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Il fumo passivo e la sicurezza dei lavoratori

Francesco Bacchini
Coordinatore ISFoP

Benché la nocività del fumo passivo possa ritenersi ormai pacificamente dimostrata sulla base di numerosi studi scientifici sull'argomento e, di conseguenza, il fumo passivo si ponga quale fattore di rischio, la normativa in materia di sicurezza e salute dei lavoratori non prevede un generale divieto di fumare negli ambienti di lavoro.
Il legislatore, infatti, con la disciplina di cui alla L. 11 novembre 1975, n. 584 "Divieto di fumare in determinati locali e su mezzi di trasporto pubblici", ha tassativamente indicato quali sono le aree in cui è vietato fumare, cioè quei luoghi nei quali "la tutela della salute dei non fumatori e, più in generale, la tutela della collettività esigono una compressione del popolo fumatore" (1).
Per alcuni di questi locali, inoltre, la legge prevede la possibilità di un'esenzione dal divieto nel caso di installazione di idonei impianti di condizionamento e ventilazione.
Tuttavia, con la crescente consapevolezza della nocività del fumo, sia attivo sia passivo, questa disciplina, che indicava in maniera rigida le aree vincolate dal divieto di fumare, venne tacciata di incostituzionalità: rimanevano, infatti, esclusi da questo divieto numerosi altri luoghi pubblici, aperti al pubblico, nonché, in particolare, i luoghi di lavoro.
Numerose sono state, in virtù di ciò, le azioni promosse sia da parte di lavoratori fumatori, contro l'introduzione del divieto di fumo da parte del datore di lavoro, sia da parte di lavoratori non fumatori, contro la mancata introduzione di questo divieto. Essendo state ritenute non manifestamente infondate le sollevate questioni di legittimità costituzionale delle norme prevenzionali relative al fumo di tabacco nel luogo di lavoro, tali azioni hanno determinato la risposta della Corte Costituzionale.
Il primo intervento della Corte (2), in questo senso, si ebbe con la sentenza n. 202 del 7 maggio 1991 (3), in seguito ad un ordinanza del Conciliatore di Roma (n. 718 dell'8 settembre 1990) emessa nel corso di un giudizio civile promosso da fumatori passivi, che si erano sentiti danneggiati dal fumo che avevano dovuto respirare rispettivamente in un pronto soccorso di un ospedale, in un ufficio postale e in un ristorante, tutti locali pubblici o comunque aperti al pubblico e non ricompresi nell'elenco previsto dalla L. 584/75.
La Corte, pur respingendo la questione di illegittimità costituzionale dell'art.1, L. 584/75 nelle parti in cui non prevede il divieto di fumare:
a) in ambiti ospedalieri diversi dalle corsie;
b) negli ambienti in cui si eroga il servizio pubblico postale;
c) all'interno dei ristoranti;
in riferimento agli artt. 3 e 32 Cost., in quanto inammissibile per difetto di rilevanza, ritenendo, tuttavia, che il problema necessitasse dell'intervento del legislatore, ha esortato il Parlamento a provvedere in questo senso in riferimento, soprattutto, all'art. 32 Cost. che tutela la salute di tutti i cittadini e, quindi, anche dai danni provocati dal "fumo passivo".
Ciononostante, la Corte respinge la questione affermando che "se si considerassero costituzionalmente illegittime le limitazioni al divieto di fumare, si qualificherebbe illecita, retroattivamente, una condotta considerata come lecita al momento in cui fu posta in essere (4).
Argomenta, infatti, la Corte, che, nel nostro ordinamento, esiste già un rimedio dotato di piena operatività: l'art. 2043 c.c., il quale, unitamente all'art. 32 Cost., permette ai danneggiati dal fumo passivo di ottenere il risarcimento dei danni subiti, dovendosi "riconoscere che il danno provocato dal fumo passivo lede il disposto dell'art. 32 Cost. e, quindi, viene ad integrare la fattispecie dell'art. 2043 c.c. (5), la conseguenza immediata è l'obbligo del risarcimento per la violazione del diritto stesso (6)".
Il legislatore, tuttavia, non sembra aver tenuto conto delle indicazioni della Corte, in particolare per quel che riguarda la problematica del fumo passivo nei luoghi di lavoro.
La recente normativa in materia di sicurezza e salute dei lavoratori di cui al D.Lgs. 626/94, attesa la tendenziale nocività del fumo passivo che, di conseguenza, si pone quale fattore di rischio per la salute ed attesa inoltre la direttiva CEE n. 89/654 nella quale si prevede l'adozione di misure adeguate per la protezione dei non fumatori contro gli inconvenienti del fumo all'interno quantomeno dei locali di riposo (7), non ha, infatti, previsto un generale divieto di fumare negli ambienti di lavoro.
