S. LUCIA DI MILAZZO
AI TEMPI DI FEDERICO II
DI SVEVIA

Il verbale di un'inchiesta descrive dettagliatamente la situazione del casale nel 1249

di Franco Biviano

Premessa

Sono sicuramente pochissimi i paesi che, come S. Lucia, possono ricostruire minuziosamente il proprio passato sulla scorta di documenti ancora oggi ben conservati. Molti di essi sono già venuti alla luce, grazia alle ricerche compiute da diversi studiosi, fra i quali vanno citati Vincenzo Di Giovanni, Mons. Salvatore Cambria e padre Giovanni Parisi. Immensa è comunque la mole di documenti pubblicati soltanto su riviste specializzate o addirittura ancora inediti, alcuni dei quali possono essere agevolmente consultati nell'Archivio Capitolare (la cosiddetta "Arca Magna") di Patti e nella Biblioteca Comunale di Palermo. È il caso di due documenti in latino, entrambi conservati a Patti, uno pubblicato di recente da due studiosi tedeschi, Dieter Girgensohn e Norbert Kamp, e l'altro inserito dal Pirri nella sua Sicilia sacra. Entrambi i documenti sono legati alla ormai nota vicenda dell'assegnazione di S. Lucia a Gregorio Mostaccio, che per un breve periodo fu "eletto" (cioè vescovo designato, ma non confermato) della diocesi che a quel tempo abbracciava Lipari e Patti. Per una ricostruzione degli avvenimenti, che in passato hanno dato spunto alla inconsistente teoria della presunta istituzione di una "Prelatura nullius" a S. Lucia, rimando al mio precedente articolo pubblicato sul Nicodemo n. 64 (aprile 1998). Diversi documenti di quella vicenda non ci sono pervenuti (ci manca, per esempio, la donazione di Federico II al Mostaccio), ma possediamo un atto preziossimo, al quale fino ad oggi nessuno storico locale ha prestato la dovuta attenzione. Si tratta dell'inchiesta che due funzionari dell'imperatore effettuarono nel casale di S. Lucia per valutarne la consistenza e le rendite, allo scopo di predisporre gli atti necessari per accontentare il vescovo di Patti che aveva chiesto il cambio del territorio di S. Lucia con un altro casale più vicino alla sua sede.  Il 20 luglio del 1249, dunque, quando già il casale di S. Lucia era stato tolto al Mostaccio e restituito al vescovo di Patti, il giudice e il notaio pubblico di Milazzo si recarono nel casale e interrogarono 15 testimoni, "uomini onesti e fedeli all'imperatore", conoscitori delle circostanze che si volevano appurare. Spero di fare cosa utile pubblicando la traduzione italiana di una parte del verbale stilato dai due funzionari. Mi limiterò all'interrogatorio del primo testimone, un certo Carlo, visto che gli altri quattordici hanno sostanzialmente confermato la sua versione, tranne qualche dettaglio di poca importanza per noi.

Il secondo documento, redatto agli inizi di dicembre del 1250 (a distanza di poco più di un anno dal primo), ci consente di avere ulteriori ragguagli sul casale di S. Lucia. Si tratta della richiesta avanzata dal Mostaccio per ottenere la restituzione di tutto ciò che il vescovo di Patti aveva riscosso a S.Lucia nei dieci mesi intercorsi fra il momento in cui il egli era stato privato del casale e il passaggio del casale stesso al demanio regio dopo la permuta col casale di Sinagra. Anche in questo secondo caso, trattandosi di un documento molto lungo,  mi limiterò a dare la traduzione del solo brano che riguarda S. Lucia.

