GREGORIO MOSTACCIO

e le presunte origini della prelatura nullius di S. Lucia del Mela

di Franco Biviano

Della Prelatura di S. Lucia di Milazzo (dal 1862 "S. Lucia del Mela") hanno scritto diversi autori (1) limitandosi sostanzialmente a riportare le notizie fornite dal Pirri (2) e dal suo continuatore Vito Amico (3), senza sottoporle al vaglio della critica o al confronto con i documenti originali. Questo procedimento ha consentito il formarsi e il perpetuarsi di luoghi comuni e di convinzioni errate, soprattutto per quel che riguarda il periodo relativo alla istituzione della Prelatura stessa. Quelle notizie, prese finora per oro colato, mostrano infatti tutta la loro inconsistenza non appena esse vengono raffrontate con quelle contenute nelle pergamene conservate nella cosiddetta "Arca Magna" dell'Archivio Capitolare della Diocesi di Patti (4), alla quale S. Lucia appartenne almeno fino al XIII secolo.

L'evento fondamentale, quello da cui si dipana tutta la matassa, è la concessione del Casale di S. Lucia a Gregorio Mostaccio da parte di Federico II di Svevia. Il Pirri riporta al riguardo un solo documento (5) che trovò trascritto nel Libro della Regia Monarchia, cioè il resoconto della causa relativa alla controversia tra Gregorio Mostaccio e il Vescovo di Patti, trattata a Foggia nel mese di dicembre del 1250 davanti a Riccardo di Montenero, Maestro Giustiziere della Magna Curia Imperiale. L'atto riporta il contenuto del "libello" presentato in precedenza dal procuratore del Mostaccio, dal quale apprendiamo che quest'ultimo, in epoca che il documento purtroppo non precisa, era "eletto ... nella Chiesa di Patti" (6) e come tale possedeva anche il Casale di S. Lucia, di pertinenza di quella Diocesi. Ma siccome, a dire del documento, "non aveva la piena amministrazione del suddetto Casale", ne ottenne la concessione "con tutti i suoi diritti, spettanze e pertinenze" da Federico che, in qualità di re di Sicilia, era titolare delle rendite dei beni ecclesiastici in periodo di sede vacante e quindi poteva disporne a suo piacimento. Il vescovo Filippo, che resse la diocesi di Patti dal 1246 al 1255, secondo il procuratore del Mostaccio, contestò  che al momento della concessione reale la sede non era affatto vacante e dichiarò, affermando il falso ("contra verum"), che era lui stesso all'epoca "eletto e confermato". In tal modo, a seguito di un processo nel quale il Mostaccio non venne nemmeno sentito, egli ottenne nell'agosto del 1248 la restituzione alla Chiesa di Patti del Casale di S. Lucia e la condanna della controparte al pagamento di un risarcimento di duemila tarì. Lo stesso vescovo, poi, suggerì all'Imperatore la permuta del Casale di S. Lucia, "utile agli svaghi imperiali", con un altro di valore equivalente e più vicino al territorio di Patti, che venne individuato nel Casale di Sinagra (integrato con una parte del bosco di Ficarra per compensare il minor valore rispetto a S. Lucia). Venuto a conoscenza dello scambio, il Mostaccio, che evidentemente era convinto di avere subito un'ingiustizia con la prima sentenza, tornò alla carica e chiese che il casale di Sinagra e quella parte del bosco di Ficarra venissero assegnati a lui e che il Vescovo di Patti gli restituisse inoltre tutto quello che aveva riscosso a S. Lucia nei dieci mesi intercorsi fra il riacquisto del Casale e la permuta di esso con quello di Sinagra. Ma quando il processo era giunto quasi alla fine ed erano stati ascoltati tutti i testimoni, il Mostaccio, stranamente, rinunciò alle sue pretese. Da quel momento, quindi, Sinagra appartenne alla diocesi di Patti, mentre S. Lucia venne incamerata dalla Regia Corte.

