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Apparecchi a gas: disposizioni contrastanti con la direttiva 90/396/CE

Antonio Oddo
Avvocato

Le direttive comunitarie vincolano gli Stati membri che devono recepirle correttamente nel proprio ordinamento. Ogni ritardo ed ogni infedeltà rispetto ai termini ed ai contenuti della direttiva può essere deferito dalla Commissione della CE dopo una procedura "precontenziosa", con ricorso alla Corte di Giustizia che si pronuncia con Sentenza. È appunto quanto accaduto nella vicenda che ha determinato la causa C - 112/97 tra la Commissione delle Comunità europee e la Repubblica italiana, e che si è conclusa con la condanna di quest'ultima. La sentenza della Corte di Giustizia Europea, pubblicata sul numero di giugno della rivista, ha dichiarato illegittima la disposizione dell'art. 5, comma 10, del D.P.R. 412/93 in materia di installazione di generatori di calore di tipo individuale.

Mentre ancora molti, spesso fuorviati da un genere di "informazione" troppo superficiale e pasticciona, si interrogano sul reale significato dell'"ingresso" in Europa, lo Stato italiano continua a collezionare condanne da parte della Corte di Giustizia delle Comunità Europee per violazione delle direttive comunitarie nei più disparati settori industriali.
Dalle apparecchiature elettriche(nel luglio '77) alle macchine e, da ultimo, alle apparecchiature a gas il nostro Stato, che pure è tra i "soci fondatori" della Comunità europea, ha dovuto prendere atto solo a seguito di procedure di infrazione - e di condanne giudiziarie in sede europea - della realtà giuridica che proviene da "fonte" comunitaria e che travolge in modo alluvionale, spazzando via anche i detriti, la legislazione nazionale. Questa alluvione normativa o, se si preferisce, secondo una recente dottrina, questa " rivoluzione silenziosa" è stata infatti caratterizzata, secondo le linee di riforma dei trattati istituzionali delle Comunità europee, da direttive comunitarie le cui finalità di armonizzazione totale delle legislazioni dei paesi membri dell'Unione europea, comportano (entro termini sempre perentori) il superamento e l'eliminazione di ogni diversa e contrastante disposizione nazionale. È importante, a questo riguardo, rimarcare come "l'alluvione" comunitaria non può essere arginata né con espedienti o giustificazioni fondati sui ritardi in "buona fede" dei parlamenti nazionali né con éscamotages contenuti in leggi o regolamenti nazionali e tendenti, direttamente o indirettamente, a ridurre la portata e gli effetti della nuova legislazione europea. L'esperienza (giudiziaria) di questi anni dimostra infatti come tutti i tentativi nazionali di aggirare - in buona o mala fede - il diritto comunitario siano risultati vani perché troppo facilmente smascherabili in ogni seria occasione di confronto tra le diverse realtà normative. Il primato del diritto comunitario sul diritto nazionale, infatti, è stato ormai affermato e riaffermato dalla Corte di Giustizia della C.E., dalla Corte Costituzionale e dalla Corte di Cassazione.
