LA ROMAGNA

LA ROMAGNA DEI POETI

La cavèja e il gallo - Simboli della Romagna


Numerosi sono i poeti che hanno trattato della Romagna - e dei romagnoli - nella loro produzione letteraria.

Cominciamo con un sonetto di Giuseppe Gioacchino Belli, in dialetto romanesco. E' tratto, assieme al commento che segue, dal volume "Roma romagnola" di Armando Ravaglioli (Roma, Ed. "Roma Centro Storico", 1982).

LE REGAZZATE DE LI ROMAGNOLI

Semo inzomma da capo, eh sor Zirvestro,
Co sti romaggnolacci de Romaggna?
Ma sta porca gginìa de che sse laggna
c'oggni tantino j'aripija l'estro?

E' 'na cosa ch'io propio sce sbalestro
Lamentasse, pe ddio, de sta cuccaggna!
Che spereno de ppiù? de vive a uffaggna?
De mette er zanto-padre in d'un canestro?

Nun cianno come nnoi cchiese, innurgenze,
Preti, consorterie, moniche, frati,
Carcere, tribbunali e pprisidenze?

Nun c'è ggiustizzia llà ccome che cqui?
Ma vvia, propio sti matti sgazzarati
Se moreno de vòjja de morì.

La sterminata raccolta di sonetti romaneschi elaborata da Giuseppe Gioacchino Belli a lato della sua più compassata ed accademica produzione in lingua italiana, venne detta "Il Commedione" perché, a somiglianza della "Commedia" dantesca, vi confluiscono tutti i fatti e le esperienze del suo tempo.

Questo 2083° sonetto venne suggerito al Belli dai moti che scoppiarono a Rimini il 23 settembre 1845 e che costituivano l'ennesima dimostrazione di insofferenza delle popolazioni romagnole per l'assetto politico che si era instaurato nello Stato pontificio con la restaurazione post-napoleonica. Le considerazioni che il Belli svolge sono attribuite ad un ipotetico popolano benpensante, ma - nel loro apparente conformismo governativo - sono piene di amara ironia su uno stato di cose caratterizzato da sovrastrutture antiquate e di ipocrisia.

Eppure, a ben rifletterci, vi si rinviene la diametrale differenza che corre tra il popolano romano scettico ed assuefatto e quello romagnolo insofferente, che si muore "de voija de morì" per la libertà.

Nella espressione "romagnolacci de Romagna", "porca gginìa" (genìa), "matti sgazzarati" sembra tuttavia di cogliere una meravigliosa ammirazione per un atteggiamento ribelle che il romano, impastoiato dalla sua lunga storia di relazioni con il Potere, non riesce a prendere.


All'inizio del secolo anche Olindo Guerrini (alias Stecchetti) componeva una serie di sonetti intesi a descrivere in maniera ironica e trasgressiva gli avvenimenti del suo tempo. Scegliamo quello che dedica alla propria terra, traendolo dal volume postumo "Sonetti romagnoli" (Bologna, Zanichelli, 1969).

RUMAGNA

E dai! Tott quent i l'ha cun la Rumagna
Ch'e' pè ch'la sia la cheva d'i assassen.
A gl'i è toti calogni d' birichen
Che l'invigia smardosa la si magna.

Invezi us pò zirè par la campagna
Ch'un baia gnanc un can da cuntaden;
Nissò pensa a rubè, tott is vò ben,
I lavora, i fadiga e i si guadagna.

E mel l'è ch'i va vì di tant in tant
E un s'in sa piò nutìzia, tant'è vera
Che e' Segreteri um ha cuntè che intant

E' Sendich nov d'la Tera e d' Castruchera
L'ha fatt pruposta d' butè zò e' campsant
Che intignamod is mor tott in galera.

ROMAGNA

E dagli! Tutti quanti ce l'hanno con la Romagna
Che sembra essere la cava degli assassini.
Sono tutte calunnie di birichini
Divorati da una vergognosa invidia.

Invece si può girare per la campagna
Che nemmeno abbaia un cane da contadino;
Nessuno pensa a rubare, tutti si amano,
Lavorano, faticano e se li guadagnano.

Il male è che di tanto in tanto vanno via
E non se ne sa più nulla, tant'è vero
Che il Segretario mi ha raccontato che frattanto

Il Sindaco nuovo della Terra di Castrocaro
Ha proposto di demolire il camposanto
Tanto muoiono tutti in galera.


E come non citare Giovanni Pascoli? Zvanì nella sua lingua materna? Anch'egli ha dedicato molti versi alla sua terra ed alle amare e tragiche esperienze della sua vita. Nella lirica intitolata proprio "Romagna" il Pascoli rivive le nitide immagini della vita campagnola di un tempo, ormai lontano ed irrimediablmente perduto. Da notare che la poesia contiene uno dei più famosi esempi di utilizzo dell'anacoluto (uno degli errori più gravi, da segnare con matita blu, secondo l'insegnamento tradizonale) per dare maggior vigore al testo.