Non recando il Pirri altri documenti, sembrerebbe essere stata questa la conclusione della lite. Ma così non è, perché l'Archivio Capitolare di Patti (dove sono custodite le interessantissime "inquisitiones" fatte dagli ufficiali incaricati della valutazione dei Casali di S. Lucia e di Sinagra) conserva la trascrizione di un accordo concluso a Messina nel mese di agosto dell'anno 1252 alla presenza di Pietro Ruffo di Calabria, Marescalco del regno di Sicilia, in base al quale il Vescovo Filippo, evidentemente riconoscendo le buone ragioni del Mostaccio, s'impegna ad assegnare a quest'ultimo un "beneficio" annuo di sedici onze d'oro, ricevendo in contropartita la rinuncia a qualsiasi diritto, canonico e civile, sia sul Casale di S. Lucia, "che egli ha tenuto e posseduto in beneficio per concessione imperiale o di un vescovo suo (cioè di Filippo) predecessore", sia su quello di Sinagra (7).

La data della concessione fatta al Mostaccio da parte di Federico non è riportata su nessun documento. Il Pirri la colloca intorno all'anno 1206 (8), cioè fra la morte del vescovo Stefano e l'elezione del vescovo Anselmo, ma due righe più sotto egli scrive che nel 1208 il casale di S. Lucia di Milazzo era ancora "sotto la giurisdizione della diocesi di Patti". Nel corso dell'inchiesta condotta dai funzionari imperiali il giorno 20 luglio 1249 nel casale di S. Lucia per valutarne la consistenza (9) furono sentiti 15 testimoni, tra cui due ex procuratori del Mostaccio, un tale che era stato suo siniscalco, e quattro  suoi "recollectores". Il siniscalco, in particolare, disse di avere svolto quell'incarico per tredici anni (quindi, all'incirca dal 1235). D'altro canto, in un atto pubblico di rinuncia redatto a Messina il 13 gennaio 1226, Gregorio Mostaccio viene citato nell'elenco dei testimoni ancora con la qualifica di "canonico della diocesi di Monreale" (10). La donazione del Casale di S. Lucia al Mostaccio va collocata, quindi, non prima del 1226 e non dopo del 1235. Nel febbraio di quest'ultimo anno, infatti, la diocesi di Patti risulta già in possesso del nuovo eletto (poi vescovo) Pandolfo (11) e da quella data, conseguentemente, l'imperatore non avrebbe potuto più esercitare i suoi diritti sulla sede episcopale vacante. Questa datazione concorda con le dichiarazioni testimoniali del baiulo di S. Lucia, anch'egli sentito in occasione dell'inchiesta, il quale colloca appunto il Mostaccio fra il vescovo Giacomo e il vescovo Pandolfo.

Per quale motivo Federico concesse al Mostaccio il Casale di S. Lucia? La mancanza del diploma di donazione non ci consente di avere al riguardo alcuna certezza. Il procuratore del Mostaccio, nell'esporre i suoi diritti davanti al Maestro Giustiziere Riccardo di Montenero, precisò che Federico nel suo privilegio dichiarava esplicitamente che la donazione era sorta "non a richiesta dello stesso Gregorio, ma per sua mera liberalità" (12). Un indizio di verità ci viene dato dalla notizia che il Mostaccio era un "eletto" della Chiesa di Patti. "Eletto" veniva definito a quel tempo il vescovo designato dal Capitolo, prima che ottenesse le necessarie conferme dal sovrano e dal papa (13). Siccome il Mostaccio non viene mai inserito nella lista dei presuli pattesi, dobbiamo ritenere che, per motivi a noi sconosciuti, gli sia mancata la conferma papale (evento a quell'epoca non infrequente) e che Federico, il quale probabilmente aveva suggerito egli stesso l'elezione del Mostaccio a vescovo di Patti, gli abbia assegnato il territorio di S. Lucia come benevolo risarcimento per la mancata nomina.  

