CONFRONTO E VALUTAZIONE DEI CRITERI ETICI
DELLE DIVERSE POSIZIONI
Sin
qui abbiamo presentato le due diverse posizioni a proposito dell’eutanasia: la
legge olandese, una sorta di compromesso che la condanna ma nello stesso tempo
la giustifica se si seguono determinate condizioni; la legge della Chiesa che
servendosi della Sacra Scrittura, degli scritti dei Padri, dei pronunciamenti
del Magistero la condanna come omicidio, come grave disobbedienza al quinto
comandamento divino: non uccidere.
Diverse
opinioni discordanti e opposte, la prima rivendica il “diritto” di ogni uomo
di poter disporre a suo piacimento della sua morte o di quella dei suoi cari
ormai “inutili” alla società perché improduttivi, la seconda tutela il
diritto alla vita considerata sacra e inviolabile perché creata a immagine del
Padre, il dovere di ogni uomo di conservarla e difenderla.
La
legge civile e quella morale a questo punto non possono più essere considerate
come binari che corrono assieme quasi in un unico filo, si dividono, ognuna
prende la sua direzione rischiando di non arrivare mai alla meta.
3.1.
La legge civile e la legge morale
Un confronto necessario a questo punto è quello tra la legge civile e quella morale, due linee che dovrebbero conciliarsi e integrarsi, che invece nella nostra cultura hanno sempre meno punti in comune. Nell’Enciclica Evangelium vitae il papa fa un’analisi dettagliata del problema che voglio riportare all’inizio di questo terzo capitolo.
Capita
oggi che l’uomo tende a far giustificare dalle Leggi dello Stato, i suoi
desideri, i suoi vizi, le sue assurde opinioni sulla gestione della vita, è
capitato già anche nel nostro Paese con il divorzio, con l’aborto, succede
come abbiamo visto, per fortuna non nella nostra Italia, anche con
l’eutanasia.
L’uomo
troppo spesso si mette al posto di Dio e si ritiene l’unico in grado di
decidere se i suoi atti sono o no
moralmente leciti e chiede allo Stato che gli sia garantito di poter scegliere,
arrivando così a considerare normalità omicidi come l’aborto e
l’eutanasia.
Molte
volte si prendono, nella legge civile, decisioni per maggioranza su questioni
morali, solo per giustificare l’impossibilità di vivere secondo un grado di
moralità più elevato di quello che gli uomini stesso riconoscono e
condividono, arrivando così a non colpevolizzare aborto e eutanasia.
In
molti chiedono che la legge civile prenda decisioni per evitare che certi atti
avvengano nella piena illegalità e quindi senza controllo e senza garanzia di
un controllo medico adeguato.
Si
arriva agli estremi quando c’è chi si arroga il diritto di poter decidere
sulla propria e l’altrui vita chiedendo che sulle decisioni morali non ci sia
nessun intervento della legge civile, ma piena libertà di ciascun individuo.
Nella nostra cultura ormai il parere della maggioranza è reputato verità, la
moralità dei più, quindi, dovrebbe risultare la moralità di tutti,
ragionamento falso che inganna il nostro tempo. Due posizioni quasi contrapposte
vano per la maggiore, da una parte, come dicevamo, c’è chi ritiene lo Stato
esterno alle decisioni morali dei singoli chiedendo che esso possa garantire
questo diritto di scelta; dall’altra si vuole che tutti i cittadini si
adeguino alle decisioni dello Stato anche se le sue posizioni in proposito
fossero totalmente contrarie. E’ questo un delegare la responsabilità della
persona alla legge civile.
La
nostra cultura è intrisa di relativismo etico, fonte di tutti questi
ragionamenti moralmente improponibili. La legge morale di conseguenza viene
considerata un imposizione intollerante che porta all’autoritarismo, il
relativismo invece “garantirebbe tolleranza, rispetto reciproco tra le persone
e adesione alle decisioni della maggioranza”.[1]
Nel
nostro secolo ci sono stati molti crimini contro l’umanità, intere etnie sono
state decimate, la pulizia etnica è tornata a far inorridire il mondo anche nei
nostri anni novanta, la società moderna ha condannato questi atti malefici
dell’uomo sui suoi simili, troppo spesso però non si è considerata tirannia
la soppressione di tanti uomini indifesi e deboli proprio perché una
maggioranza parlamentare o sociale ne decreta la legittimità. Se i crimini
contro l’umanità, del nostro secolo, fossero legittimati dal consenso
popolare sicuramente resterebbero tali, perché quindi rendere legali
soppressioni di vite come l’aborto e l’eutanasia?
