Alla ricerca del Nàuloco

Omaggio a P. Giovanni Parisi nel primo centenario della nascita

Questo articolo vuole essere un modesto, ma sentito omaggio a padre Giovanni Parisi (21.1.1897-25.5.1992) nel primo centenario della nascita. Mi dispiace (ma non mi sorprende) che questa ricorrenza sia passata nel silenzio generale. Pace del Mela possiede una folta schiera di personaggi importanti, ma purtroppo non ha ancora imparato a tenerli nella dovuta considerazione. Mi auguro di dare un piccolo contributo perché si verifichi una inversione di rotta. Avrei voluto addentrarmi in un’analisi di tutta la ricerca storica che padre Giovanni ha dedicato al nostro territorio, ma la natura e i limiti di questi fogli parrocchiali non me lo consentono. Mi soffermerò, quindi, unicamente sul Nàuloco, bacino navale di epoca greca, che padre Giovanni ha localizzato a Giammoro e attorno al quale potrebbe essersi creato un insediamento stabile da cui il nostro paese trarrebbe le sue origini più antiche.

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di Franco Biviano

Allorché, il 15 marzo del 44 a. C., Giulio Cesare cadde sotto i colpi di pugnale dei congiurati, venne a crearsi una grave situazione di instabilità che sfociò nella guerra civile, la quale porterà, nel 27 a. C., alla fine della Repubblica e all’instaurazione dell’Impero. L’episodio risolutivo, che aprì a Cesare Ottaviano la strada della conquista del potere, fu la battaglia navale che ebbe luogo nelle acque antistanti il Nàuloco il 3 settembre del 36 a. C. e che si concluse con la sconfitta del suo avversario, Sesto Pompeo.

Il resoconto dettagliato dello scontro fra Pompeo e Ottaviano, e quindi anche della battaglia del Nàuloco, ci è stato tramandato dallo storico Appiano (Bellorum civilium, libro V, capp. 105-115), il quale scrisse in greco circa 150 anni dopo gli eventi raccontati.  Prima di lui il termine "Nàuloco" era stato menzionato dal poeta Silio Italico che, trattando della seconda guerra punica (219-203 a. C.) ed elencando le città che appoggiarono Cartagine, afferma (Punica, XIV, 258) che "non Naulocha pigra pericli sederunt" ("i Nàulochi non rifiutarono il pericolo"). Un altro autore classico, di poco anteriore ad Appiano, che parla del Nàuloco è Svetonio, il quale riferisce che "Ottaviano sconfisse Pompeo tra Mile e Nàuloco". Dopo di Appiano, che ne parla sempre al plurale, troviamo ancora citato il Nàuloco in Dione Cassio (XLIX, 8) il quale scrive: "Contro Cesare (= Ottaviano) Sesto piazzò i suoi accampamenti fra Mile e Nàuloco, presso l’Artemisio". Dopo di lui, sul Nàuloco (o sui Nàulochi) cala il silenzio più completo. L’esistenza di questa struttura e della località omonima è documentata, quindi, dal III secolo al 36 a. C., anche se è probabile che esistesse ancora nel III secolo d.C., all’epoca in cui scriveva Dione Cassio.

Che cosa accadde nel mare antistante il Nàuloco il 3 settembre del 36 a. C.? Ad un certo momento fu concordato che le sorti della guerra fra Ottaviano e Pompeo venissero decise con una battaglia navale fra due flotte equivalenti per numero. Le navi di Pompeo erano superiori per potenza, ma gli uomini di Ottaviano adoperarono una nuova arma, l’arpagone, una specie di trave appuntita che, conficcandosi nella fiancata delle navi avversarie, consentiva di trascinarle e squassarle sul lido. Così, mentre i due eserciti seguivano da terra le fasi della battaglia navale che avrebbero deciso la loro sorte, quasi tutte le navi di Pompeo venivano affondate o bruciate o distrutte. Alla fine gliene rimasero soltanto diciassette, mentre Ottaviano aveva perso solo tre navi. Vistosi perduto, Pompeo scappò fuori dal Nàuloco, da dove seguiva l’andamento della battaglia, e fuggì con una nave verso Messina. Le sue truppe e la cavalleria si arresero al vincitore.

Il Nàuloco doveva essere un porto di grande capienza, perché Appiano ci informa che prima dello scontro la flotta di Pompeo, costituita da almeno trecento navi, era ricoverata al suo interno. Eppure di questo grande bacino artificiale oggi non  rimane alcuna traccia.