Questa ormai "antica" (se si considera che le prime esperienze giudiziarie risalgono agli anni '70) "lezione" avrebbe dovuto essere appresa ed applicata anche dal nostro legislatore in materia di apparecchi a gas se è vero che lo specifico settore è ormai disciplinato dalla direttiva 90/396/CE concernente " il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di apparecchi a gas".
Illuminante e decisivo, a questo riguardo, avrebbe dovuto risultare il 5° "considerando" della direttiva ove, tra le varie motivazioni dell'atto comunitario si individua, fondamentalmente, quella di stabilire " prescrizioni necessarie per soddisfare i requisiti imperativi ed essenziali della sicurezza, della salute e del risparmio energetico", aggiungendo che "questi requisiti devono sostituire le prescrizioni nazionali in materia poiché essi sono essenziali".
C'era quanto bastava, dunque, per considerare la direttiva in esame (che soltanto negli aspetti formali della marcatura CE è stata modificata dalla successiva direttiva 93/68/CE) come la "legge europea" applicabile (ex art. 14 della direttiva 90/396/CEE) dal 1/1/92 (facoltativamente) e dal 1/1/96 (obbligatoriamente), salvo che per le modifiche relative alla marcatura CE che sono applicabili (ex art. 14 della direttiva 93/68/CE) dal 1/1/95 (facoltativamente) e dal 1/1/97 (obbligatoriamente). Lo Stato italiano, inoltre, avrebbe dovuto "adottare e pubblicare" le disposizioni della direttiva sugli apparecchi a gas fin dal 1° luglio 1991. Com'è noto, infatti, le direttive comunitarie vincolano gli Stati membri che devono recepirle correttamente, puntualmente e tempestivamente nel proprio ordinamento. Ogni ritardo ed ogni infedeltà rispetto ai termini ed ai contenuti della direttiva può essere deferito dalla Commissione della CE (la quale, a sua volta può essere "attivata" su "istanza di parte"), dopo una procedura "precontenziosa", con ricorso alla Corte di Giustizia che si pronuncia con Sentenza. È, appunto, quanto accaduto nella vicenda che ha determinato la causa C - 112/97 tra la Commissione delle Comunità europee e la Repubblica italiana, e che si è conclusa con la condanna di quest'ultima per avere istituito e mantenuto " un regime che, nel caso di nuova installazione di apparecchi a gas, prescrive l'utilizzazione nei locali abitati di generatori di calore esclusivamente di tipo "stagno" con ciò vietando implicitamente l'installazione di generatori di calore di tipo diverso conforme alla direttiva del Consiglio 29 giugno 1990, 90/396/CE..."
Dunque l'Italia, che, secondo quanto prima esposto, avrebbe dovuto, già "anteriormente al 1° luglio 1991", attuare nella specifica materia degli apparecchi a gas la direttiva comunitaria, ha, invece, introdotto nel proprio ordinamento "un regime" diverso ed incompatibile rispetto alla disciplina comunitaria. L'esito del procedimento dinanzi alla Corte di Giustizia era dunque scontato e tale da non creare alcune meraviglia alla lucedei presupposti fin qui indicati.