In
tanti non hanno ancora capito, quale valore abbia la democrazia, essa non può
essere considerata un fine ma piuttosto uno strumento, essa non è un
“surrogato della moralità o un toccasana dell’immoralità”[2].
La
democrazia deve sottostare alla legge morale, deve conformarsi ad essa, perché
solo dalla legge morale può attingere la verità.
Il
valore della democrazia è dato dai valori che essa promuove come la dignità
della persona, l’assunzione del bene comune, il rispetto dei diritti
dell’uomo tutte cose di un importanza enorme che non possono essere barattate
con interventi e posizioni di maggioranze, ma devono essere regolate da una
“legge morale obiettiva che, in quanto <<legge naturale>>
inscritta nel cuore dell’uomo, è punto di riferimento normativo della stessa
legge civile”.[3]
La
democrazia subirebbe uno scossone se lo scetticismo della società ponesse in
dubbio i principi fondamentali
della legge morale, creando così una situazione di confusione e di
libertinaggio e annullando qualsiasi punto di riferimento.
Ci
stiamo dirigendo verso un baratro, è tempo di fermarci a riflettere per
recuperare i veri valori umani e morali, così da rinvigorire il vero ruolo
delle democrazie, valori grandi e essenziali maturati nel tempo che nessuna
maggioranza e nessuno Stato ha il diritto di calpestare.
Bisogna
esaminare a fondo gli elementi che sono alla base della visione dei rapporti tra
legge civile e legge morale, partendo dalla posizione della Chiesa che è anche
quella di molte grandi tradizioni giuridiche.
Legge
morale e legge civile hanno certamente diversa impostazione e la seconda agisce
in un ambito più limitato della prima. E’ imprescindibile comunque che la
legge civile davanti a certi diritti come quelli alla vita, non può rubare il
posto alla coscienza, non può fare scelte contrarie al bene comune, alla difesa
dei diritti fondamentali di ogni uomo. Essa deve, invece, “garantire
un’ordinata convivenza sociale nella vera giustizia, perché tutti
<<possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e
dignità>> (1 Tm 2,2 ).”[4]
Ci
sono diritti fondamentali di cui la legge civile si deve fare garante e
protettrice per tutti gli uomini. Il più importante di questi diritti è
proprio quello alla vita dell’uomo innocente, nessuna legge può rendere
lecita un’offesa recata ad altri che hanno il diritto di essere rispettati
come persone, anche se talvolta non considerate tali e quindi soppresse.
Scriveva,
Giovanni XXIII, nell’Enciclica Pacem in
terris che il potere pubblico dev’essere la prima istituzione a
riconoscere, rispettare, tutelare, promuovere i diritti e i doveri delle
persone. Se non facesse tutto ciò e andasse contro questi diritti
contrasterebbe con la sua stessa ragion d’essere perdendo così potere
giuridico in ogni sua decisione in proposito.
San
Tommaso d’Aquino reputava una legge umana in quanto tale solo quando essa
fosse conforme alla retta ragione e quindi derivante dalla legge eterna, quella
divina. Considerazione questa che impedisce di essere legge a qualunque
pronunciamento che non prende il suo spunto dalla legge morale.
Il
nostro discorso ci porta a delle affermazioni forti che forse potrebbero ferire
la “civilissima” cultura del secondo millennio: uno Stato che legalizzasse
l’aborto e l’eutanasia andrebbe contro ogni legge, rendendo leciti casi di
omicidio - suicidio che porterebbero sicuramente al poco rispetto della vita e
aprendo la strada a comportamenti sociali distruttivi. Aborto e eutanasia
legalizzati sono crimini che calpestano non solo i diritti dei singoli, ma di
tutta la comunità umana andando contro il bene comune, uscendo in questo modo
dai canoni della stessa legge civile.
E’
solitamente moralmente giusto obbedire alle leggi che uno Stato propone, quando
esse, però, vanno contro i
fondamentali diritti di ogni persona umana, è giusto, anzi obbligatorio opporsi
mediante l’obiezione di coscienza.
3.2.
Critiche alla legge olandese dal punto di vista etico e giuridico
Nel
corso del nostro studio inevitabilmente, anche senza volerlo, abbiamo avuto modo
sottolineare quanto la legge olandese dal punto di vista etico risulti sballata,
nonostante si fregi di una caratteristica di pietà dietro la quale, però, si
nasconde una cultura di morte improntata al benessere personale. Con
l’esaminare i documenti della Chiesa sul problema eutanasia sono stati
evidenti i passi di condanna per questo atto di omicidio – suicidio. In questo
paragrafo cercheremo di mettere in primo piano i contrasti di questa legge con
la morale comune, esaminando anche i contrastanti pareri e perplessità sorti
nel Paese all’indomani della sua emanazione.
