DRISINO, un Feudo Sconosciuto

di Franco Biviano

Una premessa______________

Dobbiamo alla scrupolosità dei Benedettini Cassinesi del Monastero di S. Placido Calonerò di Messina, che per quasi cinque secoli (dal 1388 al 1866) furono enfiteuti di una parte del territorio che oggi corrisponde grosso modo al Comune di Pace del Mela, se siamo in grado di ricostruire minuziosamente la storia del nostro paese dall’età normanna fino ai nostri giorni. Di questo loro "feudo", infatti, essi conservarono, in originale o in copia, tutti i documenti di cui riuscirono ad entrare in possesso, anche relativi al periodo antecedente al loro diritto di enfiteusi. Inoltre, come era loro abitudine, registrarono tutte le entrate e tutte le spese relative a questo bene immobile. Alla loro documentazione si aggiunge quella di altri enti (Monasteri, Ospedali, "Università") e di privati in un modo o nell’altro cointeressati al feudo. Tutta questa caterva di documenti , costituita da pergamene e da voluminosi registri, uscita miracolosamente indenne da incendi, inondazioni, guerre, devastazioni e terremoti, per nostra fortuna è giunta fino a noi. Oggi essa è conservata negli Archivi di Stato di Messina e di Palermo, nella Biblioteca Comunale di Palermo, nell’Archivio del Collegio Greco di Roma, nell’Archivio Segreto Vaticano, nella Biblioteca Civica di Catania e nell’Archivio Storico del Comune di S. Lucia del Mela. Sarebbe da esplorare anche l’Archivio della Curia di S. Lucia, ma purtroppo esso è attualmente inaccessibile.

E’ strano che tutto questo materiale documentario, dal valore storico indiscutibile, sia rimasto finora ignorato e non sia stato oggetto dello studio che meriterebbe, vista anche l’attenzione che da alcuni decenni si dedica alla storia del mondo rurale, in contrasto con la storiografia del passato che privilegiava la ricerca sulle chiese, le abbazie, i vescovati e le famiglie regnanti.

Il primo che si è avventurato nella lettura di questi documenti, che richiede competenza e pazienza, è stato P. Giovanni Parisi. Questo studioso, al quale il Comune di Pace del Mela dovrà un giorno dimostrare in qualche modo la sua gratitudine (perchè non intitolargli l’Auditorium?), si è limitato tuttavia ad esaminare solo una parte dei registri benedettini (che si trovano nell’Archivio di Stato di Messina), tralasciando lo studio delle pergamene (la maggior parte delle quali è conservata nell’Archivio di Stato di Palermo).

L’amore per questo paese, divenuto ormai la mia seconda patria, mi ha spinto ad incanalarmi nel solco tracciato dal P. Parisi per integrare, ove necessario, e per qualche aspetto correggere i risultati della sua ricerca pionieristica. Posso dire di essere stato molto fortunato. Ho avuto l’impressione che fossero i documenti a cercare me e non io loro. Ma al tempo stesso mi sono reso conto che il lavoro da me intrapreso non può essere portato a termine da una sola persona. Mi sono trovato davanti a un materiale immenso, in massima parte inesplorato, ed ho avuto l’impressione di essere soltanto all’imboccatura di un pozzo pieno di tesori nascosti. La storia del nostro territorio si intreccia, infatti, con quella di S. Lucia del Mela, della piana di Milazzo, di Monforte S. Giorgio, di Messina e di tutta la Sicilia; abbraccia diversi campi e svariati aspetti: la storia dell’agricoltura e quella dell’ordine benedettino, la religione e l’economia, il diritto e la cultura; richiede la competenza del giurista e del paleografo, del diplomatista e del demografo, dell’economista e dell’etnologo; presuppone, insomma, un lavoro d’équipe.

Rivolgo pertanto un appello a quanti possono avere interesse per una simile ricerca, dagli amministratori (comunali, provinciali e regionali) al mondo accademico, alla Università Popolare Comprensoriale di S. Filippo del Mela, al Centro Storico Benedettino di Cesena, ai docenti di ogni ordine scolastico, ai nostri laureati di ogni disciplina, perché si prenda coscienza del patrimonio inestimabile di cui siamo in possesso, perché si dia il necessario supporto finanziario alla ricerca, perché si progetti la pubblicazione di tutti i documenti, perché se  ne renda possibile l’accesso a chiunque lo desideri.

