Dal 1115 ai nostri giorni

APPUNTI PER UNA STORIA DI SICAMINO'

di Franco Biviano

E' convinzione diffusa che la frazione di Sicaminò sia stata sempre unita a Gualtieri e che insieme abbiano formato un unico Comune, denominato appunto Gualtieri-Sicaminò. In realtà ognuno dei due "casali" ha avuto per secoli vita propria, con un proprio barone, una propria chiesa, una propria economia e, per qualche breve periodo, anche una propria vita amministrativa autonoma. Sicaminò ha avuto, dunque, una sua storia che qui cercherò di tracciare per grandi linee.

Il primo atto di cui siamo in possesso è un privilegio del maggio 1115 (qualche studioso lo data al 1125) con il quale Ruggero II d'Altavilla, figlio del Gran Conte Ruggero, dona al "milite" Gualtiero, detto Gavarretta, in cambio dei servizi da lui ricevuti, il feudo del Casale di Sicaminò e ne descrive dettagliatamente i confini. Su questo documento, che è della massima importanza per la storia locale, ritornerò in un prossimo articolo. Nulla sappiamo di Gualtiero Gavarretta. Salvatore Tramontana lo include fra i  "gruppi propriamente normanni ... giunti in Sicilia al seguito di Ruggero o immediatamente dopo". Dato che il privilegio non parla di precedenti proprietari, siamo indotti a pensare che in precedenza Sicaminò facesse parte del demanio comitale. I nomi delle contrade citate nel documento (Apsicha, Parasporo, Dafni, Milivison, Mesochecuria, Psilosmore) e il nome stesso di Sicaminò rimandano direttamente alla lingua greca. Sicaminò in greco significa, infatti, gelso (al femminile) oppure mora di gelso (al neutro). Della presenza di gelsi nel territorio abbiamo testimonianza in diversi documenti: nel 1456, per esempio, viene concesso in enfiteusi "un pezzo di terre circa tre tumminate con pedi di celsi neri"; nel 1740 il feudo viene definito "consistente in uliveti, vigneti, gelseti".

Oltre a parlare la lingua greca, pare che gli abitanti di Sicaminò seguissero anche le cerimonie religiose in rito greco. Dalle Rationes decimarum apprendiamo, infatti, che nel 1308 officiava nella chiesa di Sicaminò, intitolata a S. Nicola, un prete "greco" di nome Domenico.

Anche il documento di donazione del feudo era redatto in lingua greca. A noi è pervenuta la traduzione ufficiale in lingua latina, eseguita il 20 aprile 1271, ai tempi di Carlo d'Angiò, dal notaio Nicolò Maniscalco a richiesta di Giovanni di Sicaminò, cittadino messinese e possessore di due casali nella piana di Milazzo. Quest'ultima notizia l'apprendiamo dai Registri della Cancelleria Angioina, dove troviamo registrato nel 1275-76 il contratto di matrimonio fra il predetto Giovanni e Magalda de Maraldo. Fra i testimoni del contratto ritroviamo, a distanza di circa 5 anni, il notaio-traduttore Nicolò Maniscalco, che adesso ricopre la carica di giudice.  I due casali, che il documento non nomina, sono Sicaminò e Grappidà (quest'ultimo situato nel territorio di "Samperi di Monforti", oggi S. Pier Niceto).

Nel 1296 viene indicato come feudatario un certo Ambrogio Sicaminò, forse figlio di Giovanni. Ci mancano notizie del feudo per tutto il 1300, ma esso rimase evidentemente nel possesso ininterrotto della stessa famiglia, visto che nel 1408 apparteneva a Gerardo Sicaminò che lo aveva ereditato dal padre Ambrosiano. L'atto con il quale Alfonso il Magnanimo il 17.3.1416 conferma a Gerardo la concessione del feudo di Sicaminò è per noi della massima importanza perché contiene la traduzione del Maniscalco ed afferma che Gerardo è un discendente del Gavarretta. Dal documento apprendiamo anche che l'investitura era subordinata alla prestazione del consueto servizio militare consistente in un cavallo armato o nel pagamento di venti onze annuali. Sembra che i baroni di Sicaminò non avessero il potere di amministrare la giustizia, ma che essa venisse assicurata dai "giurati" dell'università (cioè del Comune) di S. Lucia (Grappidà, come abbiamo visto, rientrava invece nella giurisdizione di S. Pietro di Monforte).

Alla morte di Gerardo, secondo le minuziose ricerche compiute sui registri della Regia Cancelleria nel 1500 dal Barberi, gli succedette il figlio primogenito Tuccio, il quale non ebbe figli. La successione venne raccolta quindi dal fratello Nicolò, figlio secondogenito di Gerardo, la cui investitura è registrata sotto la data del 18 agosto 1425. Da Nicolò il feudo passò alla figlia Smeralda, moglie di Nicolò Faraci, e poi al figlio di lei, Ruggero Faraci (15.1.1453). Per via di successione esso passò in seguito a Bernardino Faraci (22.2.1486) e quindi a suoi discendenti Giovanni Antonio, Nicolò Antonio e Vincenzo. Il 14 marzo 1576, Delia Faraci, figlia di Vincenzo, andò sposa a Francesco Stagno e quindi il feudo passa a quest'ultima famiglia (nelle persone di Giovanni Giacomo, Francesco, Vincenzo, Giacomo II, Vincenzo II) fino all'8 marzo 1756 quando esso, con sentenza del Tribunale della Gran Corte Civile, viene assegnato a Giuseppe Avarna, discendente dei baroni di Sicaminò.