3.2.1
Perplessità
Abbiamo
visto che il pronunciamento del Parlamento
olandese a proposito dell’eutanasia non è altro che un compromesso, difficile
da interpretare per la sua ambiguità. Un’ambiguità che fa sorgere
inevitabilmente delle perplessità che classifichiamo almeno di tre tipi: 1)
perplessità sull’ambivalenza delle motivazioni; 2) perplessità sui criteri;
3) perplessità sull’identità della professione medica.
Per
quanto riguarda il primo ordine di perplessità dobbiamo precisare che si hanno
due giustificazioni che aprono la strada alla pratica dell’eutanasia, esse
sono il principio di autodeterminazione, ossia il diritto di poter decidere
l’andamento della propria vita e il dovere del prossimo di rispettare tale
decisione; e il perdere valore di tante vite umane segnate da una bassa qualità
di vita, in tanti pensano che l’azione migliore verso le persone che si
trovano in quest’ultima situazione sia quella di eliminarne le sofferenze, la
morte arriverebbe quindi come una liberazione, come un opera buona verso chi
soffre e non ce la fa più.
Nascono
problemi per il principio di autodeterminazione in quanto non si può stabilire
il suo confine, se ognuno può decidere la fine della sua vita in caso di
malattia grave perché non potrebbe decidere la sua sorte anche in caso di
malattie leggere o sentendosi in una situazione di inutilità e delusione. Una
volta che cade la legge morale che suggerisce il dovere di ogni uomo di
conservare la propria vita e di riconquistarla in caso di malattia anche grave,
cade ogni limite di autodeterminazione, tutti a questo punto e in qualsiasi
situazione avrebbero il diritto di togliersi la vita, si arriverebbe a
legalizzare il suicidio sempre e comunque. Si cerca di ovviare a queste
considerazioni e problemi associando all’autodeterminazione al principio della
minimizzazione del dolore, ma il risultato non giustifica e rimane una certa
ambiguità. Per poter scegliere di morire “legalmente” occorrerebbero in
contemporanea volontarietà e sofferenza due “principi che però non sono
omogenei e quindi la loro
integrazione, somma e combinazione è piuttosto disagevole”.[5]
Anche
per il secondo principio, la svalutazione della vita in base alla sua qualità,
non si riesce a stabilire un limite, non si riesce a stabilire quali siano le
condizioni precise che dichiarino una vita degna di essere vissuta. Chi dovrebbe
decidere la dignità delle vite degli uomini?
L’ambivalenza
della motivazioni crea grossi problemi interpretativi che portano a conseguenze
molto serie, si apre la strada al suicidio, in nome dell’autodeterminazione,
alla soppressione del sofferente incapace in base alla bassa qualità del suo
vivere.
Anche
chi è favorevole alla pratica dell’eutanasia capisce la pericolosità del
legalizzarne la pratica attiva di essa, la legge dovrebbe con chiarezza
mantenere una chiara differenza tra interrompere attivamente e lasciar finire la
vita.
Per
quanto riguarda i criteri affinché sia “lecita” la pratica
dell’eutanasia, criteri indicati nell’esposizione della legge nel primo
capitolo di questo lavoro, nascono problemi per la loro indeterminatezza, per la
mancata precisione di essi, per l’affidabilità delle procedure. Se prendiamo
ad esempio la caratteristica essenziale della volontarietà del paziente,
dobbiamo dire che il medico dovrebbe solamente esporre la possibilità di un
simile intervento non potendo però proporlo o consigliarlo, capita spesso che
il medico sia proprio il promotore.
Il
malato può inoltre essere influenzato da terze persone, che riescono a
sconvolgere la sua psicologia e portarlo alla decisione di porre fine alle sue
sofferenze. Come interpretare poi le richieste di eutanasia, potrebbero essere
fatte in un momento di sconforto, di tristezza, di alta sofferenza che
impediscono l’uso completo della ragione condizionando in modo drastico la
volontarietà, in questi casi è lecito soddisfare subito la “volontà” del
paziente, o non è piuttosto necessario dare tempo per un ripensamento cosciente
e senza condizionamenti? Il medico deve accettare anche le richieste di chi ha
paura di finire in certe situazioni di sofferenza o solamente di coloro che sono
immersi in queste situazioni?