ROMAGNA (a Severino)

Sempre un villaggio, sempre una campagna
mi ride al cuore (o piange), Severino:
il paese ove, andando, ci accompagna
l'azzurra visïon di san Marino.

Sempre mi torna al cuore il mio paese
cui regnarono Guidi e Malatesta,
cui tenne pure il Passator cortese,
re della strada, re della foresta.

Là nelle stoppie dove singhiozzando
va la tacchina con l'altrui covata,
presso gli stagni lustreggianti, quando
lenta vi guazza l'anatra iridata,

oh! fossi io teco; e perderci nel verde,
e di tra gli olmi, nido alle ghiandaie,
gettarci l'urlo che lungi si perde
dentro il meridïano ozio dell'aie;

mentre il villano pone dalle spalle
gobbe la ronca e afferra la scodella,
e 'l bue rumina nella opache stalle
la sua laborïosa lupinella.

Da' borghi sparsi le campane intanto
si rincorron coi lor gridi argentini:
chiamano al rezzo, alla quïete, al santo
desco fiorito d'occhi di bambini.

Già m'accoglieva in quelle ore bruciate
sotto ombrello di trine una mimosa,
che fiorìa la mia casa ai dì d'estate
co' suoi pennacchi di color di rosa;

e s'abbracciava per lo sgretolato
muro un folto rosaio a un gelsomino;
guardava il tutto un pioppo alto e slanciato
chiassoso a giorni come un birichino.

Era il mio nido: dove, immobilmente,
io galoppava con Guidon Selvaggio
e con Astolfo; o mi vedea presente
l'imperatore nell'eremitaggio.

E mentre aereo mi poneva in via
con l'ippogrifo pel sognato alone,
o risonava nella stanza mia
muta il dettare di Napoleone;

udia tra i fieni allor allor falciati
de' grilli il verso che perpetuo trema,
udiva dalle rane dei fossati
un lungo interminabile poema.

E lunghi, e interminati, erano quelli
ch'io meditai, mirabili a sognare:
stormir di frondi, cinguettio d'uccelli,
risa di donne, strepito di mare.

Ma da quel nido, rondini tardive,
tutti tutti migrammo un giorno nero;
io, la mia patria or è dove si vive,
gli altri son poco lungi, in cimitero.

Così più non verrò per la calura
tra que' tuoi polverosi biancospini,
ch'io non ritrovi nella mia verzura
del cuculo ozïoso i piccolini,

Romagna solatìa, dolce paese,
cui regnarono i Guidi e i Malatesta,
cui tenne pure il Passator cortese,
re della strada, re della foresta.


Tra l'abbondantissima produzione di Aldo Spallicci numerose sono le poesie dedicate alla sua "piccola patria". Tralasciando le molte di ispirazione pascoliana, preferisco presentare il sonetto in cui il poeta, prendendo spunto da una aneddottica ancora viva tra la gente romagnola, racconta l'origine del... romagnolo.

E' RUMAGNÔL

E Signor, fnì 'd fê e mond e va un pô in zir
E cun San Pir e passa dò parôl;
E intant ch'i è int una presa ui fa San Pir:
"la Rumâgna t'l'é fata, e e rumagnôl?"

Ui vô dla zenta sora a sti cantìr,
T'an vré za fê la mama senza e fiôl?"
"Me a te farò, mò l'à dal brot manìr,
Arcôrdat ch'at l'ò det, bêda sbrugnôl".

E dasènd d' chilz par tëra cun un pè
E fasè saltê fura senz'armor
E stamp de rumagnôl piantê pr'e drèt;

In mangh 'd camisa, un ciof coma un galèt,
Cun e su capalcin int al vintrè:
"A sò iquà me, ció, bôja de S.....!"

IL ROMAGNOLO

Il Signore, fatto il mondo, va un po' in giro
E scambia due parole con San Pietro;
E mentre sono in una presa San Pietro gli fa:
"la Romagna l'hai fatta, ma il romagnolo?"

Ci vuole gente sopra questi campi,
Non vorrai fare la mamma senza il figlio?"
"Io te lo farò, ma ha modi sgarbati,
Bada ragazzo, ricordati che te l'ho detto".

E dando un calcio per terra con un piede
Fece uscir fuori senza rumore
Il prototipo del romagnolo piantato per dritto;

In manica di camicia, un ciuffo da galletto,
Col suo cappelluccio sulle ventitre:
"Io sono qua, ció, boia del S.....!"


