DRISINO: un Feudo Sconosciuto

(seconda parte)

di Franco Biviano

I documenti raccontano_____

Nel 1388, durante il regno (nominale) di Maria d’Aragona, si verifica una svolta nella storia del nostro feudo. Il 3 luglio di quell’anno, infatti, Fazio Bonifacio detta al notaio Antonio Vinchio di Messina il suo testamento, nel quale, oltre a  nominare eredi universali il Monastero benedettino di S. Nicola l’Arena di Catania e l’Ospedale di S. Angelo della Caperrina di Messina (nella cui chiesa chiede di essere seppellito), lascia in legato al Monastero benedettino di S. Placido Calonerò (di recente fondazione) le sue due terze parti del feudo Trìsino, consistenti in terre coltivabili e pascoli,  coll’onere di consegnare annualmente alla nipote Mannella Serafino, moglie di Anselmo Spatafora, finchè fosse vissuta, una salma (corrispondente a 256 Kg.) di frumento. Della rimanente terza parte, con un procedimento che non è molto chiaro, si era fatto padrone Pietro Falcone. Lo apprendiamo da un contratto di accordo in data 31 agosto 1388 fra la figlia ed erede di Pietro, Margheritella Falcone, e l’ospedale di Angelo Grande o di S. Leonardo di Messina che chiedeva il pagamento del legato di 3 onze all’anno lasciato, come abbiamo visto, da Nicolosio Bonifacio, padre di Fazio. L’accordo in qualche modo rimise ordine nella questione prevedendo l’attribuzione a Margheritella del solo usufrutto della terza parte. La nuda proprietà enfiteutica (e poi, alla sua morte, la proprietà piena) fu attribuita all’ospedale. Infatti qualche anno dopo, il 6 luglio del 1405, troviamo una quietanza, relativa ai 15 anni pregressi, nella quale si attesta che tenuti a pagare il censo annuo di 22 tarì e mezzo per il feudo Trìsino al Monastero della S. Trinità di Mileto (che era il cosiddetto "domino diretto") sono il Monastero di S. Placido Calonerò (per due terzi) e l’Ospedale di S. Leonardo (per un terzo). Ritroviamo la stessa situazione in due atti del 1410 e del 1412.

È probabile che il feudo dei Bonifacio non comprendesse tutto il territorio designato con il nome Drìsino, all’interno del quale dovevano essere presenti diversi "feudi". Lo possiamo arguire, per esempio, da un testamento del 5 dicembre 1457 con il quale Giliforte di Ursa, oltre a lasciare  al Monastero di S. Placido tutta la sua biblioteca, chiede al Re di volere concedere al fratello Belviso di succedergli nel feudo detto "di li Muti", nella piana di Milazzo.

I terreni in contrada del Muto________

In ogni caso, diversi contratti ci mostrano come i Benedettini di S. Placido si adoperarono immediatamente per ampliare i propri possedimenti in quel territorio. Il 28 maggio 1397  essi cedettero al giudice Santoro Graniordei una terra vuota con case rovinate in contrada Millissori, che avevano avuto da Alberto di Scala, in cambio della metà indivisa di due appezzamenti a Giammoro, in contrada del fiume Muto, uno dell’estensione di 3 salme e mezza (circa 6 ettari) e l’altro di 6 tumoli. Il più piccolo dei due appezzamenti comprendeva un fondaco e una taverna "lungo la via che porta a S. Lucia" (probabilmente la stessa via pubblica che passava, come abbiamo visto nell’atto del 1333, ad oriente della contrada Tagliatore). Il documento precisa che l’Abbate di S. Placido dovette rifondere al giudice Graniordei 5 onze d’oro, come differenza fra il valore del bene ceduto a Millissori, che valeva 45 onze, e quello acquisito a Giammoro che ne valeva 50.