Interrogativi
che restano irrisolti a cui si aggiunge anche la valutazione di sofferenza sia
fisica che mentale, quando essa è
da considerare intollerabile, chi può decidere la sua intollerabilità, forse
un uomo?
Non
si capisce neanche il bisogno di consultare un collega per la liceità
dell’intervento, “non è chiaro in che cosa dovrebbe consistere la
consulenza e come dovrebbe avvenire, se egli cioè debba solo verificare la
presenza di tutti i criteri e interpretare correttamente quelli dubbi o se debba
ricontattare personalmente il malato , che in effetti potrebbe dischiudere ad
una nuova figura di curante timori o speranze fino ad allora inespressi”. [6]
L’identità
della professione medica è la terza perplessità che prendiamo in esame. Ci si
chiede se per il medico sia meglio lasciare soffrire pesantemente un paziente o
se sia suo dovere far cessare i suoi dolori anche con la morte. Secondo molti è
giusto che un medico soddisfi le richieste di un paziente che ha accompagnato
per tutta la sua vita, il suo compito si ridurrebbe a fare da filtro, verificare
cioè che ci siano tutti i criteri per poi dare il consenso alla “dolce
morte”. Tutto ciò è dettato dal principio che recita: La vita del paziente
appartiene al paziente stesso, niente di più assurdo poteva essere portato come
giustificazione, la vita appartiene solo ed esclusivamente a Dio che ce l’ha
donata, è in suo potere, solo in suo potere il toglierla. L’uomo non può
mettersi al posto di Dio neanche se esercita la professione di medico, persona
che avrebbe un motivo in più per conservare la vita.
La
medicina perde il suo significato a queste condizioni, essa infatti non è un
soddisfare le richieste del paziente, non ha come primo obbiettivo la funzione
analgesica. Ogni anno 1000 morti per eutanasia non richiesta, ossia decise da
medici, non fanno certo onore alla medicina, non possono essere giustificate da
quella pseudo-pietà a cui si affidano. Sono ormai tanti i medici che con le loro
parole convincono i loro pazienti che sia meglio morire che sopportare certe
sofferenze che condurrebbero comunque alla morte. Il ruolo del medico risulta
stravolto da tutte queste considerazioni, non combacia più con i canoni dei
tanti codici deontologici anche da
poco riformulati.
La
camera medica Slovacca nel Codice Etico (1994) all’articolo 1 dice: “ Il
medico ha il dovere professionale di rispettare la vita umana dal suo inizio
alla sua fine”.[7]
I medici Finlandesi sottoliniano in un pronunciamento del 1988: “E’ dovere
del medico proteggere la vita umana e alleviare il soffrire, avendo come finalità
principale la promozione e il recupero della salute”[8].
Il Codice di etica medica del Brasile (1988) del Consiglio Federale per la
medicina conservando un articolo emanato nel 1965 afferma: “Il medico deve
avere rispetto assoluto per la vita umana, attuando sempre in beneficio del
paziente. Mai utilizzerà le sue conoscenze per generare sofferenza fisica e
morale, per sterminare l’essere umano, o per permettere o nascondere gli
attacchi alla sua dignità e integrità”.[9]
Il
Codice di Deontologia (1995) della Federazione Nazionale dell’ordine dei
medici italiani a somiglianza di quello tedesco e francese, riporta un
giuramento, eco della dichiarazione di Ginevra, che include le seguenti parole:
“Cosciente dell’importanza e della solennità dell’atto che sto
realizzando … giuro di non commettere mai azioni che possano provocare
deliberatamente la morte di un paziente ; di attenermi nella mia attività ai
principi etici della solidarietà umana, contro i quali nel rispetto della vita
e della persona, mai utilizzerò le mie conoscenze.” [10]
Questi
canoni fanno ben sperare per il futuro, ma la cultura della morte continua la
sua influenza sponsorizzando una falsa pietà che maschera e cerca di convincere
che l’eutanasia sia un normale intervento medico.
3.2.2.
Pericoli derivanti da una legge a favore dell’eutanasia
Una
legge sull’eutanasia porterebbe a conseguenze non indifferenti nell’apparato
sociale, in quanto stravolgerebbe la logica di vita fin ora in atto,
non
bisogna poi nascondere le difficoltà strutturali
per l’attuazione di una tale
decisione parlamentare.
