IL FEUDO DELLA PACE
INTORNO AL 1750

Quando il principe di Condrò prendeva esempio dai Benedettini

di Franco Biviano

Agli inizi del 1700, nello spazio di soli trent'anni, in seguito a giochi politici e conflitti internazionali, si succedettero in Sicilia quattro dinastie: gli Spagnoli con Filippo V d'Angiò (1700-1713), i Savoia con Vittorio Amedeo II (1713-1720), gli Austriaci con Carlo VI d'Asburgo (1720-1734) e poi nuovamente gli Spagnoli con Carlo III di Borbone (1734-1759). Quest'ultimo sovrano, tra gli altri provvedimenti che lo hanno fatto passare alla storia come monarca illuminato, ordinò un censimento generale della popolazione siciliana o, come si diceva allora, un "Rivelo delle anime e dei beni" che si dimostrò particolarmente laborioso e le cui operazioni si protrassero per circa venti anni. Basti dire che esso fu indetto due volte, nel 1740 e nel 1747. Si creò, quindi, uno scambio di corrispondenza fra la Deputazione del Regno, con sede a Palermo, e le varie deputazioni locali, addette al rilevamento. Anche la "numerazione" compiuta nel territorio di S. Lucia fu oggetto di contestazioni e sollecitazioni, come si può rilevare dalla documentazione conservata nell'archivio storico di quel Comune, fonte preziosissima e purtroppo poco utilizzata per la storia del nostro territorio. Dalla capitale viene lamentata la mancata rispondenza dei dati inviati dai Giurati (oggi diremmo la Giunta) di S. Lucia nel 1754 con quelli che erano stati rilevati otto anni prima, nel 1746, dal Prelato della stessa città. Si dispongono, quindi, "indagini ulteriori ... di casa in casa di ogni quartiere" per scovare eventuali "evasori" (i riveli infatti servivano per calcolare l'imposizione tributaria o, come si legge nel bando del 1740, per mettere "in equilibrio i Donativi Regi"). La corrispondenza raccolta nell'archivio luciese (carpetta III.C.9/1) si riferisce alle indagini supplementari svolte nei due casali di S. Filippo e di Soccorso e nei feudi di Cattafi, della Pace e di Belvedere. Io mi limiterò, ovviamente, a riportare le notizie che riguardano il feudo della Pace, che costituisce l'oggetto delle mie ricerche. I giurati, dopo avere sottolineato la premura con cui hanno eseguito gli ordini ricevuti ("di un subito si sono posti a cavallo tre di noi Giurati, il Capitano, ed uno delli Deputati, e non curando né interesse, né fatica in questi giorni estivi, si sono portati personalmente ... nel feudo di Trisini, seu della Pace), si premurano a fornire chiarimenti sui motivi dello scarso incremento demografico registrato nel territorio luciese: "tante famiglie dopo la peste del 1743 andarono ad abitare in Messina, in Fiumedinisi, in Venetico, in Monforte, ed in altri paesi". Dalla relazione apprendiamo che nel 1748 erano presenti nel feudo della Pace 113 "anime", mentre nel marzo del 1754 se ne contavano 175 (62 in più). I nuclei familiari, che allora si chiamavano "fuochi", erano 26 nel 1748, mentre sei anni dopo erano già saliti a 45 (29 in più). Si registrava già allora, quindi, un fenomeno immigratorio che, pur in presenza di modificate situazioni socio-economiche, continua ancora oggi. Il raffronto fra il numero dei nuovi nuclei familiari (29) e il totale dei componenti (62) evidenzia che si trattava di famiglie costituite in genere da due persone, probabilmente nuove coppie che sceglievano il feudo della Pace per mettere su casa. Nel luglio del 1754, dovendo rifare la numerazione degli abitanti del feudo di Cattafi, i giurati si portarono anche nel feudo della Pace. L'operazione diede un risultato leggermente diverso da quello ottenuto quattro mesi prima: furono contate, infatti, 157 "anime", distribuite in 40 "fuochi". I giurati ne approfittano per sottolineare "che sorta di gente vaga e povera abita in detto feudo che in un mese manca e cresce nell'altro". Essi si dilungano poi a descrivere la misera situazione economica degli abitanti, quasi a dimostrare che, dal punto di vista fiscale, nel feudo della Pace non c'era nulla da cavare: "...essere le case dei suddetti feudi  (cioè Cattafi, Pace e Belvedere) abitate da persone povere, e perloppiù forestiere, che un anno abitano come vaghi in un paese, ed un anno in un altro ove possono campare o travagliare, col titolo di coloni, che qui chiamano volgarmente metateri, e così le genti che occorrono in detti feudi sono forastieri venuti ad abitare nelli medesimi dal detto anno 1748 in poi; ... che questi freschi abitanti in detti feudi non possiedono effetti alcuni, si sà, e si riconosce dalla di loro povertà".