Traduzione I

Carlo, dopo avere prestato giuramento, interrogato sulle rendite del casale di S. Lucia della piana di Milazzo, che appartiene al venerabile vescovo di Patti per diritto della chiesa pattese, disse che il vescovo possiede nel casale i seguenti diritti, cioè il banco di giustizia dello stesso casale e del casale chiamato di S. Filippo, sito nelle vicinanze, che vale annualmente secondo il peso generale sessanta tarì d'oro. Inoltre la dogana dello stesso casale che vale altri sessanta tarì d'oro. Inoltre la decima degli agnelli, delle capre e del formaggio, che tanto gli uomini del detto casale che i forestieri sono tenuti a dare annualmente al suddetto vescovo di Patti, il cui valore annuale è di altri sessanta tarì d'oro. Inoltre l'erbatico e il mandratico dei forestieri che conducono le proprie pecore nel tenimento dei suddetti casali, il cui valore è di 84 tarì d'oro e un terzo all'anno. Inoltre la baiulazione del tenimento dei suddetti casali che vale annualmente trenta tarì d'oro. Inoltre la decima dei porcastri e dei porcelli, che gli uomini dei suddetti casali sono tenuti a dare annualmente sui propri maiali alla suddetta chiesa di Patti. Inoltre il banco di pegno (?) che la suddetta chiesa di Patti ha nel predetto tenimento e che vale annualmente dieci tarì d'oro. Inoltre tre mulini siti nella fiumara dei suddetti casali che rendono annualmente quarantuno salme di frumento equivalenti a 307 tarì e mezzo, cioè sette tarì e mezzo alla salma. Inoltre un appezzamento di terra coltivata, detta di S. Giovanni, che vale annualmente venti salme di frumento e dieci salme di orzo equivalenti a 185 tarì, cioè il frumento secondo il calcolo predetto e l'orzo a tre tarì e mezzo la salma. Inoltre la decima dei prodotti raccolti nei suddetti casali,  che sono tenuti a dare alla predetta chiesa di Patti su tutti i prodotti che raccolgono nelle terre possedute nel tenimento dei suddetti casali, stimate in cinquanta salme, e i terraggi con coperti per i prootti che raccolgono nelle terre della predetta chiesa site nel tenimento predetto e valgono annualmente ventisette salme di frumento meno un terzo e tredici salme d'orzo e un terzo equivalenti a 247 tarì meno un terzo, cioè il frumento a sette tarì e mezzo alla salma e l'orzo a tre tarì e mezzo la salma. Inoltre possiede una vigna, sita nel tenimento del predetto casale, accanto alla vigna di Vassallo Gentile e alla vigna di Michele stimata quaranta salme, che rende alla curia del suddetto tenimento, salve tutte le spese, novanta tarì. Inoltre la decima del mosto, che gli uomini dei suddetti casali sono tenuti a dare alla predetta chiesa sul vino che ricavano dalle proprie vigne e rende annualmente alla suddetta chiesa 135 salme di mosto equivalenti a 270 tarì d'oro. Inoltre le giornate di pariglie e di persone, che gli uomini dei suddetti casali sono tenuti a prestare annualmente alla suddetta chiesa, cioè quelli che hanno buoi prestano due giornate l'anno con le pariglie e personale, una cioè nel periodo del maggese e l'altra nel periodo della semina; si è calcolato che  nei suddetti casali gli abitanti possiedono quaranta pariglie; e quelli che non hanno buoi, prestano due giornate l'anno, cioè una nel periodo della semina e una nel periodo della mietitura; si è calcolato che nei suddetti casali vi sono sessanta famiglie che non hanno buoi; esse valgono annualmente 116 tarì d'oro. La somma di tutti i suddetti redditi dà 1519 tarì e 10 grana. Interrogato inoltre sul numero delle famiglie presenti nei suddetti casali, disse che erano 118. Disse inoltre che nel suddetto casale vi è la chiesa di S. Lucia con tre campane, un palazzo con una camera, una sala con una piccola stanzetta accanto al palazzo, con stanze destinate ad uso di forno e cucina, altre case, una dispensa, un granaio, dove vengono riposti i prodotti raccolti, una stalla coperta e una scoperta e una piccola casetta accanto al campanile della chiesa, tutte riunite in un unico posto. Inoltre vi sono costruzioni che ospitano 24 contenitori grandi e piccoli, che sono 337 salme, tre tini di trenta salme. Interrogato sul sito dei suddetti casali disse che si trovano nella piana di Milazzo, l'uno accanto all'altro. Interrogato a proposito dei loro confini, disse che sono questi, cioè:  cominciano dal tenimento di Gaidara, tenuto da Rainaldo di Amato, che si trova ad oriente, e quindi scendono alla vigna, detta Patha, poi sale lungo il colle fino al monte, detto Viglo, scende attraverso una scala (?) di alberi di castagno fino al fiume del suddetto casale di S. Lucia, da dove scendono lungo il fiume fino alla stradella che si trova sotto la grande pietra bianca, poi sale lungo il vallone che si trova in mezzo alle vigne dei casali di S. Lucia e di S. Filippo, fine alla parte inferiore della vigna della suddetta chiesa di S. Lucia e scende attraverso la vigna di Michele Abruzzese, quindi scendono fino al mulino, detto di Calogero, sale quindi lungo il fiume, detto del casale del fiume, fino al confine di Pancaldo, quindi sale per la chiesa di S. Zaccaria, corrono lungo la via pubblica detta di Agrilla, fino alle pietre rosse, e quindi sale lungo la via pubblica fino al predetto tenimento di Gaidara, sotto Bellomonte, e così si chiude.

Interrogato sulla provenienza delle sue conoscenze disse che era stato baiulo e procuratore di Gregorio Mostaccio, il quale aveva posseduto il suddetto casale, e che aveva riscosso per suo conto tutti i predetti diritti. Interrogato sulla durata dell'incarico, disse che lo aveva svolto per quattro anni.