1)
Sarebbe difficile garantire la validità del consenso espresso, e questo
più sul piano giuridico che su quello morale, un malato terminale, infatti,
prostrato dal dolore, difficilmente sarebbe in grado di esprimere una volontà
senza incorrere in forti condizionamenti, sarebbe molto difficile capire quanto
è solo un “bisogno” passeggero e quale una ferma volontà che sceglie.
Sorgono problemi giuridici e morali anche nel caso in cui il paziente non possa
decidere sul da farsi, e non abbia dato disposizioni in proposito quando era
cosciente, nella maggior parte di queste situazioni si chiede quindi il parere a
una persona a lui vicina che possa interpretare adeguatamente il volere del
malato. E’ questo un procedimento che illecitamente pretende di sostituire e
interpretare la volontà di chi non ha mai espresso niente sulla pratica
eutanasica.
2)
Gli abusi e le manipolazioni sui pazienti morenti sarebbero un rischio continuo. Le
pressioni che parenti e medici potrebbero esercitare sui malati anche se fossero
indirette e implicite potrebbero influenzare la loro volontà. Il malato
terminale spesso si sente di peso per chi lo assiste (familiari), essendoci la
possibilità di liberarli da questo “onere” il paziente potrebbe essere
spinto a richiedere la morte per venire incontro a chi è gravato dalla sua
situazione.
3)
Bisogna tener presente che la scienza medica è sempre in ricerca di
nuove cure, che potrebbero risolvere anche malattie oggi giudicate incurabili,
chi scegliesse l’eutanasia rinuncerebbe a queste nuove possibilità.
4)
Il quarto problema si identifica nel fatto che la legge sull’eutanasia
volontaria sminuirebbe il livello di tutela nei confronti delle persone malate e
morenti. “Una volta che si introduca il principio per cui si può decidere,
almeno in prima persona, che una vita non merita di essere vissuta ulteriormente
, si da l’avvio ad un processo di erosione psicologica della tutela nei
confronti della vita umana indebolita e sofferente, per cui, in seguito, non si
riuscirà a vedere i motivi che vietano la soppressione di una vita umana
“indegna”, anche a prescindere dal consenso dell’interessato”[11].
Riconoscendo per legge l’uccisione per pietà, si aprirebbe la strada
all’eutanasia non volontaria, si passerebbe dall’intervento su malati
terminali all’intervento su malati con malattie curabili ma sgradevoli.
Conseguenze gravi che a un certo punto potrebbero risultare incontrollabili.
3.2.3.
Limiti giuridici della legge sull’eutanasia
Dal
punto di vista giuridico, la legge sull’eutanasia incontra le sue difficoltà,
che non si possono risolvere con semplicità in quanto una tale legge risulta di
carattere profondamente antigiuridico. La scienza giuridica ha nelle sue basi il
principio di difesa del più debole nei confronti del più forte, proprio il
contrario si verifica nella pratica eutanasica. E’ dovere di ogni Stato
proteggere la vita umana, quindi nessun intervento che mira ad eliminare la vita
può rientrare nella giuridicità. Depenalizzando l’eutanasia si correrebbe il
rischio di compiere certi interventi non solo spinti da una certa pietà, ma
anche con altre cause di fondo, si legalizzerebbe un omicidio, eseguito con
dolcezza, che non farebbe più di tanto rumore, ma che calpesterebbe i canoni
della stessa legge civile.
In
effetti anche la legislazione olandese riconosce l’antigiuridicità
dell’eutanasia, il suo parlamento infatti, non ha mai abrogato la legge che la
considera reato, ha solo dato le condizioni che la rendono non punibile. La sua
ambiguità ci lascia insoddisfatti sia dal punto di vista etico che di
principio. Il “diritto di morire” risulta contraddittorio e insostenibile,
non lo si può affermare in quanto contrasta drasticamente con gli stessi
scopi del diritto positivo.
Diritto
di morire, potrebbe tradursi facilmente in diritto ad essere uccisi,
coinvolgerebbe in questo caso un’altra persona, lo Stato a questo punto
dovrebbe scegliere il “boia”. Discorso assurdo che non può rientrare nei
canoni della giuridicità.
3.3.
Principi morali che fondano la
posizione della Chiesa
I
principi morali su cui la Chiesa fonda la sua posizione a proposito di eutanasia
nascono dalla stessa rivelazione, è infatti attingendo dalla Scrittura che si
è elaborato un progetto di vita da proporre al mondo. Quelle della Chiesa non
possono quindi essere solo filosofie create da uomini, ma attualizzazione e
attuazione della volontà di Dio che opera per il bene dell’uomo.