Gli unici precetti previsti dalla legislazione di igiene e protezione dei lavoratori ad occuparsi del fumo sono, nell'ordine, l'art. 14 del D.P.R. 303/56 (così come modificato dall'art. 33 del D.Lgs. 626/94) e l'art. 64 del D.Lgs. 626/94.
In base all'art. 14 del D.P.R. 303/56 i locali di riposo sono necessari quando il tipo di attività svolta richieda pause di lavoro a tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori; tali locali devono avere dimensioni adeguate e devono essere arredati con tavoli e sedili con schienale in numero sufficiente in rapporto all'occupazione prevedibile. Nei locali di riposo, inoltre, si devono adottare misure adeguate per la protezione dei non fumatori contro gli inconvenienti del fumo. Nel caso in cui il tempo di lavoro sia interrotto regolarmente e frequentemente e non esistano locali di riposo, devono essere messi a disposizione del personale altri locali affinché questi possano soggiornarvi durante l'interruzione del lavoro nel caso in cui la sicurezza o la salute dei lavoratori lo esige. In detti locali è opportuno prevedere misure adeguate per la protezione dei non fumatori contro gli inconvenienti del fumo.
Le disposizioni relative alla messa a disposizione dei locali di riposo, tuttavia, non si applicano quando il personale lavora in uffici o in analoghi locali di lavoro che offrono equivalenti possibilità di riposo durante la pausa.
L'art. 64 del D.Lgs. 626/94 detta le misure tecniche, organizzative e procedurali che il datore di lavoro deve porre in essere per assicurare la protezione da agenti cancerogeni. In base alla lettera b) dell'articolo di cui sopra, il datore di lavoro deve limitare "al minimo possibile il numero dei lavoratori esposti o che possono essere esposti ad agenti cancerogeni anche isolando le lavorazioni in aree predeterminate provviste di adeguati segnali di avvertimento e di sicurezza, compresi i segnali "vietato fumare", ed accessibili soltanto ai lavoratori che debbono recarvisi per motivi connessi con la loro mansione o con la loro funzione. In dette aree è fatto divieto di fumare". Le misure di cui all'art. 64 hanno essenzialmente lo scopo di evitare sia la diffusione di particelle di sostanze cancerogene al di fuori dell'ambiente lavorativo attraverso gli indumenti, sia l'ingestione di particelle tramite alimenti consumati nelle zone di lavoro o la loro inalazione con il fumo di sigarette.
Proprio in quest'ottica, pur in assenza di specifiche norme che prevedano il generale divieto di fumare nei luoghi di lavoro, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 399 dell'11 dicembre 1996, ha affermato che la vigente normativa appresta, comunque, strumenti idonei e sufficienti a consentire la riduzione dei rischi collegati al c.d. fumo passivo anche con riferimento ai luoghi di lavoro.
La Corte Costituzionale è stata, infatti, chiamata nuovamente a pronunciarsi in riferimento alla sentenza del Pretore di Torino dell'8 febbraio 1993 (8), che aveva giudicato non manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3 e 32 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, lett. a), della L. 11 novembre 1975, n. 584 e del combinato disposto degli artt. 9 e 14 del D.P.R. n. 303/1956 (nel testo sostituito dall'art. 33 del D.Lgs. 626/1994), 64, lett. b) e 65, 2° comma, del D.Lgs. 626/1994, in quanto non prevedono il divieto di fumare nei luoghi di lavoro chiusi.
Il Pretore, in seguito ad un ricorso di circa 300 lavoratori dipendenti presso il Centro Contabile dell'Istituto Bancario San Paolo che chiedevano l'emissione di una sentenza che imponesse al datore di lavoro l'obbligo di vietare il fumo nel luogo di lavoro, nonostante il datore avesse già attivato una campagna di sensibilizzazione sul fumo e avesse predisposto adeguati impianti di ventilazione per cui il tasso di ventilazione risultava di gran lunga superiore ai parametri di cui alla disciplina vigente, accoglieva il ricorso dei dipendenti, ordinando all'Istituto di vietare il fumo in tutti i locali in cui questi prestavano la loro opera, e nei locali di uso comune.
Il Pretore ritenne, infatti, del tutto coerente con la risultanza dell'accertamento peritale l'imposizione del divieto di fumo, risultando sempre presente, anche in presenza di un apparato di aspirazione e ventilazione e il ricambio d'aria che esso assicura, una "situazione inquinante in atto non risolta".