Altri due acquisti di terreni a Giammoro li troviamo nell’anno 1411, uno in data 30 luglio e l’altro in data 14 novembre. Col primo atto il Monastero di S. Placido acquistò da Petruccio Gatto quattro appezzamenti in contrada del fiume "de Muto" e precisamente: Li Vini Suttani, Lu Pizzottu sutta lu fundacu, la Menta (vicino al Pantano) e Lembascu. Il prezzo pagato fu di 75 onze. Esattamente sette anni prima, il 30 luglio 1404, il venditore aveva comprato gli stessi appezzamenti da Altadonna di Afflitto per il prezzo di 50 onze d’oro. Tra i confini sono citate le "terre di S. Gregorio", probabilmente qualche possedimento del monastero basiliano di S. Gregorio Magno di Gesso. Nel contratto interviene Nicolò Castagna di Messina, barone di Monforte, come fideiussore del venditore. Nel secondo atto è lo stesso barone Castagna a vendere al Monastero di S. Placido un altro appezzamento in contrada del "fiume de lu Mutu" che era stato di Leone Mostaccio. Il notaio rogante, Giacomo Guirrerio, precisa che nell’intestazione dell’atto manca il nome del re, perché ancora nessuno si è dichiarato tale dopo la morte di Martino II avvenuta il 31 maggio del 1410. Si tratta della ben nota situazione che portò all’unificazione (28 giugno 1412) dei due regni di Sicilia e di Aragona nella persona di Ferdinando I e all’istituzione nel 1415 della figura del Viceré.

Agli anni 1412 e 1414 risalgono alcuni contratti dai quali si evince che le terre di Giammoro, presso il fiume Muto, venivano date in gabella per la durata di tre anni ai baroni  Nicolò Castagna di Monforte e Giovanni Bonfiglio di Condrò.

Un privilegio______________

Negli anni seguenti, sotto il regno di Alfonso il Magnanimo, la documentazione si fa ingarbugliata. Nell’anno 1513 il Barberi, durante le sue ricerche per la compilazione dei "Capibrevi", trovò annotato nei registri della Regia Cancelleria un privilegio del 25 settembre 1423 con il quale il re Alfonso concedeva a Giovanni Bonfiglio il feudo e il casale di Trisina, il casale di Condrò, le gabelle del vino di Trisina e il fondaco "di lo Mutu", dopo averli tolti al monastero di S. Placido di Calonerò e all’Ospedale di S. Leonardo di Messina in quanto le Costituzioni del Regno vietavano agli enti morali di detenere beni feudali. Su questa affermazione del Barberi avanzerei qualche riserva. Innanzitutto perché lo stesso Barberi due anni prima, come abbiamo visto, trattando dei "Benefici Ecclesiastici" attribuì il feudo "Triscini" al Monastero della S. Trinità di Mileto. In secondo luogo perché i Benedettini di S. Placido ci hanno trasmesso la copia notarile di una lettera viceregia del 10 agosto 1431 con la quale si impone all’unico giudice rimasto dei due incaricati di dirimere la contesa fra il Monastero e il barone di Condrò (l’altro nel frattempo era morto) di desistere da ogni ulteriore ricerca, avendo  la Magna Curia giudicato non fondate le pretese di Giovanni Bonfiglio sul feudo Trisino. Comunque sia, il 18 marzo 1435, il re in persona, trovandosi a Messina, allo scopo di porre fine alle controversie sulla natura burgensatica o feudale del territorio, con atto recante la sua firma autografa stabilisce che Trisino appartiene al Monastero di S. Placido, e ciò anche se esso dovesse risultare di natura feudale. Anzi, per tagliare la testa al toro, egli "infeuda" il suddetto territorio e, ignorando completamente la donazione fatta dal conte Ruggero all’Abbazia di Mileto, lo concede ai benedettini di S. Placido riservando al regio demanio una striscia di terra, dalla spiaggia verso l’interno, ampia quanto lo spazio percorso da un tiro di balestra. Viene inoltre riconosciuta al Monastero la facoltà di nominare un bàiulo che curi la pubblicazione di bandi pubblici nelle case esistenti in contrada Tagliatore (probabilmente le uniche in tutto il feudo).

A rendere poco credibile la notizia del Barberi contribuisce anche la presenza di diverse fonti che ci attestano un costante atteggiamento di benevolenza da parte del re Alfonso nei confronti del Monastero di S. Placido. Il Pirro afferma, infatti, che l’abate del tempo, Placido Campolo, era al re "carissimo". In una pergamena coeva, inoltre, il re Alfonso dichiara esplicitamente la sua devozione a S. Placido e a S. Benedetto "nutrita sin dagli anni più teneri". Ed era stato "per riverenza all’ordine di S. Benedetto" che il 12 febbraio 1400 egli aveva esentato il Monastero da ogni angaria e pagamento di gabelle dovuto alla Curia nelle terre demaniali del piano di Milazzo (cioè S. Lucia, Castroreale, Milazzo e Rometta).