Compito
della Chiesa è continuare a annunciare il Regno di Dio, anche quando questo non
è gradito agli uomini perché intralcia i suoi progetti, la parola di Dio
rimane in eterno, l’uomo non ha nessun diritto di cambiarla, la Chiesa ha il
supremo dovere di proclamarla sempre e comunque.
3.3.1.
Alcune basi scritturistiche
In
Genesi 4,9-11 si legge: “Allora il Signore disse a Caino:<< Dov’è tuo
fratello, Abele?>>. Egli rispose: <<Non lo so. Sono forse il
guardiano di mio fratello?>>. Riprese: <<Che hai fatto? La voce del
sangue di tuo fratello grida a me dal suolo! Ora sii maledetto lungi da quel
suolo che per opera della tua mano ha bevuto il sangue di tuo fratello”. Dio
rimprovera l’uomo per il primo omicidio e al versetto 15 dello stesso capitolo
aggiunge: “Però chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte!”,
la condanna sarà quindi sempre più grande, sin dai primi capitoli del Genesi
la morte procurata risulta quindi un abominio per il Signore.
Nei
seguenti libri sempre all’interno del Pentateuco si sancisce la condanna
dell’omicidio riportandolo nelle tavole della legge donate da Dio a Mosè sul
Sinai: “Non uccidere”, parole secche senza ulteriori delucidazioni, senza se
né ma né perché, scritte sia in Esodo 20,13 che in Deuteronomio 5,17.
La
sacralità della vita diventa qualcosa di tangibile sin dalle primissime pagine
della Bibbia con una giustificazione che stupisce e lascia senza parole: “E
Dio disse: <<Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza… Dio creò
l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò;” (Gn 1,26.27). Il Signore
Dio conferisce all’essere umano una dignità altissima in quanto lo crea a
somiglianza della sua Vita divina, promette alla sua più alta creatura
protezione e aiuto con parole ricche di grandissima tenerezza: “Non temere,
vermiciattolo di Giacobbe, larva di Israele; io vengo in tuo aiuto” (Is
41,14). Una protezione che dall’altro lato assume toni forti verso chi oserà
oltraggiare il popolo di Dio, come possiamo leggere in Geremia 50,34: “Ma il
loro vendicatore è forte, Signore degli eserciti è il suo nome. Egli sosterrà
efficacemente la loro causa, per rendere tranquilla la terra e sconvolgere gli
abitanti di Babilonia”. Babilonia città di disordini morali e di soprusi a
cui la nostra civiltà assomiglia sempre più con le sue pretese orgogliose di
estromettere Dio per occuparne il trono e poter decidere sulla vita e sulla
morte.
Anche
il libro della Sapienza ammonisce gli uomini con i suoi saggi consigli: “Non
provocate la morte con gli errori della vostra vita, non attiratevi la rovina
con le opere delle vostre mani , perché Dio non ha creato la morte e non gode
per la rovina dei viventi.” (Sap 1,13), e continua nel secondo capitolo al
versetto 24: “Ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo; e ne
fanno esperienza coloro che gli appartengono”. La cultura della morte è
quindi una cultura demoniaca che si infiltra sempre più nei meandri della vita
umana, quasi di nascosto, sicuramente con la menzogna che caratterizza tutte le
opere di Satana come risulta evidente dalle parole di Cristo stesso in Giovanni
8,43-44: “Perché non comprendete il mio linguaggio? Perché non potete dare
ascolto alle mie parole, voi che avete per padre il diavolo, e volete compiere i
desideri del padre vostro. Egli è stato omicida fin da principio e non ha
perseverato nella verità, perché non vi è verità in lui. Quando dice il
falso, parla del suo, perché è menzognero e padre della menzogna”.
Il
comandamento dell’amore dato da Gesù agli uomini non offre vie di scampo a
una legge omicida che cerca di nascondersi dietro una ipotetica pietà che si
rivela falsa. In Matteo 22,36-40 leggiamo: “Maestro, qual è il più grande
comandamento della legge?”. Gli rispose: “Amerai il Signore Dio tuo con
tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la tua mente. Questo è il più
grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il
prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge
e i Profeti”. Amare Dio autore della Vita; amare se stessi, la propria vita e
quindi conservarla, esclusione più completa del suicidio; amare il prossimo,
dare amore non dare morte. La chiarezza della Scrittura non lascia spazio ad
interpretazioni varie come abbaiamo potuto vedere e anche San Paolo vuole
sottolineare tutto ciò scrivendo ai Romani: “Non commettere adulterio, non
uccidere, non rubare, non desiderare e qualsiasi altro comandamento, si
riassume in queste parole: Amerai il prossimo tuo come te stesso. L’amore non
fa nessun male al prossimo: pieno compimento della legge è l’amore.” (Rom
13,9).