(Il testo latino si trova in Girgensohn-Kamp, pp. 137-139)

Traduzione II

(Gregorio Mostaccio) chiede altresì la restituzione dei seguenti beni mobili che lo stesso vescovo ha riscosso o fatto riscuotere dopo l'avvenuta destituzione del predetto casale di S. Lucia come si è già detto, cioè salme 125 di frumento che il predetto vescovo ha riscosso o fatto riscuotere sulle 12 salme e mezza di frumento seminate nelle terre e nel tenimento del predetto casale di S. Lucia dallo stesso Gregorio o da altri per suo conto; inoltre 14 salme d'orzo; inoltre 15 salme di lino equivalenti a 160 tarì; inoltre 180 salme di vino equivalenti a 36 once; inoltre sessanta maiali di due anni che lo stesso Gregorio aveva ricevuto dai borghesi del suddetto casale in ragione della decima per l'anno della quinta indizione e che aveva lasciato in loro custodia, calcolati a quattro tarì l'uno, fanno 260 tarì; inoltre mille reti di paglia equivalenti a 500 tarì. Inoltre il predetto vescovo ha riscosso o fatto riscuotere tutti i proventi e le rendite del suddetto casale per dieci mesi, equivalenti a 39 once d'oro e 25 tarì, dei quali chiede parimenti la restituzione come già detto.

(il testo latino è stato pubblicato da ultimo da P. De Luca, p. 106)

Considerazioni

La natura di questa pubblicazione non mi consente un approfondimento dettagliato. Mi limiterò alle questioni di più facile approccio. Dal documento traspare chiaramente che S. Lucia e S. Filippo, pur essendo due casali distinti, costituivano una unità amministrativa ed appartenevano entrambi al vescovo di Patti. La loro economia era essenzialmente agricola, basata sulla coltivazione del vigneto e dei cereali (frumento, orzo) e sull'allevamento del bestiame (buoi, pecore, capre, maiali). Il suolo rendeva dieci volte il frumento seminato. I buoi venivano utilizzati anche per l'aratura. Nella richiesta del Mostaccio compare anche la coltivazione del lino. Alcuni terreni sono di proprietà della chiesa di Patti, ma ve ne sono anche altri di proprietà privata. I proprietari costituivano la categoria dei "burgenses" (il secondo documento li nomina espressamente). Da altre fonti sappiamo che i loro beni immobili venivano detti per l'appunto "burgensatici". Essi erano obbligati a versare al vescovo la decima parte del raccolto e degli animali allevati e a prestare le cosiddette "angarie", cioè a lavorare gratuitamente un paio di giorni all'anno nelle proprietà del signore. Per il resto essi sono esenti da qualsiasi imposta. Solo i forestieri, infatti, sono tenuti a pagare la tassa sull'erba (erbatico) e quella sulle mandre (mandratico) nel caso che introducano i loro animali nel territorio dei due casali. Questo ci ricorda che gli abitanti dei due casali erano "lombardi" (termine che allora indicava genericamente gli abitanti dell'Italia centro-settentrionale), appartenenti a quei gruppi che i sovrani normanni invogliarono a venire a popolare la Sicilia offrendo loro l'esenzione dalle normali imposte. La presenza di "lombardi" a S. Lucia è documentata già al tempo di Ruggero II. Non sono in grado di stabilire se sono "lombardi" cognomi come Aliquaro, Fapollia, Arcodachi, Guercio, Presti, Bullara, Papalona. Sicuramente di provenienza "lombarda" è il testimone Michele Abruzzese, proprietario di una vigna. Anche il nome del primo testimone, Carlo, è un indizio di provenienza lombarda.

Nei due documenti compaiono diversi uffici pubblici: il banco per l'amministrazione locale della giustizia, la dogana per le merci in entrata e in uscita, il bàiulo che cura la riscossione di tutte le imposte, forse c'è anche (la lettura del documento non è sicura) un banco di pegno.

Nei due casali non esisteva alcun castello, né altra struttura difensiva. D'altro canto sarebbe stato strano trovare qualcosa del genere, dato che il termine "casale" indica in Sicilia un agglomerato di case privo di opere di difesa. Né si spiegherebbe, altrimenti, perché 33 anni dopo, nel 1282, Pietro I d'Aragona – come attesta Bartolomeo da Neocastro –  abbia trascorso la notte nel casale di S. Lucia, che si trovava a due miglia da Milazzo, in un alloggio privato (hospicium) dialogando con il padrone di casa (domus hospes) e con gli uomini del suo seguito. Il castello sorgerà solo nel 1322, quando Federico II d'Aragona trasporterà gli abitanti del vecchio casale di S. Lucia in un nuovo sito (quello attuale) e lo munirà di opportune opere difensive.

Lo stesso discorso vale anche per la chiesa. Il nostro testimone parla di una chiesa con tre campane. È molto probabile che quello fosse ancora il tempio fatto costruire verso il 1085 dal conte Ruggero I in onore della santa siracusana. Ma sicuramente non si trattava della odierna cattedrale, la cui costruzione iniziale non può essere anteriore al 1322, cioè alla data del nuovo insediamento della comunità luciese. Peccato che quattro anni fa a S. Lucia si sia pomposamente celebrato (con quale consulenza storica?) il presunto 900° anniversario della fondazione del duomo.

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

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Da "Il Nicodemo" n. 68 del 6 settembre 1998