Anche Enzo Guerra, dei Pirèta di S. Potito, ha trascorso la maggior parte della sua vita lontano dalla Romagna (lavorava per le Ferrovie dello Stato). E' quindi comprensibile che di tanto in tanto venisse colto da una certa malinconica nostalgia.

MALINCUNÈJA RUMAGNÔLA

Quand ch'a turn' a sintì "l'udór d' Bagnéra",
ch'l'è udór d'cla tëra indó ch'a sò nêd mè,
e a vègh stra j ujm andê zò e sol la sera,
um ciàpa un quël... ch'an e sò gnanca mè.

L'è una tristèza ch'la ven sò d'in tëra
pianì-pianì cum'è una nèbia, um pê;
d'indó ch'j à spes tot la su vita i Guëra,
d'indó ch'l'è môrta, a la su cros, mi mê.

E alora a pens a la mi camarena,
nuda e giazêda, cun un spicì rot,
i sëch ad canva e l'aza dla Bitena.

E a vrèb murìr alà, luntan da tott,
cun l'ojum ch'e ven sò a la finistrena
e un quêlch "cì-cì", gnaquant, di pasarott.

MALINCONIA ROMAGNOLA

Quando torno a sentire "l'odore di Bagnara",
che è odore di quella terra dove sono nato io,
e la sera vedo tra gli olmi calare il sole,
mi prende una cosa...che non so nemmeno io.

E' una tristezza che sale su dalla terra
piano-piano come una nebbia, mi sembra;
da dove hanno speso l'intera loro vita i Guerra,
da dove è morta, alla sua croce, mia madre.

E allora penso alla mia cameretta,
spoglia e fredda, con uno specchietto rotto,
i sacchi di canapa e l'accia della Bettina.

E vorrei morire là, lontano da tutti,
con l'olmo che si affaccia alla finestrella
e un qualche "cì-cì", ogni tanto, dei passerotti.


Chiude la breve carrellata una composizione di Ubaldo Galli, di Castelbolognese, un fine declamatore che riprendendo argutamente i temi dei suoi vari predecessori, fa un po' giustizia di molti luoghi comuni su Romagna e romagnoli che da più parti ancora resistono. Le poesia porta come sottotitolo la citazione "...e se i m'amaza u n'un m'importa: / viva la Rumagna d'una volta."

RUMAGNA

"Rumagna solatìa" u l'à dett Zvanì.
Tèra dl'aibana, tèra de' sanzvés.
Rumagna, alà, stugleda o dretta in pì,
j à semper dett che t'sì un gran bèl paes.

Rumagna cun in testa una bangéra,
Rumagna tra calìgh e solaglion,
Rumagna messa in cros matèna e sera,
Rumagna a pètt avert o in urazion.

Rumagna garibaldena d'Gigì Ursen,
d' Renato Serra, d' Spaldo, d' Beltramèll,
Rumagna cuntadena d' Bartulen,
d' Bruchìn, d' Enzo d' Piretta e d' su fradèll.

Rumagna dla "trafila" senza una spèja,
Rumagna semper pronta in tott i chés.
dov set andèda a fnì Rumagna mèja,
che e' Passador l'è dvent un calabrés?

Pròpi l'êt dè un zert Argnon d' Cisèna,
mitènd i rumagnùl tott int un mazz,
senza sintì e' paré d' frê Caruzèna,
e' vo' fê la "ripòblica d' Tugnazz".

Burdèl, badém a me, daseni un tai,
parchè a pinsêi ben e a dila s-cèta,
cun totta sta Rumagna d' sparguai,
u t' ven la voia d' dì: os-cia ch' malèta!

ROMAGNA

"Romagna solatìa" lo ha detto Zvanì.
Terra dell'albana, terra del sangiovese.
Romagna, là, sdraiata o dritta in piedi,
hanno sempre detto, sei un gran bel paese.

Romagna con in testa una bandiera,
Romagna tra foschia e solleone,
Romagna messa in croce mattina e sera,
Romagna a petto aperto o in preghiera.

Romagna garibaldina di Luigi Orsini,
di Renato Serra, di Spaldo, di Beltramelli,
Romagna contadina di Bartolino,
di Bruchìn, di Enzo Guerra e di suo fratello.

Romagna della "trafila" senza una spia,
Romagna sempre pronta in tutte le occasioni.
dove sei andata a finire Romagna mia,
che il Passatore è diventato un calabrese?

E l'altro giorno un certo Rognoni di Cesena,
mettendo i romagnoli tutti in un mazzo,
senza sentire il parere di frate Carrozzina,
vuol fare la "repubblica di Toniaccio".

Ragazzi, sentite me, diamogli un taglio,
perché a ben pensarci e a dirla schietta,
con tutta questa Romagna di soppiatto,
ti viene la voglia di dire: ostia che scocciatura!

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