Molti studiosi nel corso dei secoli hanno cercato di individuare i luoghi citati da Appiano, compreso il Nàuloco, ma di fronte all’assenza totale di reperti archeologici non si è potuti andare al di là della formulazione di varie ipotesi, spesso tra loro discordanti. La più grossa difficoltà da superare è costituita dall’alterato stato dei luoghi che nel corso di oltre duemila anni hanno subito innumerevoli modifiche a causa di eventi naturali (inondazioni, frane, terremoti) o di attività umane (guerre, devastazioni, nuovi insediamenti, apertura di strade).

Chi può dire com’era anticamente la piana di Milazzo? Il Fischer (T.FISCHER, La penisola italiana, Torino 1902, pp. 54 e 318) ha avanzato l’ipotesi, ormai generalmente condivisa, che l’attuale promontorio del Capo fosse separato dalla terraferma e che l’istmo si sia formato in età pleistocenica in seguito all’accumulo dei detriti portati dal torrente Mela. Lo studioso Girolamo Fuduli recentemente (G. FUDULI, Contributo per l’indagine archeologica nel territorio del Capo e della Piana di Milazzo, in "Geo-Archeologia", 1994-1, pp. 87-99) ha sostenuto che "le ultimissime fasi di questo lunghissimo processo siano avvenute in epoca storica". A conferma e a maggiore precisazione di questa ipotesi, mi permetto di richiamare l’attenzione su due documenti di epoca normanna dai quali sembrerebbe provato che nel secolo XI il promontorio era ancora staccato dalla terraferma. Il privilegio di donazione di Goffredo Borrello al vescovo di Messina e Troina, Roberto, dell’anno 1086 (finora erroneamente datato 1088), nel descrivere i confini delle "terre di Bozzello" (terras Bucelli), parla di una spiaggia (littus maris) che andava, a quanto pare senza soluzione di continuità, da S. Giovanni fino ad un pantano che doveva trovarsi dal lato opposto (nelle vicinanze del torrente Corriolo). Un altro privilegio, rilasciato 19 anni dopo dalla contessa Adelasia, nell’elencare i beni donati al Monastero di Gala,  cita esplicitamente "S. Euplium seu oppidum[ errata trascrizione per "Opolum"] , qui est in Milatii Insula" (R. Pirri, Sicilia sacra, Palermo 1733, p. 1043). Che cos’altro poteva essere questa "isola di Milazzo" se non l’attuale promontorio del Capo, dove esiste una contrada chiamata "Sant’Opolo", reminiscenza del "Sant’Euplio" del nostro diploma?

La zona, poi, doveva essere cosparsa, soprattutto lungo il litorale,  di pantani e paludi, la cui presenza è testimoniata ancora oggi dalla toponomastica. Da S. Marina, dove esiste una contrada "Gunnazzu" (segnalata dal Fuduli), al pantano presso la Chiesa della Madonna del Boschetto, di cui parla il Fazello, al Pantano di Giammoro e a quello di Monforte Marina. Ma esistono indizi di pantani anche nella nostra zona collinare. Infatti il toponimo "Gualtieri" ( di origine dotta) corrisponde al dialettale "Godèri" o "Guadèri", vicini all’arabo "Gadir" (pantano), e lo stesso vale per "Gaidara" o "Gaedera", casale medievale che, unito nel 1845 con decreto di Ferdinando II di Borbone a quello limitrofo di Cròpani, forma oggi la frazione di Soccorso. Il toponimo plurale "Pantana" e "Lipantana", infine, è frequentissimo  nelle nostre zone collinari.

È comprensibile, quindi, che gli studiosi che si sono occupati dell’ubicazione del Nàuloco abbiano dato di volta in volta, sulla base di considerazioni più o meno convincenti, delle risposte diverse collocandolo ora a Divieto, ora a Spadafora, ora a Giammoro, ora ad Archi, ora a Milazzo. Una panoramica pressoché completa delle varie ipotesi è stata fornita di recente da Claudio Saporetti in un pregevole e prezioso studio (C. SAPORETTI, Il tempio di Diana nella zona di Milazzo, Stromboli 1993) che costituisce sicuramente un punto di riferimento per ulteriori ricerche. Al quadro offerto dal Saporetti mancano soltanto le ipotesi avanzate, in una ricerca dattiloscritta conservata nella biblioteca comunale di Barcellona-Pozzo di Gotto, dall’architetto Pietro Genovese (P. GENOVESE, Studio della battaglia dell’Artemision per la individuazione degli antichi centri di Mylae, Artemision e Naulocos, 1988), secondo il quale il Nàuloco va collocato nel sito oggi occupato dall’istmo di Milazzo, in contrada S. Paolino, tenendo presente, però, che la città di Mile (diversa, secondo il Genovese, da Milazzo) andrebbe collocata in corrispondenza dell’attuale abitato di Rodì Milici.