Ci rimane da sciogliere un ultimo nodo: chi era Gregorio Mostaccio? Pare assodato che i Mostaccio  fossero una famiglia nobile molto legata all'imperatore (14). In essa si possono distinguere un ramo salernitano e un ramo messinese, al quale ultimo  apparteneva probabilmente il nostro Gregorio, visto che proprio a Messina lo incontriamo nel 1226 quale teste di un atto pubblico.

Dall'esposizione appena fatta si evince chiaramente che il Mostaccio ebbe  il possesso del Casale di S. Lucia per un periodo limitato (tredici anni o poco più) , fino a quando non vi rinunciò definitivamente, e che mai e poi mai egli rivestì la carica di "Cappellano Maggiore del Regno" che per secoli gli si è voluta attribuire. Il primo a cadere in errore fu Vito Amico operando una forzatura che egli stesso non riesce a nascondere (15). Dopo avere detto, infatti, che la storia di quella che egli definisce "Cappellania Maggiore di S. Lucia di Milazzo" è "talmente incerta ed ingarbugliata fino all'anno 1600 circa, che a stento si riesce a dipanarla", egli afferma chiaramente che nei documenti conservati nell'Archivio Capitolare di Patti ha rilevato un particolare che lo ha lasciato per molto tempo perplesso: "cioè che Gregorio Mustaccio da nessuna parte viene detto Cappellano Maggiore". Tuttavia, con una disinvoltura che ci lascia a bocca aperta, ci informa di avere trovato attribuito al Mostaccio il titolo di "Cappellano Maggiore" in certe carte ("in schedis scripturarum") trasmessegli da Mons. Francesco Barbara, a quel tempo Prelato di S. Lucia. E, con un comportamento che non è certo quello del buon diplomatista, presta fede alle copie di Mons. Barbara e non alle pergamene originali conservate nell'Archivio Capitolare di Patti, dando al Mostaccio, e quindi a tutti i presuli luciesi suoi successori, il titolo di Cappellano Maggiore del Regno e facendo sorgere la falsa notizia che S. Lucia sarebbe stata creata da Federico II Prelatura nullius (sarebbe addirittura la più antica del mondo!). Peccato che egli non abbia prestato attenzione alla notizia, riportata dal Pirri, che ancora nel 1280, trenta anni dopo la scomparsa di Federico, il vescovo di Patti "confermò il beneficio ecclesiastico di S. Lucia di Milazzo" (16) e che, quindi, per la giurisdizione ecclesiastica, S. Lucia non era affatto "nullius", ma era rimasta dipendente da Patti.  

Sappiamo per certo, in ogni caso, che ancora nel secolo XV S. Lucia era retta da semplici "Beneficiali", dipendenti dal Maestro Cappellano Maggiore. La notizia ce la fornisce lo stesso Vito Amico con la trascrizione (anche se addomesticata) di un diploma del 19 marzo 1452 (17) con il quale re Alfonso impone all'Arcivescovo di Messina, che aveva attentato alla legittima giurisdizione del Maestro Cappellano Maggiore sui Beneficiali di S. Lucia e di S. Filippo di Milazzo, di non sottomettere quei beneficiali di regio patronato alla propria giurisdizione, ma di rimetterli a quella del Maestro Cappellano ("Vi chiediamo espressamente e vi esortiamo ... perché non molestiate minimamente i suddetti Cappellani Beneficiali delle predette chiese riguardo alla riscossione delle dette collette, né li sottomettiate alla vostra giurisdizione, ma li rimettiate anzi alla giurisdizione del suddetto Maestro Cappellano"). Evidentemente il Beneficiale di S. Lucia non era egli stesso Maestro Cappellano, bensì un semplice cappellano, incaricato della cura spirituale in un territorio appartenente al regio demanio e come tale sottoposto alla giurisdizione del Maestro Cappellano del Regno.