Pubblico, pertanto, tutte le notizie che finora ho potuto raccogliere, con il preciso intento di suscitare curiosità ed avvertendo che si tratta soltanto della punta di un gigantesco, maestoso iceberg. Desidero puntualizzare, inoltre, che le ipotesi da me formulate sono da considerare del tutto provvisorie, potendo venire corrette o stravolte dai risultati di ulteriori ricerche.

Il mio sogno è quello di vedere costituito un Centro Studi sul feudo della Pace e, in prospettiva, l’attivazione di una strategia comune di tutto il circondario della Valle del Mela per la valorizzazione delle nostre risorse culturali al fine di attirare nel nostro territorio, dopo avere creato le opportune infrastrutture, un flusso turistico a carattere permanente.

La denominazione__________

Innanzitutto ritengo necessaria qualche precisazione sulla denominazione con la quale il nostro feudo è stato contraddistinto nel corso dei secoli. Le pergamene che ho potuto esaminare lo chiamano costantemente "Drisino" oppure "Trisino", con qualche variante per quanto riguarda la vocale finale e, in qualche caso, con il raddoppiamento della "s". Solo nelle "Giuliane" compilate nella seconda metà del XVIII secolo dal notaio luciese Giuseppe Parisi troviamo la variante "Trinisi", preferita da  P. Giovanni Parisi perchè dal significato evidente ("tre isole"). Personalmente ritengo preferibile, invece, la forma più antica, anche se il suo significato per il momento ci sfugge. D’altro canto troviamo ancora registrata la forma "Drisino" nel 1767 nei registri dei matrimoni della Parrocchia S. Maria della Visitazione per mano del Priore benedettino don Giacomo Crisafi, il quale sicuramente sapeva quello che scriveva. Credo che l’accento cadesse sulla prima sillaba ("Drìsino") perchè una pergamena del 1415 afferma esplicitamente che il nome più antico era "Drizoni" e non si potrebbe spiegare foneticamente il cambiamento della seconda vocale da "o" in "i" se essa fosse stata accentata. Il nome attuale lo troviamo riportato per la prima volta in un atto di compravendita del 12 settembre 1618, riportato nelle summenzionate "Giuliane" ("nel feudo della Pace seu Trinisi"). Ma ritengo che il suo uso rimonti alla seconda metà del XVI secolo, periodo al quale risalirebbe l’introduzione nel nostro territorio della devozione alla Madonna della Pace o della Visitazione.

Giovan Luca Barberi, scrupolosissimo funzionario di Ferdinando II, scrivendo nel 1511 dei benefici ecclesiastici della Sicilia afferma di avere trovato nei registri della Regia Cancelleria una "provisione" di re Alfonso il Magnanimo del 1425 e una sentenza della Magna Regia Curia del 1433 dalle quali risultava che il feudo chiamato "Triscini" nella piana di Milazzo era stato donato dal conte Ruggero al Monastero benedettino della S. Trinità e di S. Michele Arcangelo di Mileto in Calabria. L’atto originale, che il Barberi non riporta, deve essere cercato, a mio avviso, nell’Archivio del Pontificio Collegio Greco di Roma, al quale l’Abbazia militese fu aggregata da Gregorio XIII il 17 luglio 1581.

I primi documenti__________

Il più antico documento sicuramente ed espressamente riferito al nostro feudo è un diploma rilasciato ad Ulma il 12 settembre 1218 da Federico II di Svevia, re di Sicilia e poi imperatore. In virtù di esso il sovrano, per rimunerare i servigi resigli da Perrone Malamorte, orefice messinese, gli dona il casale Drìsino.

Nell’atto è precisato che il feudo era stato tenuto in precedenza da un certo Ruggero Muto. E’ probabile che da questo personaggio o dalla sua famiglia sia derivato il nome del torrente Muto, chiamato in tutti i documenti pervenutici "fiume de lo Muto" o "di li Muti", e che anticamente, secondo la testimonianza del Fazello, era denominato "Frondone". Il termine "casale" non deve farci pensare a un centro abitato, in quanto tale denominazione veniva allora attribuita a qualunque agglomerato rurale aperto (cioè senza opere di difesa), anche di pochissime famiglie, solitamente quelle addette alla coltivazione del feudo. Quali fossero le colture attuate possiamo dedurlo da un diploma rilasciato a Foggia il 9 dicembre  1250 da Riccardo di Montenero, Maestro Giustiziere della Magna Curia Imperiale, dal quale apprendiamo che il territorio di S. Lucia era coltivato a frumento, orzo, lino, vigne e che vi erano allevamenti di maiali.