Tuttavia la vicenda merita di essere ricostruita, in primo luogo, per le sue conseguenze in termini di legislazione (o regolamentazione) che risulta in concreto applicabile o disapplicabile agli apparecchi a gas. In secondo luogo la vicenda giudiziaria qui commentata riveste un valore emblematico per tutti i numerosi casi di "conflitto" tra una legislazione comunitaria caratterizzata da sempre più vasta applicazione ed una legislazione nazionale caratterizzata, per converso, da sempre più vasta disapplicazione in materia di macchine, apparecchiature e dispositivi di (quasi) tutti i generi; macchine, apparecchi a pressione, apparecchiature antideflagranti, apparecchiature elettriche a bassa tensione, ecc.
Per la ricostruzione di questa (purtroppo) non isolata vicenda può essere significativo ricordare come - a fronte di una preesistente legge nazionale (peraltro presidiata da sanzioni penali) in materia di apparecchi a gas - la L. 1083/71 - che avrebbe dovuto essere modificata per adeguare l'ordinamento interno a quello comunitario (prima del 1° luglio 1991), lo Stato italiano - invece di emanare una legge o un provvedimento ad essa equiparabile -ha tergiversato con alcuni provvedimenti assolutamente inadeguati - per contenuto e forma - alle esigenze comunitarie emanando, dapprima, una circolare ministeriale (la n. 161382/92) e, poi, un decreto del Ministero dell'Interno (del 12/4/96).
La prima, infatti, com'è noto non è "fonte" del diritto e non può costituire, per costante insegnamento giurisprudenziale, atto valido per adeguare l'ordinamento ad una direttiva comunitaria. Il secondo, in quanto decreto ministeriale, non poteva certamente, per sua natura (al di là di ogni valutazione di "merito") modificare una preesistente legge formale ordinaria qual è, appunto, la L. 1083/71.
Ma c'è di più, e di peggio. Nelle more (che datano dal '91) di un valido recepimento della direttiva comunitaria (che sarebbe intervenuto soltanto con il D.P.R. 661/96) lo Stato italiano ha adottato un "regime"- con l'art. 5, comma 10 del D.P.R. 412/92 - palesemente contrastante con la direttiva comunitaria rispetto alla quale il medesimo Stato italiano si era posto in stato di morosità. Non è dato sapere a chi scrive se atteggiamenti di questo genere siano adottati consapevolmente o inconsapevolmente dalle nostre "Autorità". È dato sapere, invece, con assoluta certezza, quali siano i risultati di queste "distrazioni" legislative sul piano europeo-comunitario.
La disposizione italiana "incriminata", prescrive infatti, nei casi di nuova installazione o di ristrutturazione dell'impianto termico che comportino l'installazione di generatori di calore individuali, esclusi i casi di mera sostituzione di questi ultimi, l'impiego di generatori isolati rispetto all'ambiente abitato, oppure di " apparecchi di qualsiasi tipo se installati all'esterno o in locali tecnici adeguati".
Pertanto, alla stregua di questa disposizione regolamentare nazionale contenuta nell'art. 5, comma 10 del D.P.R. 412/93, l'installazione di generatori diversi da quelli di tipo isolato (e, dunque, diversi rispetto al tipo cosiddetto "stagno") risulta essere autorizzata soltanto all'esterno o in locali specificamente adibiti.
Ne deriva, evidentemente, seppure indirettamente, il divieto di installare in normali locali abitati - in quanto non esterni e non specificamente "adibiti" - apparecchi diversi da quelli di tipo "isolato" quali, in particolare, gli apparecchi (peraltro diffusissimi) di tipo "aperto".
Al contrario la direttiva 90/396/CEE, secondo quanto già anticipato, prevede l'autorizzazione generalizzata alla commercializzazione e messa in servizio di apparecchi a gas di qualsiasi genere (senza alcuna distinzione, dunque, tra tipo stagno e tipo aperto) all'unica condizione che tali apparecchi siano conformi ai requisiti essenziali di sicurezza previsti dall'all. 1 della Direttiva (v. art. 2, 3 e 4) e che tale conformità ai requisiti assolutamente indispensabili risulti attestata secondo le procedure di valutazione prescritte dagli artt. 8 - 11 e descritte sugli all. II e III della Direttiva medesima. La disposizione del-l'art. 5, comma 10 del D.P.R. 412/93, invece, adotta, ai fini della legittima installazione e, pertanto, della legittima " messa in servizio" un requisito tutt'affatto diverso e legato unicamente all'installazione all'esterno o all'interno di determinate categorie di apparecchi a gas.
In tal modo si introduce automaticamente un ostacolo all'installazione di generatori di calore anche se rispondenti ai requisiti di sicurezza previsti dalla direttiva comunitaria che disciplina lo specifico settore e che prevede, ex art. 4, il principio normativo secondo il quale "Gli Stati membri non possono vietare, limitare, od ostacolare l'immissione sul mercato e la messa in servizio degli apparecchi che soddisfano i requisiti essenziali enunciati dalla direttiva".