Allorché poi, nell'elencare i Prelati di S. Lucia, l'Amico incontra Giacomo Gallarat (sul quale è costretto a precisare che "il Pirri lo chiama Beneficiale di S. Lucia di Milazzo"), incaponito nelle sue convinzioni, si limita ad ammettere: "se sia stato realmente investito della carica di Cappellano Maggiore, lo ignoriamo" (18). Eppure il Pirri, da lui stesso citato, dice testualmente che il Gallarat, dopo essere stato beneficiale di S. Lucia, nel 1455 fu nominato "Cantore e Beneficiale di S. Maria dell'Ammiraglio in seguito a permuta col predecessore, che ricevette il possesso dal Maestro Cappellano del Regno" (19). Dunque  il Maestro Cappellano, al quale competeva l'immissione dei Beneficiali nella loro giurisdizione, non era il Gallarat, ma un'altra persona.

Molte voci di studiosi si sono levate in passato per ristabilire la verità. Basterà citarne due molto autorevoli, quella del canonico Rosario Gregorio, il quale, trattando del decadimento delle istituzioni siciliane durante il governo dei viceré per l'assenza della corte reale, esplicitamente afferma che "poté il beneficiale della terra di S. Lucia nella Piana di Milazzo, che era una delle cappelle reali, e facea parte della diocesi del cappellano maggiore, per lungo tempo arrogarsene il titolo e la dignità" (20), e quella di Domenico Scinà, secondo il quale l'abate Amico, nelle sue aggiunte al Pirri,  "si mostrò più avido di raccogliere notizie, che paziente nell'esaminarle ... e carte e diplomi inserì dati a lui dall'abate di santa Lucia monsignor Barbara, che non sono degni di fede, e per apocrifi si reputano" (21). Ma le argomentazioni più chiare e dettagliate prodotte al riguardo sono quelle contenute in un lavoro del 1787, purtroppo rimasto allo stato di manoscritto, uscito dalla penna di Mons. Carlo Santacolomba (22), che fu egli stesso Prelato di S. Lucia dal 1780 al 1801 e come tale ebbe la possibilità di esaminare i documenti esistenti nell'Archivio Capitolare di quella Chiesa (23).

Egli scrive, senza usare mezzi termini, che "i Beneficiali di S. Lucia successori di Gregorio Mustaccio e predecessori dei presenti Abbati, non sono stati, come tali, Maestri Cappellani del Regno, ma sibbene dopocché fin dalla riferita loro fondazione siano stati sempre sudditi del Maestro Cappellano, ne anno finalmente usurpato il titolo" (24). A dimostrazione della sua affermazione egli riporta integralmente una lunga serie di documenti, tra i quali una lettera del Vicerè Cardona diretta allo Stratigoto di Messina per disporre che il baiulo e i giurati di S. Lucia si astengano dal richiedere al clero e al regio cappellano della terra di S. Lucia il pagamento di certe gabelle sulle loro proprietà, malgrado gli ordini in contrario emanati dal Maestro Cappellano del Regno, alla cui giurisdizione episcopale essi sono sottomessi (25)

Come sia potuto avvenire un tale abuso di titolo non è difficile da capire se si tiene conto della confusione creatasi dopo l'allontanamento della Corte e la conseguente crisi delle istituzioni. Probabilmente esso fu favorito dall'equivoca denominazione di "Cappellani Maggiori" che veniva data ai vari Beneficiali, quasi simile a quella dell'unico "Maestro Cappellano Maggiore" della Cappella Palatina. Per quanto riguarda l'epoca, il Santacolomba è propenso a credere che ciò sia avvenuto verso il 1494, allorché Alfonso d'Aragona, figlio naturale di Ferdinando II, "fu possessore in Sicilia di pressocché tutti i beneficj ecclesiastici di Regio Patronato" (26) e quindi riunì nella sua persona le cariche di "Cappellano Maggiore" e di "Maestro Cappellano Maggiore".