Alla ricerca del Nàuloco si è dedicato anche padre Giovanni Parisi nell’ambito dei suoi studi sui tre Comuni della Valle del Mela: S. Lucia (G. PARISI, Alla ricerca di Diana Facellina. S. Lucia e il "Melan" nel mito e nella storia, S. Lucia del Mela 1973), S. Filippo (G. PARISI-P. MAGGIO, S. Filippo del Mela e l’antico Artemisio, Messina 1978) e Pace del Mela (G. PARISI, Dal Nauloco al feudo di Trinisi. Profilo storico di Pace del Mela, Messina 1982). Egli vede nel Nàuloco un’opera grandiosa con funzione specifica di cantiere navale giustificata dalla presenza di immense foreste sui Peloritani, chiamati anticamente "Monti di Nettuno" perché fornivano il legname per la costruzione delle navi. Attorno al Nàuloco egli ipotizza l’esistenza di un fitto abitato di tecnici e di maestranze, cioè di un centro chiamato anch’esso "Nàuloco". La struttura si estendeva, a suo parere, nella valle del Pantano di Giammoro, fra il Serro Inglese e il Serro Trainà. A convalida della sua ipotesi egli riporta diversi elementi, due dei quali particolarmente suggestivi. Durante i lavori di costruzione dell’autostrada Messina-Palermo tanto il Serro Trainà che il Serro Inglese si sono rilevati costituiti da terra di riporto, che il Parisi ritiene sia stata accumulata durante lo scavo per la realizzazione del bacino artificiale del Nàuloco. Sul Serro Trainà venne trovata, inoltre, a 20 metri di profondità un’antica spada e sul Serro Inglese, alla profondità di 70 metri, una pigna, indizi del piano di campagna e dello strato vegetativo originari.  

Dove si trovasse il nucleo abitato del Nàuloco il Parisi non lo precisa, limitandosi ad avanzare l’ipotesi che esso si collocasse "alle spalle dello stesso bacino navale", fra Pace e Giammoro. Ma, come il Nàuloco, anche il relativo nucleo abitato sembra svanito nel nulla. C’è solo un piccolissimo indizio sul quale ritengo giusto richiamare l’attenzione. Il diploma del 18 marzo 1435 con il quale Alfonso il Magnanimo conferma al Monastero di S. Placido di Calonerò il feudo Drìsino (ARCHIVIO DI STATO DI PALERMO, Tabulario di S. Maria Maddalena in Valle Giosafat, pergamena n.944) parla di abitazioni in località Tagliatore, proprio a monte del Pantano. Quelle case erano forse la testimonianza ancora viva di un insediamento risalente al III secolo a.C.?

L’impatto dell’originalità delle ipotesi avanzate da padre Giovanni Parisi diede origine a suo tempo a un vespaio di polemiche, talvolta feroci, sulla stampa locale. Il più accanito degli oppositori fu sicuramente Claudio Saporetti, il quale ha attaccato il lavoro di padre Giovanni giudicandolo fuorviante ("quell’opera ci è sembrata dannosa per chi, non avendo dimestichezza con la ricerca storica, si trova esposto ad essere influenzato da quello che legge") e condotto con metodi retrogradi ("l’autore non si è reso evidentemente conto che la ricerca ha fatto passi da gigante, e che i sistemi che egli usa, da un pezzo sono finiti"). Saporetti si erge a garante dell’ordine costituito e delle regole immutabili ("la reazione è stata quella di rimettere le cose a posto"), come se un intruso avesse osato intromettersi nell’orto riservato agli accademici. Ma nel corso del suo studio, smaltiti via via i toni polemici iniziali, egli assume un atteggiamento sereno ed equanime, quell’atteggiamento che fa valutare con rispetto qualunque contributo, da qualsiasi parte venga, nella consapevolezza che ogni nuova intuizione, per quanto astrusa possa sembrare a prima vista, può costituire il punto di partenza per il raggiungimento della verità storica. Quante volte è capitato che partendo da presupposti sbagliati si sia pervenuti a risultati corretti ? (ma che i presupposti del Parisi siano sbagliati è ancora da dimostrare). In ogni caso a padre Giovanni va ascritto il merito di avere gettato un sasso nella stagno immobile della ricerca storica sul territorio milazzese, rimasta per secoli ancorata a vecchie supposizioni a causa dell’assenza di reperti. Lo stesso Saporetti, per sua esplicita ammissione, non avrebbe intrapreso la sua ricerca su "Il tempio di Diana nella zona di Milazzo" se non fosse stato stimolato dalle ipotesi del Parisi ("Questo libro - egli scrive nella prefazione - è nato dalla reazione ad un altro lavoro letto nel 1975").

