Per la storia della nostra chiesa parrocchiale

DAI BENEDETTINI
AL FONDO PER IL CULTO

La ricostruzione della dotazione della chiesa attraverso una sentenza della Corte di Appello di Messina

di Franco Biviano

Le notizie più dettagliate sulla costruzione della Chiesa della Visitazione e sulla costituzione dell’omonima parrocchia erano fino ad oggi quelle riportate in una relazione manoscritta, compilata per mons. Airoldi il 10 gennaio 1806 dall’arcidiacono don Giacomo Coccia, all’epoca Vicario Generale della Prelatura di S. Lucia e intitolata "Notizia del numero delle anime e stato formale e materiale delle chiese della citta’ di Santa Lucia e sua diocesi".

Il Coccia precisa che la parrocchia della Visitazione venne creata smembrando una parte del territorio che in precedenza apparteneva alla vastissima parrocchia di S. Maria dell’Idria di Soccorso Gaidara, la cui giurisdizione comprendeva i feudi di Sicaminò, Camastrà, Cattafi e Pace (ovviamente compreso Giammoro). L’atto costitutivo porta la data del 24 luglio 1767 e fu sottoscritto dal Vicario Capitolare di S. Lucia del Mela don Vincenzo Pagano, previo consenso del Capitolo della Cattedrale. Esso dovrebbe trovarsi nell’Archivio Capitolare di S. Lucia del Mela, ma fino ad oggi non ci è stato consentito di effettuare le necessarie ricerche. Circa 2 mesi prima, il 2 giugno di quello stesso anno, i Benedettini Cassinesi del convento della Maddalena di Messina, all’epoca proprietari del feudo della Pace, avevano sottoscritto davanti al notaio Giuseppe Micale di Messina il cosiddetto "atto di fondazione" della parrocchia, col quale si impegnavano a darle adeguata "dotazione". Quest’atto non esiste negli atti di archivio della nostra parrocchia, né all’Archivio di Stato di Messina e l’unica speranza di ritrovarlo è, quindi, ancora una volta quella di potere accedere un giorno all’Archivio Capitolare di S. Lucia del Mela.

Del suo contenuto, tuttavia, siamo oggi in grado di fornire qualche dettaglio attraverso una sentenza emessa dalla Corte di Appello di Messina il 21 aprile 1903 su una lite tra il cappellano curato della chiesa di S. Maria della Visitazione del villaggio "Pace di Milazzo", don Domenico Ilacqua, e l’Intendente della Finanza della Provincia di Messina, rappresentante dell’Amministrazione del Fondo per il Culto.

Il nostro "cappellano curato" conosceva benissimo la situazione giuridica della parrocchia perché aveva vissuto in prima persona gli avvenimenti che avevano portato alla variazione della proprietà dell’edificio. Prima di essere cappellano curato per 34 anni (dal luglio1868 all’aprile 1903), era stato collaboratore del cappellano suo predecessore, don Placido Ayala, che era un benedettino.

Egli chiedeva, dunque, che oltre all’assegno di £. 1044 annue corrispostogli a titolo di "congrua", lo Stato gli corrispondesse annualmente altre £. 396, 56 per il mantenimento del culto (maestro di cappella, alzamantici, ostie, incenso, lavandaia, olio santo, regali ai chierici, vino per le messe, maestro per parare la Chiesa, campanaro, riparazioni alle suppellettili, cera). Chiedeva inoltre il rimborso di £. 1399, 70 da lui spese per riparazioni straordinarie e per manutenzione (rifusione di due campane spaccate; decorazione di cinque quadri, del pergamo e dei candelieri; riparazione dell’armadio della sacrestia e del coro; cera per le "tenebre" nella Settimana Santa; una finestra grande nuova al prospetto della chiesa con relativi vetri; ferro per due catene al fabbricato del campanile danneggiato nel terremoto del 1894; una cornice al ritratto dell’arcivescovo Di Blasi Gambacurta; ed altre spese minori).