Chiudiamo
questa carrellata di passi biblici con le parole della prima lettera di San
Giovanni: “Chiunque odia il proprio fratello è omicida e voi sapete che
nessun omicida possiede in se stesso la vita eterna”. (1 Gv 3,15).
3.3.2. Sacralità
e inviolabilità della vita
Per
un credente, il problema dell’eutanasia ha una soluzione irrinunciabile:
essendo Dio solo il datore ed il padrone della vita, ogni gesto che attenti
all’integrità della vita è necessariamente considerato sacrilego. Da questa
convinzione deriva, appunto, la secolare opposizione della Chiesa ad ogni forma
di manipolazione della vita umana, compresa l’eutanasia, in tutte le sue
forme.
Per
ogni credente, ancor più per il cristiano la vita è un valore supremo, la cui
origine ed il cui destino trascende il tempo, collocandola in vetta ad ogni
realtà. Non esiste un valore più alto, in nome del quale possa essere chiesta
la sua soppressione. Anche i casi in cui sembrerebbe esistere l’eccezione
(vedi legittima difesa), in definitiva, non sono che espressione dello stesso
principio , in quanto azione protettiva del medesimo valore della vita.
Abbiamo
potuto notare come nella Scrittura la vita sia considerata sacra, perché
appartenete a Dio stesso che la dona all’uomo rendendolo partecipe della sua
stessa immagine. La vita umana diventa sacra e inviolabile perché contiene in
se stessa la presenza di Dio, ciò si capisce nettamente già nell’Antico
Testamento, ma è ricalcato nel Nuovo in modo particolarmente chiaro da San
Paolo nella prima Lettera ai Corinti 3,16: “Non sapete che siete tempio di Dio
e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio
distruggerà lui. Perché santo è il tempio di Dio che siete voi. “La vita
quindi è dono di Dio e compito affidato all’uomo, il quale di conseguenza non
può disporre a proprio piacimento neppure della propria vita”.[12] Dio consegna questo
grande dono d’amore agli uomini e chiede di gestirla secondo i suoi comandi,
secondo quello che è il suo valore supremo, valore che non cambia nonostante la
malattia, la fortezza, “l’inutilità”, ogni vita ha sempre e comunque lo
stesso valore.
Nessuna
vita può essere soppressa nonostante la sua qualità biologica non sia più la
migliore, la vita è vita in quanto vissuta dalla persona, è vita in quanto
contiene in se stessa la presenza di Dio. Ogni vita va vissuta “come bene
personale e come bene del
prossimo”[13],
la sua sacralità esige un buon vivere non solo per se stessi, ma anche per la
vita di chi ci sta vicino.
Ciascuno
di noi è portatore di diritti inalienabili come la dignità e la libertà, non
può volontariamente decidere di privarsene se non rompendo l’ordine del
vivere associato, a maggior ragione non può togliersi la vita, “Che è a
nostra disposizione ancor meno della libertà. La
vita ci si presenta come qualcosa che ci precede e che ci avvolge,
qualcosa di superiore a noi stessi”.[14]
L’uomo non può mai intervenire per modificare la sacralità delle cose in
quanto questo è un ambito da cui è tagliato fuori, tante volte risulta un
mistero grande che la sua “piccola” intelligenza non può capire. Se
l’uomo capisse quale grande valore la vita contiene in se stessa non agirebbe
contro di essa in nessuna forma, né alla sua origine, né durante il suo corso,
né al suo termine.
La
vita per la sua sacralità è inviolabile, come si può ben capire dal quinto
comandamento, l’eutanasia calpesta tutto ciò nel nome di un individualismo
esasperato ed egocentrico che permea la nostra società occidentale, che
impedisce di capire quale sia il vero significato di libertà, essa non può
ridursi a vedere bene tutto ciò che all’occhio umano sembra necessario e
conveniente.