L’assegnazione del feudo Drìsino da parte del re Alfonso nell’anno 1435, facendo assumere al Monastero di S. Placido la veste di "domino diretto", avrebbe dovuto porre fine (almeno per due terze parti) al pagamento del censo in favore del Monastero della S. Trinità di Mileto. Ma le cose non andarono così. In un atto del 10 aprile 1521, infatti, viene ventilata l’ipotesi di porre fine al pagamento di quel censo compensandolo con un possedimento del Monastero di S. Placido nelle vicinanze di Mileto, ma l’operazione non dev’essere andata in porto perché in un altro atto del 3 gennaio 1560 vediamo che un certo Giovanni Auder de lo Solaro, locatario dell’Abbazia di Mileto, chiede ancora conto al monastero di S. Placido di quel pagamento.

Contratti enfiteutici e di affitto

Appartengono al XVI secolo i primi contratti di affidamento dei terreni in enfiteusi o in affitto.  Il 18 maggio 1528 il Monastero di S. Placido concede in enfiteusi perpetua a Bernardo Sacco di S. Pietro di Monforte (oggi S. Pier Niceto) un fondo sito in quel medesimo territorio, in contrada Porticelli. Per contratto l’enfiteuta dovrà consegnare il 1° luglio di ogni anno 14 tumoli ( cioè 224 Kg.) di frumento nel magazzino del "Fondaco di lo Muto". Con un atto in data 6 ottobre 1534 un appezzamento in contrada Pantanello viene affittato per 29 anni a Tommaso Puleio. In questo contratto incontriamo per la prima volta un accenno alle "fronde" di gelso, testimonianza evidente che questa coltura era già stata introdotta nel feudo.

I documenti riportano spesso accenni a liti giudiziarie, soprattutto con i confinanti. Sicuramente non pacifici dovettero essere i rapporti con i baroni di Condrò. I motivi del contendere erano i più disparati. Il 18 maggio 1464 viene spedita una lettera esecutoriale di due sentenze contro Pietro Bonfiglio, al quale si impone di consentire al Monastero il pacifico uso dell’acqua "di li Camastri" e di quella "de Muto". In particolare i monaci hanno il diritto di utilizzare le scolature dell’acqua  del mulino del Bonfiglio quando è in funzione e la metà di tutta l’acqua quando esso è fermo. Il 12 ottobre 1473, poi,  i monaci ottengono che lo stesso Pietro Bonfiglio demolisca un fondaco che aveva abusivamente iniziato a costruire.

Una lite___________________

Particolarmente importante è la lite che il Monastero dovette sostenere relativamente alla restante terza parte indivisa del feudo dei Bonifacio che, come si ricorderà, apparteneva all’Ospedale di S. Leonardo. Il 3 aprile 1542 l’Ospedale di S. Leonardo, come tutti gli altri ospedali di Messina,  venne inglobato in un unico ente denominato "Grande Ospedale di S. Maria della Pietà", che subentrò anche nei diritti sulla suddetta terza parte. Il 21  ottobre 1651, infatti, l’ Ospedale di S. Maria della Pietà si rivolge al Giudice Conservatore del Monastero di S. Placido Calonerò per chiedere di essere reintegrato nella terziaria del feudo chiamato Trìsino o la Pace, cioè nel diritto a un terzo di tutti i frutti, i redditi e i proventi dei seguenti fondi: Santa Vennera, Terre Forti, la Ficara, Cola Grasso, Santo Pietro, Santo Nicola, Strasceri, lo Scarluni, la Petra, la Bagnara, la Filiciusa, lo Bascio della Unna, Ciora, Scina, lo Serro della Massaria ( Il nome "Unna" deriva dall’usanza di lavare il bucato nel torrente Bagnara, dove le donne evidentemente si recavano anche allora). La richiesta dell’Ospedale viene estesa anche ai pascoli, ai mortelleti, al baiulato e alle carceri. L’Ospedale lamenta infatti di essere stato spogliato dei suoi diritti a cominciare dall’anno 1625. Per corroborare la sua richiesta esibisce un contratto dell’11 agosto 1580 contenente un accordo fra l’Ospedale e il Monastero per la liquidazione di tutte le pendenze che si erano venute a creare negli anni precedenti in relazione al feudo Drìsino, da una parte per il diritto alla terziaria, dall’altro lato a fronte di spese sostenute per liti con vari soggetti. Da questo contratto veniamo a sapere che i suddetti appezzamenti erano coltivati a frumento e a orzo, che la produzione di frumento nell’anno 1575 fu di 26 salme e 12 tumoli  (6.848 Kg.) e quella di orzo di 6 salme (1.536 Kg.), che nel feudo all’epoca rimaneva un solo monaco, che il Monastero aveva affrontato spese per liti con la comunità di S. Lucia, con il Procuratore del Regio Patrimonio e con un certo Stefano Gullì. Il nostro documento parla, oltre che dei pascoli, anche di "mortelleti". Evidentemente nel feudo veniva attuato anche lo sfruttamento della mortella (o mirto), utilizzata allora nella conciatura.

