati
perché finalmente li vediamo indietreggiare, li vediamo nascondersi
dietro le loro camionette". Purtroppo, però, alcuni non
indietreggiano, infatti Ahmed, dieci anni, ha perso un occhio perché
una pallottola di gomma l'ha colpito, dopo che, durante l'intervallo
della scuola, con alcuni compagni, era uscito a tirare pietre ai
soldati.
Mike, un compagno del partito comunista palestinese, che
ci ha fatto da autista per tutta la settimana, con gesto rituale,
toglie e rimette sul cruscotto il tappetino della preghiera
musulmana a seconda che entriamo in zona A (controllo palestinese) o
in zona B (controllo e amministrazione mista) o in zona C (controllo
interamente israeliano). Si muove con assoluta sicurezza tra le
restrizioni e i blocchi che arbitrariamente e, senza un apparente
criterio, il governo israeliano pone lungo una strada, all'entrata e
all'interno di una città, di un villaggio. Anche in questo caso
abbiamo visto fatti che non vengono raccontati da nessun quotidiano:
le gomme tagliate delle auto e dei taxi palestinesi che cercano di
aggirare gli ostacoli per poter lavorare e far muovere le persone,
uomini e donne che attraversano a piedi i campi perché non è loro
permesso di raggiungere le proprie case, portare i bambini a scuola,
all'ospedale, percorrere la strada che passa in mezzo agli
insediamenti. A Betlemme abbiamo incontrato una madre e un padre che
portavano in braccio la propria bambina che non poteva camminare,
perché senza una gamba, che doveva recarsi al centro di
riabilitazione perché avevano dovuto lasciare la macchina al
ceckpoint, all'ingresso della città.
Il lavoro delle
organizzazioni delle donne si inserisce, dunque, in questo contesto,
è un lavoro di emergenza che cerca di rispondere ai bisogni di cura
delle famiglie che non riescono più a gestire la vita quotidiana.
Tutte ci raccontano che, mentre, nella prima Intifada le donne dei
villaggi dei campi profughi si recavano ai loro centri per offrire
la propria disponibilità al sostegno della lotta ora vivono
rintanate, non chiedono nemmeno quando hanno bisogno. Sono le donne
stesse dei diversi centri che devono recarsi nelle case ad offrire
aiuto, beni di prima necessità, sostegno morale e psicologico per le
persone a rischio. Nella prima Intifada era stata la rete delle
donne a reggere la struttura stessa dell'organizzazione della lotta,
ora c'è disperazione, le donne non riescono a intravedere una
prospettiva di vita, uno spiraglio di libertà dalla fame, dal
bisogno, dalla morte, dalla violenza.
Come in tutti i
periodi di grossa crisi si assiste ad una regressione anche sul
piano dei rapporti e delle relazioni, così, anche quei sottili
legami che si erano creati tra le diverse organizzazioni di donne
pacifiste palestinesi e israeliane ora sono congelati, sospesi.
Nelle parole di coloro che ci parlano si avverte dolore per ciò che
è stato perso, per il cammino che si è interrotto, ma è anche molto
chiaro a tutte che si potrà parlare di pace solo nel momento in cui
verranno riconosciute le condizioni poste dal popolo assediato e non
dall'assediante: stop al massacro del popolo palestinese;
riconoscimento dei confini del '67; evacuazione totale dei coloni
dai territori palestinesi; diritto al ritorno dei rifugiati. Anche
le donne palestinesi che continuano a coltivare rapporti personali
di amicizia con donne israeliane impegnate, e con posizioni radicali
nei confronti del loro governo, ci dicono che non possono, per il
momento, partecipare alle iniziative dei movimenti pacifisti
israeliani perché rischiano di perdere la fiducia delle stesse donne
alle quali offrono assistenza.
In Palestina e in Israele
noi, donne in nero e donne Assopace, con la presenza delle altre che
hanno risposto al nostro appello abbiamo attuato anche presidi e
manifestazioni ai ceckpoint e nelle piazze. Solo dietro esplicita
richiesta di Luisa, Zahira Kamal e Islah Jad hanno accettato di
presenziare ad un presidio organizzato da donne israeliane al
ceckpoint di Al Ram, sabato otto dicembre. Questo perché Luisa ha
avuto con queste organizzazioni un rapporto responsabile e costante,
mai interrotto in tutti questi anni. È in questo senso che, come
donne in nero e donne Assopace, dobbiamo muoverci, solo assicurando
un intervento costante abbiamo la possibilità, come movimento e non,
come singole di lavorare per la ricostituzione di relazioni che in
momenti come questi, possono apparire interrotte.
Per saperne di più e per aderire al
progetto
Donne in nero e non solo/Donna Assopace
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Mary Nicotra