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Attualità, cultura, eventi dal mondo delle donne
a cura di Mary Nicotra e Elena Vaccarino


16 marzo 2001

IO, DONNA VADO IN PALESTINA

Il progetto delle 'Donne in nero e non solo' e Assopace

 

 

Le associazioni Donne in nero e non solo e Assopace lanciano un appello: per il diritto alla vita, terra, libertà del popolo  palestinese. Per la pace giusta tra israeliani e palestinesi.

Si uniscono ai comitati delle donne palestinesi e delle donne israeliane per la pace. Insieme  invocano l'intervento sul territorio palestinese delle forze delle Nazioni Unite per porre fine al massacro che, a seguito dell'occupazione militare israeliana,  causa, dal Settembre dell'anno scorso - ogni giorno -  morte, dolore, sofferenze.

Si organizzano e mettono in atto un progetto di solidarietà e denuncia.

Infatti, dal 2 Dicembre, con cadenza  settimanale, le due associazioni organizzano  viaggi alternati in Palestina e Israele per visitare gli ospedali, i villaggi, i luoghi bombardati, fermarsi ai check point militari e testimoniare la verità.

'' Noi donne italiane che crediamo nella pace vogliamo rispondere a questi appelli e portare i nostro occhi testimoni, i nostri corpi solidali nei luoghi in cui si violano i più elementari diritti umani. Andiamo in Palestina per fare, simbolicamente, quello che le Nazioni Unite non vogliono e che dovrebbero fare: interporsi pacificamente in difesa degli inermi, cercare e impedire la violenza quotidiana, testimoniare la verità. E vogliamo continuare a costruire relazioni con donne e uomini palestinesi e israeliani, che lavorano per una pace giusta: il riconoscimento delle Stato della Palestina nei confini del 67, il ritorno dei profughi alle loro case, lo smantellamento degli insediamenti israeliani, Gerusalemme condivisa, capitale dei due stati''

Con queste parole vengono illustrate  le motivazioni del progetto.

Di seguito pubblichiamo le riflessioni di Marinella Sanvito che ha partecipato a uno dei viaggi delle Donne In Nero (2-8 dicembre scorsi) insieme alla europarlamentare italiana Luisa Morgantini.

 

IO, DONNA VADO IN PALESTINA
Per il diritto alla vita, terra, libertà del popolo palestinese
Per la pace tra israeliani e palestinesi
riflessioni di Marinella Sanvito

Le donne di Ramallah, le donne di Beit Jala, le donne di Hebron, le donne di Gaza, le donne di Al Ram, le donne di Bat Shalom e le donne in nero di Gerusalemme ovest e molte altre ancora abbiamo incontrato durante il nostro viaggio in Palestina e Israele. 

Tutte ci hanno testimoniato una sofferenza e un dolore difficilmente dicibili, davvero difficile trovare le "parole per dirlo", per raccontare ciò che abbiamo visto, ascoltato, sperimentato, subito con loro e attraverso loro. 

Una vita quotidiana distrutta in cui il bollettino delle morti diventa prassi dolorosa e dilaniante ma abituale, la disoccupazione riduce alla sopravvivenza l'intera popolazione, la sofferenza psicologica, le depressioni, la paura, l'aggressività fanno parte del vivere quotidiano delle famiglie, il più delle volte, incapaci di contenere e di gestire il dolore dei bambini delle bambine, degli adolescenti, delle donne e degli uomini che hanno visto man mano svanire i propri sogni e le proprie speranze di autonomia e di libertà. 

I morti, certo, trovano spazio nelle pagine dei giornali, ma non trovano spazio le vite distrutte degli uomini, delle donne, dei bambini/e, dei ragazzi/e che vivono reclusi, non hanno la libertà, la possibilità di recarsi a scuola, di giocare, di correre per le strade, di andare a lavorare, andare a trovare i parenti, partecipare al funerale del padre, della madre perché il governo israeliano chiude le strade, perché sei un cittadino/ una cittadina di seconda classe, non hai diritto alla gioia, non hai diritto al dolore, non hai diritto al lavoro, non hai diritto ad incontrarti con gli amici. 
Nella striscia di Gaza, completamente isolata, nessuno può, da settembre, uscire o entrare (al checkpoint c'eravamo solo noi e altri due-tre sperduti reporter stranieri), abbiamo visto interi campi di ulivi distrutti, centinaia di palme abbattute, decine di famiglie vivere in tendopoli senza acqua, senza servizi di prima necessità. Per tutti cominciano a scarseggiare prodotti di tutti i tipi, cibo, medicinali, sigarette…
Ovunque l'inquietante presenza degli insediamenti, chiamati dai media "aree residenziali", e dei coloni armati. 