La sentenza contiene la seguente cronistoria: "Il Monastero della Maddalena di Messina possedeva nel 1700 il feudo della Pace, sito in agro di Milazzo, i cui pochi abitatori campestri erano ecclesiasticamente aggregati alla Parrocchia dell’Idria, sita nel casale del Soccorso, la cui lontananza rendeva loro difficoltosa l’amministrazione dei sacramenti, specialmente nella stagione invernale. Cresciuti di numero gli abitanti del feudo, i Padri del convento pensarono di ovviare all’inconveniente erigendo in esso un’apposita chiesa, ed all’uopo rivolsero formale istanza al Vescovo diocesano di Santa Lucia del Mela, chiedendo che la detta Chiesa riconoscesse come curato, e retta da un cappellano da presentarsi e nominarsi in perpetuo dai proprii superiori, salvo la dipendenza diretta dal Vescovo istesso, che quel Vicario capitolare era considerato come il solo Parroco della Diocesi, ed insieme si offrirono di provvedere da proprio alla dotazione e mantenimento della Chiesa e Cappellania. Accolta la istanza venne con istrumento del 2 giugno 1767 rogato l’atto di fondazione, in cui si legge l’obbligo assunto dal Convento a "non solum construere et facere omnia et infrascripta utensilia propria, utilia et necessaria pro uso et comodo dictae Venerabilis Ecclesiae, sed et manutenere et providere ipsam de omnibus sacris utensilibus, nec non de cera, oleo, ostiis, vino et omnibus oliis pro divino culto propriis et consuetis, semper in omni futuro et perpetuum et infinitum" e si trova poi la concessione in perpetuum alla Chiesa ed al secolare Cappellano pro stipendio et manutentione, del reddito di parecchie case, destinate ad essere locate, di alcune terre seminatorie, di alcuni canoni annessi al dominio del feudo, e di onze sei in contante, da sborsare queste al Cappellano pro presentia data et danda in omnibus diebus festivis. Si legge poi nello stesso stipulato che tutte le elemosine che dai fedeli si faranno alla Chiesa debbono restare per conto della medesima senza che il Cappellano vi abbia la menoma ingerenza, ed anzi si determina in costui il dovere di notare in un libro fornito dal Convento tutti gli emolumenti, lucri, proventi, limosine ed ogni altro, proveniente dai medesimi fedeli, e riporli in una cassetta per esitarli nei particolari bisogni della Chiesa, con l’intervento ed approvazione del procuratore del Monastero. Avvenuta la soppressione del Monastero della Maddalena per effetto delle ultime leggi eversive degli Enti ecclesiastici, il demanio dello Stato s’impossessò del feudo della Pace, senza corrispondere alcun assegno alla detta Chiesa e suo cappellano curato. E questo stato di cose durò fino al 27 dicembre 1872, data in cui il Signor Domenico Ilacqua, cappellano pro tempore convenne dinanzi al Tribunale di Messina il Direttore dell’Amministrazione del Fondo Culto e ponendo in fatto che l’originaria dotazione era stata col tempo modificata, poi avendo il Monastero impreso a cedere in affitto il feudo aver continuamente obbligato l’affittuario alle seguenti prestazioni, cioè: 1) £. 306 in contante come assegno al Cappellano; 2) annue salme sei di vino; 3) un’annua salma e mezza di frumento; 4) annue cafisi 18 di olio, dei quali 12 per l’accensione delle lampade nella chiesa; 5) annue 48 rotoli di cacio; 6) lire 153 all’anno in contante per salario al sacrestano; 7) elemosina per la celebrazione della messa festiva nella Chiesetta al Moto. Quali prestazioni importavano l’ammontare di £. 1044, 25 concluse domandando la condanna di esso convenuto al pagamento non solo della detta somma per ciascun anno a contare dal 1° gennaio 1872, ma anche di £. 3132, 25 per le tre annualità arretrate. (…) Con sentenza del 30 luglio 1873 l’adito Tribunale provvide dichiarando la domanda inammissibile (…), ma in appello questa Corte con sentenza dell’8-27 febbraio 1875, ritenendo che , in mancanza di qualsiasi proposta fatta dall’Amministrazione del Demanio come successore del soppresso Monastero, dovea ritenersi valida la nomina d’ufficio dell’Ilacqua, e che nulla importava la non erezione a Parrocchia della Chiesa essendo il dritto all’assegno fondato sopra un atto costitutivo ed efficace, accolse pienamente la domanda. E questa ultima sentenza, in seguito a ricorso in Cassazione che venne respinto, ebbe completa esecuzione".

Tralasciamo le richieste del cappellano Ilacqua che riguardano questioni personali, come il pagamento della ricchezza mobile sulla congrua.

La Corte di Appello non riconobbe al sacerdote Ilacqua il diritto al risarcimento delle spese di culto, proprio perché l’assegno previsto nell’atto di fondazione del 2 giugno 1767 era stato determinato quale completa dotazione, come si deduce dalla frase che lo precede "pro eius stipendio et manutentione". D’altra parte, sostenevano i giudici, nell’atto stesso non era affatto specificato che il Convento rimanesse obbligato a provvedere alle spese necessarie per il culto.

La richiesta di don Domenico Ilacqua venne, dunque, respinta. Oggi, tuttavia, essa costituisce per noi un documento preziosissimo per conoscere la situazione giuridica della chiesa nella delicata fase del passaggio dai Benedettini allo Stato e per sapere quali interventi vi vennero fatti durante il lungo periodo in cui egli fu cappellano. Purtroppo, al momento della sentenza egli era già scomparso, essendo morto il 9 di quello stesso mese, alla veneranda età di 89 anni.

Da "Il Nicodemo" n. 76 del 2 maggio 1999