L’ EROISMO DI UNA MAMMA

Il toccante ricordo di una tragedia accaduta 80 anni fa al casello ferroviario di Giammoro

di Franco Biviano

Chi ha la fortuna di fare la conoscenza di padre Filippo Genovese, l'arzillo sacerdote che a 81 anni suonati guida ancora la parrocchia di S. Biagio nel Comune di Terme Vigliatore, non può non rimanere affascinato dalla sua verve e dalla sua giovialità. Entrando nella sua canonica si viene subito aggrediti dai mille odori che fuoriescono dai contenitori nei quali padre Filippo conserva gli aromi e le spezie preparati con le sue stesse mani: peperoncino, tiglio, zafferano, finocchio selvatico ed altro. Conosciuto in gioventù col nomignolo di "padre cannarozzu" per la sua possente voce, padre Filippo è ancora un abile organista, malgrado abbia subito due operazioni alle gambe (porta due protesi al femore sinistro e tre a quello destro). E' stato sempre un prete-factotum (da piccolo è stato apprendista falegname). Molte delle cose realizzate nella chiesa e nella canonica sono uscite dalle sue mani. Ma padre Filippo non disdegna di eseguire riparazioni anche nelle case dei suoi parrocchiani.

Di due cose è orgogliosissimo: della sua chiesa, dove di recente ha fatto installare un organo elettronico Viscount "Grand Opera", e del suo pesce stocco "a ghiotta" che bisogna assolutamente assaggiare. Della sua vita ricorda tutto con nomi, cognomi, anno, giorno, mese ed ora. A 10 anni, il 16 ottobre 1927, è entrato nel Seminario Arcivescovile di Messina. Ordinato sacerdote il 19 maggio 1940,  venne subito inviato come curato a Fantina, dove arrivò il 1° agosto. Il ricordo di quegli anni, vissuti "come un missionario in Africa", sono impressi indelebilmente nella sua memoria. Ricorda tutto: le traversate invernali sui trampoli per raggiungere le varie contrade isolate dai torrenti in piena; il medico condotto dott. Giuseppe Lo Torto, che si recava a Fantina solo il giovedì; l'incisione a carne viva da lui praticata a Barbara Giardina di Frascianida, colpita da avvelenamento per essersi punta con una spina di olivastro; la casa affittata a Ruzzolino. Dopo sette anni di "missione" a Fantina, il 29 maggio 1947, padre Filippo venne trasferito a S. Biagio, ma la Commissione Parrocchiale, gli fece trovare sbarrate sia la porta della chiesa che quella della sacrestia e mandò ad accoglierlo una banda di ragazzini armati di pentolacce e di vasi da notte. Dovettero passare quattro mesi prima che padre Filippo potesse prendere possesso della nuova parrocchia. Ma subito i fedeli impararono ad apprezzarne la bontà e la simpatia e oggi...guai a chi glielo tocca!

Pochissimi sanno che questo personaggio appartiene alla nostra comunità. Padre Filippo Genovese è nato, infatti, in un casello ferroviario di Giammoro, "nella borgata della Pace", alle ore 8 del 24 marzo 1917, quando la stazione si chiamava ancora "S. Lucia". Il battesimo lo ha ricevuto nella parrocchia "S. Maria della Visitazione" (la parrocchia S. Maria del Rosario verrà istituita solo nel 1939). Il padre, Antonino, casellante delle ferrovie, era finito a Giammoro dopo vari trasferimenti. Il suo compito era quello di mettere le catene al passaggio a livello (ancora non esistevano le barriere)  e controllare il buono stato del suo tratto di linea. Lo coadiuvava la moglie Emanuela Giambò, una cugina che egli aveva sposato il 21 luglio 1906 nella chiesa di S. Antonio Abate di Barcellona.

Quando ricorda questo periodo, padre Filippo si fa subito serio e gli occhi gli diventano lucidi. Questo sacerdote, che sprizza allegria e vivacità da tutti i pori, si porta nel cuore, infatti, un tragico ricordo che, quando riaffiora, lo commuove fino alle lacrime. Quello che sa lo ha sentito dal racconto della nonna paterna, eppure lui, piccolo bimbetto di due anni, ne è stato protagonista. Era il  3 maggio 1919, un normale sabato primaverile. La giornata per la famiglia Genovese trascorreva tranquilla. Il piccolo Filippo sonnecchiava in cucina. Il fratello maggiore, Biagio, di 5 anni, giocava all'esterno del casello. Dal lato opposto, alcune donne erano intente a cucire e ricamare all’ombra, sotto l’alberato. Mamma Emanuela, 34 anni, al nono mese di gravidanza, aveva appena chiuso le catene del passaggio a livello. All'improvviso un dubbio l'assale: dov'è Filippo? Lo chiede a Biagio che va a cercarlo e lo trova in cucina. Ma Filippo scappa e i due bambini si rincorrono andando verso la mamma che si trova dall'altro lato dei binari per attendere il passaggio del treno. Il convoglio sta per sopraggiungere, sferragliante e sbuffante, avvolto in una densa nube di fumo, mentre i bambini attraversano i binari. Mamma Emanuela non ha un attimo di esitazione. Incurante del suo stato e del rischio mortale a cui va incontro, si slancia per spingere Filippo e Biagio fuori dai binari e ci riesce, ma non fa in tempo ad evitare l'urto della locomotiva. Uno stantuffo la colpisce di striscio al fianco, il predellino la ferisce alle gambe. Tutti intuiscono la tragedia. L’improvviso stridio dei freni, l’ansimare degli stantuffi, le alte grida delle donne rendono la scena ancora più agghiacciante. La poverina viene trascinata per una diecina di metri e poi scaraventata lungo la scarpata. Immediatamente soccorsa e caricata sul bagagliaio del treno, viene portata all'ospedale di Milazzo. La notizia si diffonde in un baleno. La mamma e la suocera accorrono al suo capezzale. Si prega e si spera mentre i dottori fanno di tutto per salvare quella mamma coraggiosa. Dopo due giorni, Emanuela dà alla luce una bellissima bambina, purtroppo nata morta. Il giorno seguente, 6 maggio 1919, la sua bella anima lascia questa terra. "Si sono salvati due maschi e sono morte due donne", commenta laconico padre Filippo. Per il suo eroico sacrificio la fondazione Carnegie assegnerà ad Emanuela Giambò una medaglia d'argento al valore civile alla memoria. I parenti ricorderanno poi che Emanuela, al momento di fidanzarsi con Nino, accondiscendendo alla volontà dei genitori, aveva manifestato un brutto presentimento per il fatto che il futuro marito lavorava in ferrovia. "Sia fattu comu vuliti vui - aveva detto - però, chi sacciu, cacchi disgrazia mi succedi!".

A quattro anni il piccolo Filippo, rimasto privo delle cure materne, lascerà per sempre Giammoro e andrà a vivere con uno zio che lo alleverà come un figlio. La storia di padre Filippo è stata anche messa in poesia. Nel 1990, infatti, per il 50° anniversario di sacerdozio, un suo confratello, oggi defunto, padre Carmelo De Pasquale, gli ha dedicato una lunga lirica in dialetto, alla maniera dei cantastorie, che inizia con questi versi:

Don Filippu Ginuisi

Non nascìu ‘nta stu paisi

Ma a Paci ‘i Santa Lucia

‘Nto casellu ‘i firruvia,

E fu ‘ddà chi succidìu

Chi la mamma ci murìu …

(Ha collaborato l’ing. Martino Genovese)

Da "Il Nicodemo" n. 72 del 25 dicembre 1998