Quali fossero i rapporti che intercorrevano tra questi "metatieri" e  i Benedettini, proprietari del feudo, per il momento non ci è dato saperlo. Una notizia precisa, tuttavia, ci viene fornita da un manoscritto dell'Archivio di Stato di Palermo pubblicato recentemente dall'editore Sellerio. Si tratta del "libro verde", compilato nel 1767 da Federico di Napoli, principe di Condrò, per fornire le istruzioni per la buona tenuta del suo feudo. Prima di mettere su carta le suddette istruzioni, il Di Napoli, che aveva ricevuto in dote il feudo di Condrò nel 1747 dalla moglie, donna Felice Bonfiglio, chiese anche consiglio ad esperti e assunse informazioni sul comportamento dei feudatari vicini.  A questo scopo egli incaricò il vicario foraneo di Condrò, don Vito Rizzo, di vedere come si comportavano i Benedettini del feudo della Pace per le spese di guardiania della vigna e per l'uso dei palmenti. Don Vito si recò alla Pace nel febbraio del 1767 e parlò con fratel Tommaso e fratel Modesto, dai quali apprese che i "metatieri" pacesi  pagavano per intero i diritti di custodia delle vigne, mentre non pagavano nulla per l'utilizzazione dei palmenti. Il "fratel Tommaso" contattato dal Rizzo è quasi certamente fra Tommaso Donato, laico professo, amministratore del feudo della Pace, la cui morte è annotata nei nostri registri parrocchiali sotto la data del 18 novembre 1791. Nulla sappiamo invece di "fratel Modesto". A meno che non sia da collegare a lui il nome del torrente Flammodestro (volgarmente detto "Fra Modestu") che parte dalla contrada Santo Pietro, attraversa la contrada Marro e confluisce nel torrente Bagnara.

Quali erano le famiglie presenti a quell'epoca nel feudo della Pace? I giurati luciesi forniscono l'elenco completo dei quaranta "capi di casa", distinguendo quelli che erano già presenti nel 1748 (Antonino Alessi, Domenico Aloi, Natalizia Aloi, Giuseppe Bisbano, Giuseppe Mastroeni, Rosalia Mastroeni, Rosa Milone, Giuseppe Morina, Rocco Morina, Andrea Parisi, Francesco Parisi, Nicolina Parisi, Santo Parisi, Francesco Schepisi, Antonio Viola, Damiano Viola, Giuseppe Viola), quelli che si autodenunciano per la prima volta nel 1754 perché prima appartenevano ad altri nuclei familiari (Agata Alessi, Croce Aloi, Francesco Aloi, Nicola Aloi, Caterina Amalfi, Domenico Mastroeni, Alberto Milone, Tomaso Milone, Antonino Morina), quelli che sono arrivati nel frattempo da altri paesi (Antonio Schepisi, Clemente Campanella, Domenico Fruscella, Antonino Pagano, tutti provenienti da S. Lucia; Giuseppe Amorosia, proveniente da Petralia Sottana; Giuseppe Caminiti, proveniente da Soccorso Cropani) e quelli che avevano fatto i furbi non presentando nessun rivelo (Francesco Alessi, Pietro Camarda, Giovanni Cuminali, Giuseppe Florentino, Nicola Florentino, Pasquale Morina, Domenico Parisi, Francesco Parisi di Calabria). Alcuni di questi nomi li ritroviamo in altre fonti: Croce Aloi, Nicola Florentino, Domenico Parisi, Santo Parisi e Antonio Viola sono presenti nel registro dei defunti della parrocchia S. Maria dell'Itria di Gaedara. Di Damiano Viola sappiamo che nel 1740 pagava un censo ai Benedettini per una casa all'interno del Baglio.