Sebbene l'incompatibilità tra le due disposizioni, rispettivamente nazionale e comunitaria, appaia manifesta anche ad un osservatore superficiale, lo Stato italiano ha tuttavia tentato - nel corso della procedura d'infrazione avviata dalla Commissione della CE ex art. 169 del Trattato - tra il '94 ed il '99 - una impossibile difesa fondata essenzialmente sulla tesi che gli apparecchi a gas che non siano "isolati" (e non siano, pertanto, di tipo "stagno") non potrebbero comunque, per loro natura, assicurare il rispetto dei requisiti essenziali di sicurezza previsti dalla direttiva.
Tutti gli apparecchi di tipo "aperto", infatti, pur se dotati di un apposito dispositivo di sicurezza destinato a bloccare la combustione in caso di esalazioni nocive, risulterebbero comunque "pericolosi" se installati all'interno di un locale, e tale pericolosità sussisterebbe comunque nonostante la presenza di ventilazione regolare e di una piena conformità alle prescrizioni normative in materia di installazione.
A sostegno della propria tesi il Governo italiano ha "prodotto" i risultati delle prove del laboratorio della Società ITALGAS di ASTI dalle quali risulterebbe una situazione di "pericolosità" dei generatori di tipo aperto in presenza di particolari circostanze capaci di indurre " grave inquinamento all'interno del locale". Tali "circostanze", simulate negli esperimenti di laboratorio, sarebbero costituite da: vento discendente per il camino con velocità superiore a 0,5 m/s, vento discendente per il camino a raffiche della durata di 15 secondi, alternate a 30 secondi di funzionamento a tiraggio naturale, scambiatore di calore occluso per l'88%.
A fronte di questo genere di argomentazioni - che si pongono al di fuori di tutte le logiche difensive valide a livello comunitario - la Commissione ha avuto buon gioco a replicare sostenendo una serie nutrita di controdeduzioni che non potevano non trovare facile e completo accoglimento presso la Corte.
Infatti:
- i requisiti essenziali in materia di sicurezza, di salute e di risparmio energetico sono stati già tutti considerati nell'all. I alla Direttiva in particolare ai pp. 3.1.9 e 3.2.1. Con riferimento specifico ai pericoli collegabili ad una esalazione dei prodotti della combustione in quantità "pericolosa" esiste una rigorosa prescrizione del p. 3.4.3 dell'all. I secondo la quale " ogni apparecchio collegato ad un condotto di evacuazione dei prodotti della combustione deve essere costruito in modo che, in caso di tiraggio anomalo, non si producano esalazioni di prodotti di combustione in quantità pericolosa nel locale in cui è situato".
- Con ancor più specifico riferimento poi alle caldaie di "tipo aperto" - cui si vorrebbero porre vincoli e limitazioni di utilizzo
- le prescrizioni tecniche ad hoc, sono state codificate in una norma europea armonizzata (norma EN 297) adottata dal CEN (GUCE 1995 C 187, pag. 9) che prescrive come tali caldaie debbano essere munite di un dispositivo di sicurezza che blocca il funzionamento dell'apparecchio nel caso in cui la evacuazione dei prodotti della combustione sia anomala per un determinato lasso di tempo. Da qui, pertanto, la presunzione legale di conformità - in presenza di una norma armonizzata finalizzata a prevenire uno specifico rischio
- ai requisiti essenziali fissati dalla direttiva per soddisfare la specifica esigenza di sicurezza che lo Stato italiano pretende, invece, di considerare e disciplinare unilateralmente.
- Esistono, e sono riconosciute dall'ordinamento italiano (v., tra l'altro, il rinvio normativo previsto nella L. 1083/71), specifiche tecniche contenute - ai fini della sicurezza nell'installazione di apparecchi a gas - nelle norme UNI-CIG 7129 le quali consentono l'installazione di apparecchi di tipo aperto in locali abitativi", salvo particolari divieti o limitazioni legati a locali come le camere da letto, i bagni e le docce. Da qui la facile argomentazione secondo la quale con la prescrizione dell'art. 5, comma 10 del D.P.R. 412/93 lo Stato italiano si è posto in contrasto, oltre che con l'ordinamento comunitario, anche con il proprio ordinamento. - La direttiva e, più in generale, le istituzioni comunitarie contemplano al proprio interno, secondo principi e norme di natura comunitaria, apposite procedure per "mettere in discussione" sia le norme armonizzate già emanate sia i prodotti "marcati CE" quando esistano, e siano dimostrabili nel rispetto del diritto comunitario, "lacune" delle previsioni normative rispetto alle esigenze fatte proprie dai requisiti essenziali di sicurezza per la completa tutela delle persone, degli animali domestici e dei beni.