Molto importante è un diploma del 20 giugno 1251 nel quale si dice che Pietro Ruffo di Calabria, marescalco del regno di Sicilia, ordinò un’inchiesta sulla qualità e la quantità delle terre vicino alla chiesa di S. Pietro di Drìsino concesse ai nuovi abitatori nel granaio di Milazzo.

Oltre a parlare di una immigrazione di nuovi abitatori (forse "lombardi" attirati in Sicilia dalle favorevoli condizioni di Federico II ) e dello sfruttamento del territorio per la coltivazione del grano (bene preziosissimo per quei tempi), il documento cita per la prima volta una chiesa intitolata a S. Pietro che ritornerà spesso nei documenti successivi. Di questa chiesa, oggi non più esistente, si trova traccia sino agli anni a noi molto vicini. In un atto notarile del 16 ottobre 1923 ho trovato citato, infatti, un fondo "Santo Pietro" e una "Chiesa di Santo Pietro"  in contrada S. Maria o Corinella. Un documento del 2 novembre 1886, inoltre, cita una "strada Santo Pietro" esistente in Pace del Mela, allora borgata di S. Lucia. Mi sorge il dubbio che la chiesa "S. Petri de Melasio",  elencata in una bolla di Eugenio III del 24 febbraio 1151 fra i possedimenti siciliani dell’Abbazia di Mileto, possa essere proprio la nostra chiesa di S. Pietro di Drìsino.

Al dominio di Carlo I d’Angiò (1266-1282) risalgono due documenti provenienti dal Monastero di Mileto: una bolla datata 1273, della quale sconosciamo il contenuto, e un contratto di enfiteusi del 10 giugno 1277, la cui efficacia si protrarrà  per molti secoli. L’abate e il priore del Monastero di Mileto, entrambi di nome Ruggero, allo scopo di porre fine ad una lunga vertenza, concedono a Fiorita, vedova di Buongiovanni di Falcone, e ai suoi figli Federico e Leonardo, il casale "Drìssino". I Falcone erano "militi", cioè appartenenti alla fascia più bassa del ceto nobiliare. Ai due figli venne ceduto il pieno diritto su due terze parti, mentre la parte rimanente venne concessa in usufrutto alla vedova. Il corrispettivo dell’enfiteusi venne fissato in 22 tarì e 10 grana da pagarsi ogni anno il giorno della festa di S. Pietro. Il casale confinava ad oriente con le terre di Costanza di Anito, ad occidente col feudo di Filippo Mostaccio, a meridione con il casale di Gualteri e a settentrione con le terre di Garufa Castagna.

Il 31 maggio 1286, durante il regno di Giacomo d’ Aragona, Riccardo Candiloro, vicesecreto e vicemaestro procuratore della Curia delle Valli di Demina e Milazzo, in seguito a ordini ricevuti con "lettere patenti" a conclusione di una causa tenutasi davanti alla Magna Curia, reintegra Filippa, vedova di Perrono Marchisotto, nei suoi possedimenti presso le fiumare di Rametta e Muto che erano stati confiscati da Carlo I d’Angiò (che il documento non chiama re di Sicilia, ma solo "Conte di Provenza") perchè i Marchisotto erano stati sostenitori del re Manfredi.

La divisione del feudo_______

Dopo la pace di Caltabellotta, per effetto del privilegio emanato a Lentini il 1° ottobre 1302 da Federico III d’Aragona, il feudo Drìsino, così come tutte le terre e i luoghi della zona di Milazzo,  fu sottoposto all’autorità dello stratigoto di Messina. Nel corso di questa nuova giurisdizione, il 7 ottobre 1321, alla presenza del notaio Bonaventura de Perfecto, venne eseguita la divisione del feudo fra i componenti della famiglia messinese dei Bonifacio, che evidentemente erano subentrati ai Falcone. Erano presenti da un parte il milite Giacomo Bonifacio, la moglie Salvaggia e il loro figlio Nicolosio; dall’altra Pietro Bonifacio, figlio del suddetto Giacomo e della sua prima moglie Costanza.

Il feudo venne suddiviso in tre porzioni e, mediante estrazione a sorte, una quota venne assegnata a Pietro Bonifacio e le rimanenti due agli altri familiari. Il feudo confinava con il casale di Camastrà, con le campagne di Cattafi, con il vallone di Galtieri e con la via che portava alla campagna di Condrò.