La città vecchia di Hebron, ghetto nel ghetto, vede la forzata e violenta convivenza di palestinesi e israeliani, i primi vivono e lavorano nei negozi al piano terreno (moltissimi sono attualmente chiusi), i secondi abitano ai piani superiori delle case (dopo averle requisite) con i bambini reclusi dietro le grate delle finestre e i soldati che presidiano massicciamente la città. Ogni volta che un israeliano, un 'israeliana esce in strada immediatamente viene affiancato/a dalla camionetta dei soldati e accompagnato/a nel tragitto. Così abbiamo visto fare nei confronti di una ragazza con un cane al guinzaglio e nei confronti di un colono in auto che Luisa ha fermato per dirgli che cosa pensava della sua presenza in quel luogo. Gli abitanti di Hebron e di tutta la regione spesso non possono servirsi dell'ospedale gestito dalla Mezza Luna Rossa perché i continui blocchi non permettono di transitare da una parte all'altra della città, è capitato che i soldati abbiano arrestato e anche ucciso i conducenti delle ambulanze che portavano malati o feriti all'ospedale. 
Dal moderno e ben attrezzato centro riabilitativo di Betlemme, ora in una crisi economica e gestionale spaventosa, abbiamo potuto vedere l'insediamento di Ghilo, costruito direttamente sulla collina che si trova di fronte in modo che i feriti, possono, stando in ospedale, osservare coloro che sono stati la causa diretta della loro sofferenza. 
Nei campi profughi abbiamo toccato con mano la sofferenza di giovani mogli, di madri, di padri, di fratelli, di sorelle che hanno perso un marito, un figlio, un fratello, diventato martire, la cui immagine viene riprodotta ingigantita fuori e dentro la casa. Così i bambini, gli adolescenti ci mostrano con orgoglio la sua gigantografia e ci dicono: "noi tiriamo pietre ai soldati perché finalmente li vediamo indietreggiare, li vediamo nascondersi dietro le loro camionette". Purtroppo, però, alcuni non indietreggiano, infatti Ahmed, dieci anni, ha perso un occhio perché una pallottola di gomma l'ha colpito, dopo che, durante l'intervallo della scuola, con alcuni compagni, era uscito a tirare pietre ai soldati.
Mike, un compagno del partito comunista palestinese, che ci ha fatto da autista per tutta la settimana, con gesto rituale, toglie e rimette sul cruscotto il tappetino della preghiera musulmana a seconda che entriamo in zona A (controllo palestinese) o in zona B (controllo e amministrazione mista) o in zona C (controllo interamente israeliano). Si muove con assoluta sicurezza tra le restrizioni e i blocchi che arbitrariamente e, senza un apparente criterio, il governo israeliano pone lungo una strada, all'entrata e all'interno di una città, di un villaggio. Anche in questo caso abbiamo visto fatti che non vengono raccontati da nessun quotidiano: le gomme tagliate delle auto e dei taxi palestinesi che cercano di aggirare gli ostacoli per poter lavorare e far muovere le persone, uomini e donne che attraversano a piedi i campi perché non è loro permesso di raggiungere le proprie case, portare i bambini a scuola, all'ospedale, percorrere la strada che passa in mezzo agli insediamenti. A Betlemme abbiamo incontrato una madre e un padre che portavano in braccio la propria bambina che non poteva camminare, perché senza una gamba, che doveva recarsi al centro di riabilitazione perché avevano dovuto lasciare la macchina al ceckpoint, all'ingresso della città.
Il lavoro delle organizzazioni delle donne si inserisce, dunque, in questo contesto, è un lavoro di emergenza che cerca di rispondere ai bisogni di cura delle famiglie che non riescono più a gestire la vita quotidiana. Tutte ci raccontano che, mentre, nella prima Intifada le donne dei villaggi dei campi profughi si recavano ai loro centri per offrire la propria disponibilità al sostegno della lotta ora vivono rintanate, non chiedono nemmeno quando hanno bisogno. Sono le donne stesse dei diversi centri che devono recarsi nelle case ad offrire aiuto, beni di prima necessità, sostegno morale e psicologico per le persone a rischio. Nella prima Intifada era stata la rete delle donne a reggere la struttura stessa dell'organizzazione della lotta, ora c'è disperazione, le donne non riescono a intravedere una prospettiva di vita, uno spiraglio di libertà dalla fame, dal bisogno, dalla morte, dalla violenza. 
Come in tutti i periodi di grossa crisi si assiste ad una regressione anche sul piano dei rapporti e delle relazioni, così, anche quei sottili legami che si erano creati tra le diverse organizzazioni di donne pacifiste palestinesi e israeliane ora sono congelati, sospesi. Nelle parole di coloro che ci parlano si avverte dolore per ciò che è stato perso, per il cammino che si è interrotto, ma è anche molto chiaro a tutte che si potrà parlare di pace solo nel momento in cui verranno riconosciute le condizioni poste dal popolo assediato e non dall'assediante: stop al massacro del popolo palestinese; riconoscimento dei confini del '67; evacuazione totale dei coloni dai territori palestinesi; diritto al ritorno dei rifugiati. Anche le donne palestinesi che continuano a coltivare rapporti personali di amicizia con donne israeliane impegnate, e con posizioni radicali nei confronti del loro governo, ci dicono che non possono, per il momento, partecipare alle iniziative dei movimenti pacifisti israeliani perché rischiano di perdere la fiducia delle stesse donne alle quali offrono assistenza. 
In Palestina e in Israele noi, donne in nero e donne Assopace, con la presenza delle altre che hanno risposto al nostro appello abbiamo attuato anche presidi e manifestazioni ai ceckpoint e nelle piazze. Solo dietro esplicita richiesta di Luisa, Zahira Kamal e Islah Jad hanno accettato di presenziare ad un presidio organizzato da donne israeliane al ceckpoint di Al Ram, sabato otto dicembre. Questo perché Luisa ha avuto con queste organizzazioni un rapporto responsabile e costante, mai interrotto in tutti questi anni. È in questo senso che, come donne in nero e donne Assopace, dobbiamo muoverci, solo assicurando un intervento costante abbiamo la possibilità, come movimento e non, come singole di lavorare per la ricostituzione di relazioni che in momenti come questi, possono apparire interrotte.

 

Per saperne di più e per aderire al progetto
Donne in nero e non solo/Donna Assopace
Tel. 06-69950217 fax 06-69950200 -tel. 0348-3921465
Email lmorgantini@europarl.eu.int
donne in nero mc6381@mclink.it


Mary Nicotra

 


 

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