Per quanto riguarda in particolare il Nàuloco, dopo avere passato in puntigliosa rassegna tutti le ipotesi avanzate fino ad oggi, Saporetti scrive: "tra tutte le prove che gli studiosi precedenti hanno portato, le più convincenti sono senza dubbio quelle offerte dal Parisi", frase che, essendo scritta da un avversario dichiarato, assume certamente un valore emblematico. Egli stesso poi avanza ulteriori considerazioni a favore dell’ubicazione proposta dal Parisi in località "Pantano" di Giammoro, verso la foce del Muto. Vorrei aggiungere una mia riflessione: è solo un caso se da un po’ di tempo si parla della costruzione di un porto industriale nella zona industriale di Giammoro oppure, per i famosi corsi e ricorsi della storia, si stanno ripetendo, con le dovute varianti, le condizioni che spinsero i coloni greci a costruire il porto del Nàuloco proprio dalle nostre parti?

Quello che il Saporetti non riesce proprio a mandar giù sono le premesse di fondo di padre Parisi e cioè che gli "dèi" dei greci e dei romani fossero dei promotori di attività industriali. Diana (la dea della "caccia") sarebbe, secondo lo storico pacese, la ricercatrice di giacimenti minerari, Apollo il promotore della fusione dei metalli, Nettuno il promotore della navigazione e dell’attività cantieristica. Da queste premesse, basate sulle teorie di Pericle Perali (P. PERALI, Roma e il lavoro, Roma 1943), padre Giovanni arriva alla conclusione che l’arpagone, l’arma segreta che decise le sorti della battaglia del Nàuloco a favore di Ottaviano, sia stata costruita nel Tempio di Diana Facellina ( grande complesso industriale metallurgico che egli colloca a S. Lucia, in contrada delle Celle) e fornita dalla dea ad Ottaviano in seguito a precisi accordi politici. Per Saporetti queste sono pure e semplici farneticazioni. Tuttavia è assodato che Ottaviano ad un certo punto si mise sotto la protezione di Apollo, al quale ascrisse poi il proprio successo ad Azio su Antonio (settembre del 31) e al quale dedicò un tempio sul Palatino. Furono soltanto gesti di culto o conseguenze di accordi politico-militari?

Nell’ultimo articolo pubblicato sulla "Gazzetta del Sud" del 12 agosto 1989 padre Giovanni Parisi espresse il desiderio, rimasto finora inappagato, di vedere scandagliati "i fondali del nostro mare, a una certa distanza dal litorale, nella parte compresa tra S. Filippo Archi e il torrente Muto" dove "da due millenni giacciono le carcasse delle numerose navi colpite dal terribile arpagone". Saporetti, da parte sua, auspica una ricerca "collettiva" condotta "da più persone e con ben altri mezzi: foto aerea del suolo, saggi di scavo sui luoghi che sembrano essere archeologicamente interessanti, analisi del terreno con carotieri". Mi auguro che gli appelli di padre Giovanni e di Saporetti, concordi almeno in questo, vengano ascoltati. Per questo segnalo con piacere l’anticipazione fatta da Gabriella Tigano al convegno "Archeologia a Milazzo" del 29 maggio 1993 e cioè che la Sezione archeologica della Sovrintendenza di Messina intende effettuare nel prossimo futuro indagini sistematiche in contrada Reilla di S. Filippo del Mela, dove ormai da più parti viene concordemente ipotizzata la presenza dell’Artemisio (G. TIGANO, Nuovi dati dalle ricerche recenti, in "Geo-archeologia", 1994-1, p. 52). Da "Il Nicodemo" n. 51 del 26 gennaio 1997