E’ di questo periodo (6 dicembre 1323) una transazione fra il Beneficiale della chiesa  di S. Lucia e i sindaci (cioè delegati) della stessa "università", dalla quale apprendiamo incidentalmente che alcuni casali della zona erano stati abbandonati (probabilmente durante la guerra del Vespro) e che gli abitatori dei casali circonvicini trovavano rifugio a S. Lucia in occasione delle frequenti incursioni nemiche. Forse è dovuto a questa circostanza il fatto che l’atto di divisione parli esclusivamente del "feudo" Drìsino, senza fare alcuna menzione del relativo "casale".

Otto anni dopo l’avvenuta divisione del feudo, il 5 agosto 1329, gli stessi componenti della famiglia Bonifacio fanno redigere in forma pubblica una sentenza di qualche anno prima emessa a loro favore dal Maestro Giustiziere della Magna Curia contro il Monastero di Mileto in relazione ad alcune terre del tenimento di S. Pietro di Drìssino, vicino ai casali di Condrò, Camastrà e Galteri. Evidentemente l’accordo del 10 giugno 1277 non era stato sufficiente a sopire tutte le vertenze.

Il 19 settembre 1332 Matteo Bonifacio e sua cognata Altadonna, vedova di Giacomino Bonifacio, vendono per il corrispettivo di 36 onze d’oro a Nicolosio Bonifacio, cittadino messinese, delle terre di loro proprietà nel tenimento di Drìsino. I nomi degli appezzamenti oggetto della compravendita sono: Savoca, Pelicano, Campu, Stravusceri, Canna, Petra Pentimali, metà di Scina e metà della Massaria. L’altra metà di questi due ultimi appezzamenti appartenevano a Ligio di Scala, il quale il 26 agosto dell’anno successivo vendette al suddetto Nicolosio l’altra metà della Massaria e metà di un appezzamento chiamato "Tallaturi grandi suttanu".

La Massaria confinava ad oriente con una via pubblica che portava alla marina, ad occidente con altra via pubblica che portava parimenti alla marina, a meridione e a settentrione con terre di proprietà del compratore. Tallaturi grandi suttanu confinava ad oriente con una via pubblica che portava a S. Lucia, ad occidente con altra via pubblica che portava alla marina, a meridione con altra via pubblica per S. Lucia, a settentrione con l’altra metà già di proprietà del compratore. Il prezzo pagato fu di otto onze d’oro.

Ritroviamo il milite Nicolosio Bonifacio nel mese di febbraio del 1337 allorché acquista dal fratello Pietro e dalla cognata Macalda il diritto di attingere acqua da una fonte detta "di li Pigadaci" lungo le falde del monte chiamato "di la Dareda" per il prezzo di sei agostali d’oro. L’acqua veniva trasportata a mezzo di animali da soma. Successivamente, il 17 ottobre del 1346, egli acquista dagli stessi per il prezzo di cento onze d’oro un tenimento di terre chiamato S. Pietro di Drìssino con una chiesa intitolata a S. Pietro.

Il tenimento comprendeva terreni coltivati (nella parte alta) e pascoli (nella parte bassa). Dentro i confini della parte coltivabile esisteva un pozzo, la fonte di Picadagi, la portella della Darera, la portella di S. Venera, la via di Drodo (oggi Drò) e il vallone di Bruca. I pascoli si estendevano dalla terra di S. Pietro in giù fino alla Massaria, al fiume Muto, a Tagliatore, a Condrò e a Gualtieri. Su questi appezzamenti gravava un censo a favore dei Benedettini di Mileto di 7 tarì e mezzo, corrispondenti a un terzo dell’intero censo fissato col contratto di enfiteusi del 10 giugno 1277.

In seguito a questo ultimo acquisto, Nicolosio Bonifacio divenne enfiteuta dell’intero feudo. Nel suo testamento, redatto l’11 febbraio 1355, egli nominò suoi eredi universali i due figli Fazio e Giacomino, lasciando un legato perpetuo di 3 onze d’oro all’anno a favore dell’ospedale Angelo Grande di Messina, detto anche di S. Leonardo. Giacomino morì in tenera età, per cui Fazio, rimasto unico erede, subentrò al padre nel possesso di tutto il feudo. Essendo i figli ancora minorenni, fu nominato un fidecommissario e tutore nella persona del milite Pietro Falcone il quale, stranamente, in un atto del 7 marzo dell’anno successivo dichiara di tenere ad enfiteusi dal Monastero di Mileto solo due terzi del feudo Drìsino.

Da "Il Nicodemo", n. 43 del 3 marzo 1996