Vengono citati inoltre diversi contratti di affitto, stipulati negli anni 1593-1597-1604-1610-1615-1620, nei quali viene rammentato ai gabelloti il diritto dell’Ospedale a riscuotere la sua terza parte di gabella. I locatari sono Cesare Denti, Gian Filippo Crisafi, Gian Luigi Denti e il barone di Condrò Francesco Bonfiglio (al quale dal 1630 sarà attribuito il titolo di Principe). In due contratti successivi, uno stipulato nel 1628 con Nicola Pascalotto e  l’altro nel 1649 con Martino Puleio, senza alcuna spiegazione plausibile, non si fa più cenno al suddetto diritto. I responsabili dell’Ospedale, per essere più convincenti, arrivano ad esibire al Giudice i loro registri sui quali sono annotati i versamenti fatti dal Monastero di S. Placido in forza dei suddetti contratti e le ricevute dei relativi depositi fatti presso il Banco di Balsamo di Messina (fino al 1588).

Il 14 ottobre 1652 il Monastero di S. Placido presenta le sue controdeduzioni e non solo chiede che venga rigettata la richiesta avanzata dall’Ospedale, ma sostiene che quest’ultimo detiene indebitamente la terza parte del feudo Trisino e ne chiede, quindi, la restituzione. La causa durò a lungo. Alla fine l’Ospedale nel 1673 si appellò al Tribunale della Regia Monarchia e il monastero preparò una memoria difensiva opponendo che il contratto dell’11 agosto 1580 era nullo di diritto in quanto i responsabili del Monastero erano stati tratti in inganno. Essi sostenevano inoltre che i diritti di baiulato e di carcere (per uomini ed animali), essendo di natura feudale, erano di esclusiva spettanza del feudatario (cioè del Monastero) e non avrebbero potuto in alcun modo essere ceduti ad altri. Né, d’altro canto, l’Ospedale poteva vantare analoga investitura. Inoltre, rifacendo la storia di tutti i vari passaggi di proprietà che abbiamo visto, i monaci di S. Placido sostengono che Pietro Falcone, essendo soltanto un fidecommissario, non aveva alcun diritto di possesso sulla terza parte del feudo e conseguentemente non ne avevano nemmeno la figlia Margherita e poi l’Ospedale di S. Leonardo. In forza di questo ragionamento essi sostengono il loro diritto di recuperare quella terza parte che Fazio Bonifacio non assegnò loro con il suo legato testamentario perché tratto in inganno dalla detenzione illegale ad opera di Pietro Falcone e dei suoi eredi. Si precisa inoltre che la superficie posseduta al momento dal Monastero non corrisponde alle famose due terze parti del feudo. Infatti, se l’estensione di tutto il feudo è di 224 salme di terra (circa 400 ettari), i due terzi del Monastero dovrebbero corrispondere a 150 salme. Invece il Monastero ne possiede meno della metà. Gli altri appezzamenti di cui i Benedettini sono proprietari (e sono molti) non hanno niente a che fare con il legato testamentario di Fazio Bonifacio, ma provengono da contratti di acquisto o di permuta.