Una volta usurpato il titolo, i Beneficiali di S. Lucia, assurti con l'inganno alla dignità di Maestri Cappellani, pretesero ovviamente di esercitarne anche le funzioni, in primo luogo quella di celebrare i sacri riti alla presenza della Corte ogni qualvolta il Re si trovasse in Sicilia. Fu così che nel 1651 il Prelato Martino La Farina brigò perché il Consultore del Regno Benedetto di Trelles, "sopra i falsi dati esibitigli dal medesimo" (27), riconoscesse all'Abate di S. Lucia le funzioni di Maestro Cappellano Maggiore.

Ma allorquando il Prelato di S. Lucia pretese addirittura di sottomettere alla sua giurisdizione il Capitolo della Cappella Palatina, quest'ultimo giudicò che si fosse passato il segno e "si sottrasse incontanente dalla giurisdizione del preteso Maestro Cappellano e fu sottomesso dal re alla giurisdizione del Giudice degli Esenti" (28).

I beneficiali di S. Lucia furono sin dall'origine e rimasero per lungo tempo dei semplici parroci. Mons. De Ciocchis, che visitò la Chiesa di S. Lucia il 24 maggio del 1742, attribuisce a quel Prelato soltanto una giurisdizione "quasi vescovile" (29) e precisa che in tutta la diocesi "il Prelato è l'unico parroco" (30). Il primo Prelato ad essere elevato alla piena dignità vescovile sarà Mons. Scipione Ardoino, consacrato nella chiesa di S. Vito di Pozzo di Gotto il 5 marzo 1769 (31).

Quanto alla caratteristica di  essere "nullius dioecesis", non possediamo alcun elemento per sostenere che la Chiesa di S. Lucia all'origine dipendesse direttamente dalla Sede Apostolica di Roma. Dobbiamo aspettare il 1670 per incontrare per la prima volta le parole "nullius dioecesis" inserite, quasi di soppiatto e senza alcuna spiegazione, in un documento papale riferito a S. Lucia in plano Milatii (32). In precedenza re Martino, scrivendo il 7 marzo 1405 al vescovo di Patti, che era in quel momento il Maestro Cappellano del Regno (!), aveva sì affermato chiaramente che il clero e i presbiteri di S. Lucia erano "non subjetti a diocia alcuna", ma specificando altrettanto chiaramente che essi erano "subjetti a la nostra Regia Capella" (33).

 

Note

(1) Mi limiterò a citare soltanto le opere più recenti: SALVATORE CAMBRIA, La Prelatura nullius di S. Lucia del Mela, Palermo 1962; CARMELO MAGGIO, Notizie e sunto storico-critico su la vetusta Città di S. Lucia de plano Milatii, Roma 1964; GIOVANNI PARISI, S. Lucia e il "Melan" nel mito e nella storia, S. Lucia del Mela 1973.

(2) ROCCO PIRRI, Sicilia sacra disquisitionibus et notitiis illustrata,  Palermo 1733 (ristampa anastatica 1987), pp. 769-796.

(3) ID., op. cit., pp. 1346-1352.

(4) L'Archivio Capitolare di Patti costituisce una importante fonte documentaria per lo studio del medioevo siciliano. Molti diplomi sono stati pubblicati, ma il grosso rimane ancora inedito in attesa che l'Università di Messina (Facoltà di Lettere, Istituto di Paleografia) porti a termine la stampa del Codex Diplomaticus Ecclesiae Pactensis. Mi corre l'obbligo di ringraziare l'archivista, canonico Alfonso Sidoti, per la sua cortesia e per la preziosa assistenza prestatami durante la consultazione degli originali.

(5) ROCCO PIRRI, op. cit., pp. 777-778. Il Pirri riporta la trascrizione del Liber Regiae Monarchiae Regni Siciliae (ARCHIVIO DI STATO DI PALERMO, Miscellanea archivistica, vol. II, ms.109, f. 255). L'originale sta in: ARCHIVIO CAPITOLARE DI PATTI, Fondazione, I, f. 258. Il documento è stato ripubblicato, con lievi modifiche, in HUILLARD-BREHOLLES, Historia diplomatica Friderici II, Parigi 1861, t. VI, pp. 801-805.