Tali procedure sono previste dall'art. 5, comma 1 e dall'art. 7 della direttiva consentendo agli Stati membri, nel primo caso, (art. 5) di adire, con adeguate motivazioni, lo speciale Comitato permanente istituito dalla direttiva 83/189/CEE (ora sostituita dalla direttiva 98/34/CE) per disciplinare, in modo comunque armonizzato, le modifiche alle norme armonizzate.
Nel secondo caso (contemplato dall'art. 7) gli Stati membri della CE sono facultati ad adottare, in via urgente e provvisoria, provvedimenti nazionali di divieto o di limitazione dell'immissione sul mercato di apparecchi pur muniti della marcatura CE (e, pertanto, da presumere conformi ai requisiti essenziali), salvo il motivare e giustificare - per effettive ragioni di sicurezza - i provvedimenti adottati a fronte sia della Commissione della CE che di tutti gli altri Stati membri. È questa la cosiddetta "clausola di salvaguardia" che consente agli Stati di salvaguardare prioritariamente, per motivate ed obiettive ragioni di sicurezza, la sicurezza e la salute dei cittadini. Ma tale "clausola" richiede l'attivazione ed il rispetto di parametri sostanziali e procedurali fissati nell'ambito della stessa direttiva comunitaria.

Lo Stato italiano non ha fatto ricorso ad alcuno dei suddetti strumenti istituzionali che avrebbero consentito, ciascuno nel proprio ambito, (clausola di salvaguardia e ricorso al Comitato permanente) di porre in discussione i livelli di sicurezza stabiliti dalle direttive comunitarie.
Le "prove" effettuate dal laboratorio della Società ITAL-GAS sono, in questo contesto normativo, manifestamente irrilevanti in quanto " sproporzionate giacché le loro condizioni di riferimento sarebbero difficilmente immaginabili nella realtà".
Da tutto quanto sopra esposto deriva, ovviamente, la condanna dello Stato italiano in causa C-112/97 per violazione del diritto comunitario ed, in particolare, della direttiva 90/396/CEE, avendo la disposizione dell'art. 5, comma 10 del D.P.R. 412/93 introdotto nei confronti dei generatori di calore a tipo aperto vincoli e divieti assolutamente incompatibili con la disciplina comunitaria.
Da qui ancora per "le autorità nazionali competenti il divieto assoluto di applicare una norma nazionale riconosciuta incompatibile con il trattato (v. ordinanza 28 marzo 1980, cause riunite 24 e 97/80, Racc. pp. 1319 e ss.).
Da qui, infine, la conclusione secondo la quale l'art. 5, comma 10 del D.P.R. 412/93 costituisce, fin d'ora, una norma assolutamente inapplicabile.
È auspicabile ora, pertanto, che lo Stato italiano provveda ad eliminare dal proprio ordinamento questo cadavere giuridico perché ogni ulteriore ritardo nazionale costerebbe molto, in termini di ulteriori condanne e di multe salate per la mancata adozione dei "provvedimenti che la Sentenza della Corte di Giustizia comporta", secondo l'art. 171 del Trattato.

1) Per le valutazioni di "merito" o, meglio, di demerito v. gli atti del convegno organizzato dall'APIM - Associazione dei Periti Industriali di Milano con il patrocinio della Regione Lombardia su " Gli adeguamenti degli impianti a gas per uso domestico: quale tutela per il cittadino?" Milano, 25 ottobre '96.

 



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