Ricorda
Giovanni Paolo II: “Il comandamento del <<non uccidere>>, anche
nei suoi contenuti più positivi di rispetto, amore e promozione della vita
umana, vincola ogni uomo. Esso, infatti, risuona nella coscienza morale di
ciascuno come un’eco insopprimibile dell’alleanza originaria di Dio creatore
con l’uomo; da tutti può essere conosciuto alla luce della ragione e può
essere osservato grazie all’azione dello Spirito che, soffiando dove vuole,
raggiunge e coinvolge ogni uomo che vive in questo mondo”.[15]
Per
salvaguardare la vita sacra e inviolabile dobbiamo svolgere un servizio
d’amore verso noi stessi e verso il nostro prossimo facendo in modo che ogni
vita sia sempre difesa e promossa soprattutto quando essa risultasse debole e
minacciata.
Concludiamo
questo paragrafo richiamando le parole dell’istruzione Donum
vitae riportate anche al numero 2258 del Catechismo
della Chiesa Cattolica che riassumono con chiarezza i canoni della sacralità
della vita umana: “La vita umana è sacra perché, fin dal suo inizio,
comporta l’azione creatrice di Dio e rimane per sempre in una relazione
speciale con il Creatore, suo unico fine. Solo Dio è il Signore della vita dal
suo inizio alla sua fine: nessuno, in nessuna circostanza, può rivendicare a se
il diritto di distruggere direttamente un essere umano innocente”.[16]
3.3.3.
Valore
della sofferenza
Il
nostro Dio “ha misteriosamente scelto per suo Figlio e proposto a tutti gli uomini la
sofferenza come mezzo di riscatto dalla condizione umana. Proprio quella
sofferenza che terrorizza gli uomini di oggi e che genera forme estreme di
rifiuto e di fuga davanti al dolore e ad ogni tipo di menomazione”.[17]
La
Chiesa quindi proponendo come esempio lo stesso Gesù Cristo ha sempre visto
nella sofferenza un dono di Dio da vivere e offrire per il riscatto dei propri
peccati.
Sul
piano umano il dolore può essere l’occasione per far crescere la propria
umanità, per fortificare il proprio animo, può incentivare una riflessione sui
veri valori della vita, con la piena partecipazione ad esso si può “dare
prova di un amore autentico, per acquisire o purificare l’amore e le virtù”.[18]
Non
possiamo certo negare quanto sia difficile questo discorso per l’uomo della
nostra società che troppo spesso non riesce ad entrare in questa ottica e vede
nella sofferenza sempre un male, mai un dono ma piuttosto un castigo divino.
Il
soffrire in modo atroce come abbiamo visto nel corso del nostro studio, commuove
tantissimi che vorrebbero intervenire per far cessare tanto dolore,
interpretando come pietoso l’intervento che porta alla morte del sofferente.
Abbiamo
già analizzato l’inautenticità di questa pietà, anche se non possiamo
negare che in casi estremi la mente umana possa ragionare in buona fede anche
nel compiere questo “atto liberatorio”, che pone fine alle sofferenze di chi
si vuole bene.
Per
il vero cristiano la via della sofferenza si trasforma in via di redenzione,
sofferenza quindi che non può finire con la morte ma che apre la porta alla
Vita, quella vera, quella eterna al cospetto di Dio; come ricorda
San Pietro nella sua prima Lettera: “Carissimi, nella misura in cui
partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi, perché anche nella
rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare.” (1 Pt 4,
13-14).
Giovanni
Paolo II visitando a Vienna il 21 giugno 1998, un ospizio della Caritas socialis
, ha esortato tutti a rispettare la dignità degli anziani, malati e moribondi,
aiutandoli a comprendere la propria sofferenza come un processo di maturazione e
di perfezionamento della propria vita.
[1] Lett. enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), 70
[2] idem 70
[3] idem 70
[4] idem 71
[5] P. CATTORINI, La morte offesa, Espropriazione del morire ed etica della resistenza al male, EDB,Bologna 1996,82
[6] Idem 86
[7]
G. HERRANZ, Deontologia medica y vida terminal, Eutanasia y medicina paliativa en los Codigos de Etica y Deontologia
medica de Europa y America, in Medicina e morale 1998/1, 96
[8] idem
[9] idem 97
[10] idem 108
[11] idem 93
[12] BURRONI U., Corso di Bioetica ad uso degli studenti, 42
[13] Dichiarazione ufficiale della Conferenza Episcopale Spagnola, 1998
[14] idem
[15] Evangelium vitae 77
[16] Congregazione per la Dottrina della Fede, Istr. Donum vitae, Intr. 5 AAS 80 (1988), 70-102
[17] A. BORGHI, Eutanasia ragioni contro, in Settimana 21/98
[18] U. BURRONI, Corso di Bioetica ad uso degli studenti, 57