(6) ROCCO PIRRI, op. cit., p. 777. Per rendere il testo accessibile a tutti, ho ritenuto opportuno riportare nella traduzione italiana tutte le citazioni di brani originariamente scritti in latino.

(7) ARCHIVIO CAPITOLARE DI PATTI, Fondazione, II, f. 239. L'originale doveva trovarsi nel f. 240, ma sembra perduto. Altra copia in Pretensioni varie, ff. 102-103. Pubblicato in: DIETER GIRGENSOHN-NORBERT KAMP, Urkunden und Inquisitionen aus Patti, Tubingen 1965, pp. 148-151.

(8) ROCCO PIRRI, op. cit., p. 776.

(9) ARCHIVIO CAPITOLARE DI PATTI, Fondazione, I, f. 251. DIETER GIRGENSOHN-NORBERT KAMP, op. cit, pp. 133-141.

(10) LEON-ROBERT MENAGER, Les actes latins de S. Maria di Messina (1103-1250), Palermo 1963, p. 149.

(11) ARCHIVIO CAPITOLARE DI PATTI, Censi varii dentro la città di Patte, I, f. 2.

(12) ROCCO PIRRI, op. cit., p.777.

(13) ERNST KANTOROWICZ, Federico II Imperatore, Milano 1976, p. 27. All'epoca l'elezione dei nuovi vescovi in Sicilia era regolata dal Concordato dell'ottobre 1198  fra Innocenzo III e la regina Costanza (HUILLARD-BREHOLLES, op. cit., pp.19 ss.)

(14) DIETER GIRGENSOHN-NORBERT KAMP, op.cit., p.39.

(15) ROCCO PIRRI, op. cit., pp. 1346-1352.

(16) ID., op. cit., p.778.

(17) ID., op. cit., p.1348

(18) ibidem.

(19) ID., op. cit., p. 1363.

(20) ROSARIO GREGORIO, Considerazioni sopra la storia di Sicilia dai tempi normanni sino ai presenti, Palermo l845 (rist. 1972), III, p. 139.

(21) DOMENICO SCINA', Prospetto della storia letteraria di Sicilia nel secolo decimottavo, Palermo 1859 (rist. 1969), I, p. 196.

(22) BIBLIOTECA COMUNALE DI PALERMO, Ms.Qq.H.121, n. XXXII (ff. 350-389). Il Parisi, pur riportando alcuni passi del manoscritto, non ne trae le dovute  conseguenze (G. PARISI, op. cit., pp. 242-244).

(23) Purtroppo non mi è stato consentito di accedere all'Archivio Capitolare di S. Lucia del Mela, nel quale peraltro non pare che si conservino documenti diplomaticamente rilevanti. P. Giovanni Parisi, che frequentò l'Archivio, non parla mai di pergamene, ma solo di un "Libro Capitolare" contenente trascrizioni di antichi documenti (G.PARISI, op. cit., p. 401). Sarebbe comunque auspicabile una maggiore "apertura", almeno nei confronti dei ricercatori.

(24) BIBLIOTECA COMUNALE DI PALERMO, Ms. Qq.H.121,  f. 359.

(25) ibidem, ff. 366-367.

(26) ibidem, f. 377.

(27) ibidem, f. 378.

(28) ibidem, f. 379.

(29) G. A. DE CIOCCHIS, Sacrae Regiae Visitationis per Siciliam acta decretaque omnia, Palermo 1836, II, p.72.

(30) ID, op. cit., p. 77.

(31) La notizia si ricava dall'iscrizione posta sul portale della sacrestia della cattedrale di S. Lucia del Mela. Cfr. G.PARISI, op. cit., p.247.

(32) Cfr. STEFANO DI CHIARA, De Capella Regis Siciliae, Palermo 1815, Series Diplomatum, pp. 139-140. Si tratta, guarda caso, della nomina del successore di Mons. Martino La Farina.

(33) Cfr. ID., op. cit., pp.64-65.

Da "Il Nicodemo" n. 64 del 12 aprile 1998