C'era una chiesa già allora nel feudo della Pace? Certamente sì, ma non sappiamo dove fosse ubicata. Nel 1736, quando le famiglie presenti nel nostro territorio erano sì e no una decina, il Prelato Mons. Marcello Moscella, in un elenco delle chiese rurali della Prelatura, cita una "Cappellania di S. Maria Vergine sotto il titolo della Visitazione, situata nel feudo della Pace". Notizia confermata dai registri benedettini, dove nel mese di settembre 1736 si trova annotata l'uscita di 5 onze "per salario del cappellano in un anno". Una ulteriore conferma la troviamo nei registri dei defunti della Parrocchia S. Maria dell'Itria di Gaedara, dov'è annotata la morte di Carmela Viola, avvenuta il 25 gennaio 1747 nel feudo della Pace, con la precisazione che, "in seguito a speciale permesso" ("ex licentia"), il suo corpo non venne tumulato a Gaedara come gli altri, ma nella "Chiesa di S. Maria della Visitazione esistente in detto feudo".

Quasi certamente sarà stato il ritmo incalzante col quale la popolazione del piccolo borgo rurale si accresceva ad indurre i Benedettini ad iniziare, nel 1763, la costruzione ex novo ("a fundamentis", come si legge sotto il ritratto di Mons. Di Blasi conservato nella nostra sacrestia) di un'altra chiesa, più ampia di quella esistente, quella che ancora oggi, a 230 anni di distanza, rimane la nostra chiesa parrocchiale.

Quali erano le cause che attiravano nuove famiglie nel feudo della Pace? Dalle registrazioni contabili dei Benedettini di S. Placido Calonerò, conservate nell'Archivio di Stato di Messina, traiamo la convinzione che in quegli anni si stava procedendo a una trasformazione delle colture e a un più intenso sfruttamento del latifondo della Pace. Nel 1706, infatti, furono acquistate 1233 nuove piante di ulivo, nel 1709  e nel 1711 vennero rinnovati, rispettivamente, 85.000 e 176.000 virgulti di vite. Anche la produzione della seta subisce un incremento, passando dalle 94 libbre del 1705 alle 180 libbre del 1714.

I giurati di Santa Lucia precisano che il feudo della Pace "che si è del Venerabile Monastero di S. Placido di Calonerò di Messina" era stato "dismembrato da ogni giurisdizione di questa Città", per cui "questa Università altro non ricava dalli sudetti abitanti se non che la sola e scarsa gabella del macino". Essi si riferiscono evidentemente alla sentenza emanata il 6 marzo 1727 dal Tribunale della Magna Regia Curia, con la quale era stato  deciso che "ai giurati e al sindaco della Città di Santa Lucia non compete nessuna giurisdizione nel feudo chiamato della Pace". Conseguentemente la giustizia civile e penale veniva amministrata  dallo stesso Monastero, che nel feudo aveva propri ufficiali e proprie prigioni.

Per quanto riguarda Camastrà, i giurati dichiarano che "il Barone di Camastrà don Giovanni Cordone" è "messinese, nativo ed abitante in Messina, e così non sappiamo se fece il di lui rivelo, né tampoco ciò a noi si appartiene".

Da "Il Nicodemo" n. 65 del 17 maggio 1998