I Rettori dell’Ospedale cercarono di controbattere alle considerazioni dei Padri Benedettini sostenendo che il feudo Trisino si estendeva "dalla Massaria in susu" dove l’ospedale possedeva  diversi appezzamenti per un’estensione di 32 salme ( la Canna, la Fontana, l’arie di Giovanni, lo Battinderi). Il Monastero ribatte che il diploma di concessione di Alfonso il Magnanimo descrive chiaramente i confini del feudo che risulta compreso tra il feudo di Gualtieri, il fiume "dello Muto", il casale di Camastrà, il casale di Cattafi, il vallone di Gualtieri e la via che porta al casale di Condrò. Inoltre il fondaco (definito "antichissimo") si trovava presso la "strada marittima", le carceri si trovavano presso il suddetto fondaco e il diritto di promulgare bandi si riferiva al fondaco, alla contrada Tagliatore (dove esistevano alcune abitazioni) e al mulino presente nel feudo. Tutte queste costruzioni si trovavano "dalla massaria in sutta" ed erano sottoposte alla giurisdizione civile del bàiulo del Monastero. Si chiede infine ai giudici di tenere conto, in ogni caso, delle migliorie  apportate dai monaci nel feudo, che all’epoca in cui ne avevano preso possesso era poco produttivo ("erat parvi redditus").

Lo stato attuale delle ricerche non ci consente di sapere quale fu la decisione del Tribunale della Regia Monarchia. Possiamo comunque arguire che essa fu negativa per il Monastero dato che nei registri di S.Placido relativi agli anni 1705 e 1709 troviamo ancora pagate 30 onze all’ Ospedale di Messina "per il fego della Pace".

Notizie sparse______________

Lo studioso Salvatore Cucinotta ha esaminato una documentazione dell’anno 1650 esistente nell’Archivio Segreto Vaticano e relativa, tra l’altro, al feudo della Pace. In essa si dice che il feudo (per la parte posseduta dal Monastero di S. Placido Calonerò) aveva un’estensione di salme 52 e mezza, comprendeva vigneti, gelseti, seminativi e pascoli. Vi erano inoltre una torre, una cappella e un fondaco. Il tutto veniva affittato con contratto triennale per 383 scudi l’anno. I vigneti producevano 200 botti di mosto, i gelsi davano una resa di 400 cantara di foglie (evidentemente non era stata ancora introdotta la bachicoltura, ma si vendevano soltanto le foglie) e il gregge contava 400 capi fra pecore e capre. Non si parla di uliveti.

Certamente diverse zone del feudo Drìsino non rientravano nei possedimenti dei Benedettini. Possiamo dedurlo dal già citato atto di compravendita del 12 settembre 1618 transuntato nelle "Giuliane" del notaio Giuseppe Parisi e relativo ad alcuni appezzamenti (li Carcari seu Oliveri, pezza del Molino, terre della contrada lo Muto) "nel Feudo della Pace, seu Trinisi". In esso non vengono nominati affatto i Benedettini di S. Placido, né come proprietari, né come confinanti.

Nel primo decennio del secolo XVIII una grave siccità provocò danni ingenti in tutta la Sicilia. Gli effetti si sentirono anche nel nostro territorio ed i Benedettini, vedendo calare notevolmente le loro entrate, dopo avere chiesto il parere di esperti, decisero di rinnovare interamente le colture esistenti (oltre alle vigne e ai gelsi, vediamo comparire gli ulivi). Nei registri contabili di quegli anni troviamo annotato l’acquisto di 1233 piante di ulivo nel 1706, di 85 migliaia di viti nel 1709 e di altre 176 migliaia nel biennio 1710-11. Per fare fronte alle spese, dopo avere ottenuto in data 6 aprile 1711 il beneplacito della S. Sede, essi fecero ricorso ad un prestito di 800 onze all’interesse annuo del 5%.

Per concludere_____________

Qui si ferma la mia sommaria esposizione di notizie sul feudo Drìsino. Altri dati tratti dai registri contabili di S. Placido Calonerò possono essere ricavati dal volume  "Dal Nauloco al feudo di Trinisi" del P. Giovanni Parisi. Chi ha avuto la pazienza di seguirmi fino in fondo si sarà reso senz’altro conto che la strada da percorrere per completare le ricerche è ancora lunga. Intanto, per cominciare, bisognerà compulsare gli atti dell’Ospedale S. Maria della Pietà di Messina, i Tabulari delle Abbazie benedettine della S. Trinità di Mileto e di S. Nicola l’Arena di Catania, i registri della Regia Cancelleria e del Tribunale della Regia Monarchia. Ma sono sicuro che il prosieguo della ricerca amplierà ulteriormente l’orizzonte delle fonti riferibili al feudo della Pace.

Da "Il Nicodemo", n. 44 del 7 aprile 1996