Fu il barone Francesco Avarna a riedificare nel 1769 la chiesa di Sicaminò, che intanto era stata soppressa. Essa tuttavia non era parrocchia e quindi i sacramenti agli abitanti di Sicaminò venivano amministrati dal vice parroco della chiesa di S. Maria dell'Itria di Soccorso Gaidara (nella cui giurisdizione fino al 1767 rientrava anche il feudo della Pace). Alla morte di Francesco Avarna, avvenuta a Palermo il 27 marzo 1781, gli succedette il figlio primogenito Bartolomeo, che fu senatore di Palermo nel 1797-98. Per suo interessamento nel 1792 la chiesa di Sicaminò venne elevata a parrocchia e passò dalla giurisdizione della prelatura di S. Lucia a quella dell'arcidiocesi di Messina. Allo stesso Bartolomeo, con dispaccio del 15 aprile 1793, fu concesso di popolare il feudo di Sicaminò. Bartolomeo Avarna, che nel 1800 acquistò anche il titolo di duca di Gualtieri in precedenza appartenuto alle famiglie Marino e Grifeo, morì a Palermo il 16 gennaio 1811, senza lasciare figli e discendenti, per cui l'eredità venne raccolta prima dal fratello Carlo e poi, nel 1837, dal fratello Nicolò. Da quest'ultimo il feudo passò al figlio Carlo e poi al nipote Nicolò, che nel 1874 sposò Giulia di Somma, la baronessa rimasta nella memoria collettiva per la sua immensa bontà. Nicolò e Giulia non ebbero figli. Il feudo di Sicaminò sarebbe spettato, quindi, al nipote Carlo. Ma il vecchio Nicolò, non approvando che questi avesse sposato una polacca non aristocratica, dispose con proprio testamento che i beni di famiglia non fossero ereditati né da Carlo, né dal piccolo Giuseppe, frutto di quell'unione da lui tanto osteggiata, ma fossero affidati invece a un curatore fino alla nascita del figlio di Giuseppe. Per tale "strana" disposizione testamentaria la famiglia Avarna è rientrata nel possesso dell'ex feudo il 21 marzo 1943, con la nascita di Carlo, attuale titolare.  

Sicaminò ha l'aspetto di un luogo dove il tempo si è fermato. Niente sembra avere intaccato lungo i secoli la tranquillità dei suoi abitanti, né le guerre, né le carestie, né le calamità naturali, né il succedersi delle dinastie regnanti. I confini dell'ex feudo (oggi confini comunali) sono ancora quelli assegnati da Ruggero II a Gualtiero Gavarretta. La stessa toponomastica è rimasta inalterata. Le attività prevalenti nel suo territorio sono tuttora l'agricoltura e l'allevamento del bestiame, anche se il territorio è ormai completamente spopolato. Per un breve periodo, nei primi decenni del XIX secolo, Sicaminò venne anche elevato a Comune autonomo, ma poi, non potendo reggersi da sé, venne aggregato al Comune di Gualtieri che pertanto assunse la denominazione di Gualtieri Sicaminò.

Dal 1812, anno di soppressione dei feudi in Sicilia, la baronia ha assunto l'aspetto e la veste giuridica di una grande azienda agricola. Tuttavia nel linguaggio locale Sicaminò rimane sempre "u feu" e i suoi abitanti, ridotti ormai a una quindicina, vengono ancora designati con il termine "fuoti". Dalle lapidi presenti nella chiesa e dalla documentazione più recente ricaviamo i nomi di tre amministratori che hanno curato la gestione dell'azienda negli ultimi due secoli: Cosimano Matranga (dal 1813 al 1866), Letterio Cucinotta (dal 1890 al 1926), Edmondo de Giacomo (dal 1926 al 1943). Oggi, a seguito della riforma agraria e di vicissitudini interne alla famiglia Avarna, il territorio dell'antico feudo (circa 1300 ettari) è passato quasi interamente in mano a privati.

Sicaminò è una borgata senza futuro. Quando non ci saranno più i pochi anziani che, come piante, restano ancora radicati al suo territorio, l'unica presenza umana sarà quella di mandriani non residenti e di qualche benestante che andrà a trascorrere il week end nella propria villa privata. Forse potrebbero crearsi le condizioni per un avvenire turistico, ma bisognerebbe valorizzare adeguatamente le rinomate cascate del Catàvolo (ancora un termine di origine greca) e il palazzo ducale, recentemente acquistato dalla Provincia Regionale di Messina.

BIBLIOGRAFIA

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Da "Il Nicodemo" n. 60 del 30 novembre 1997