Dopo aver richiamato il consolidato orientamento della giurisprudenza costituzionale "secondo cui la salute è un bene primario che assurge a diritto fondamentale della persona ed impone piena ed esaustiva tutela, tale da operare sia in campo pubblicistico che nei rapporti di diritto privato (9), i giudici della Corte costituzionale affermano che, pur non essendoci nel nostro ordinamento una norma che imponga un divieto generalizzato di fumare, esistono, però, una pluralità di disposizioni destinate a tutelare la salute dei lavoratori da tutto ciò che è idoneo a danneggiarla, compresa, quindi, la minaccia del fumo passivo, e che consentono al datore di lavoro di ridurre a soglie insignificanti l'esposizione dei lavoratori al fumo ambientale, cosicché "la tutela preventiva dei non fumatori nei luoghi di lavoro può ritenersi soddisfatta quando, mediante una serie di misure adottate secondo le diverse circostanze, il rischio derivante da fumo passivo, se non eliminato, sia ridotto ad una soglia talmente bassa da far ragionevolmente escludere che la loro salute sia messa a repentaglio (10).
A suffragio di tale ricostruzione, la Corte richiama nella sentenza innanzi citata, le seguenti disposizioni:
Art. 2087 c.c. che impone ai datori di lavoro l'adozione di quelle misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica dei prestatori di lavoro. La Cassazione (11) ha ritenuto che tale disposizione "ha una funzione di adeguamento permanente dell'ordinamento alla sottostante realtà socio - economica" e, pertanto, "vale a supplire alle lacune di una normativa che non può prevedere ogni fattore di rischio, ed ha una funzione sussidiaria rispetto a quest'ultima di adeguamento di essa al caso concreto". L'art. 2087 c.c., considerata norma di chiusura del sistema di sicurezza sul posto di lavoro in quanto impone l'adozione di misure ulteriori rispetto a quelle prescritte testualmente dalla legislazione speciale e ciò sulla base di criteri elastici tali da rendere necessario il costante aggiornamento delle strutture di prevenzione e protezione secondo i nuovi ritrovati dell'esperienza e della tecnica, fa sorgere in capo al lavoratore un diritto soggettivo ad operare in un ambiente sano ed esente da rischi e, di conseguenza, impone al datore di lavoro di porre in essere tutti gli accorgimenti al fine di limitare il più possibile il rischio di infortunio o di pericolo per la salute. Il datore di lavoro diventa, quindi, responsabile non per il comportamento di alcuni lavoratori, ma per l'inidoneità dei locali ove si svolge l'attività lavorativa. "Il datore è tenuto alla salvaguardia della salute del lavoratore non fumatore per la semplice circostanza che il lavoratore è esposto al rischio di danno a causa dell'esecuzione della prestazione lavorativa in presenza di particolari condizioni di lavoro (12). Affinché, però, si possa rinvenire la responsabilità civile del datore di lavoro per la lesione del diritto alla salute dei dipendenti causato dal fumo passivo, devono sussistere tutti gli elementi costitutivi della stessa e cioè: l'atto illecito, sussistente nel caso di prevedibilità del danno (ad esempio, nel caso in cui il datore di lavoro è a conoscenza dell'abitualità al consumo di sigarette di alcuni dipendenti e, nonostante ciò, li colloca nello stesso ambiente dei lavoratori non fumatori); il danno ingiusto: è sicuramente ingiusto il danno che lede la salute, diritto costituzionalmente garantito; il nesso di causalità: la dottrina prevalente ritiene necessario il collegamento immediato tra il danno ed un dato fatto in termini di normalità e verosimiglianza (13). Nel nostro caso, si può ritenere verosimile, sulla base delle ricerche scientifiche relative ai danni provocati dal fumo passivo, ipotizzare un collegamento fra eventuali danni provocati nei lavoratori non fumatori (ad esempio, tumori polmonari) e la protratta esposizione all'inquinamento derivante dal fumo passivo (14).

Artt. 1, 4 e 31 del D.Lgs. 626/1994 i quali dispongono che il datore di lavoro, "in relazione alla natura dell'attività dell'azienda ovvero dell'unità produttiva", debba valutare i rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori; "adottare le misure necessarie", e "aggiornare le misure di prevenzione in relazione ai mutamenti organizzativi e produttivi che hanno rilevanza ai fini della salute e della sicurezza" riaffermando l'obbligo di "adeguare i luoghi di lavoro alle prescrizioni di sicurezza e salute".

Art. 9 D.P.R. 303/56 modificato dall'art.16 del D.Lgs 242/96, con più specifico riferimento alla "salubrità dell'aria", che stabilisce la necessità dei lavoratori di disporre, in quantità sufficiente, di aria salubre, ottenuta anche con impianti di aerazione che devono essere sempre mantenuti efficienti e che devono funzionare in modo che i lavoratori non siano esposti a correnti d'aria fastidiose. All'ultimo comma di detto art. 9 si soggiunge "che qualsiasi sedimento che potrebbe comportare un pericolo per la salute dei lavoratori dovuto all'inquinamento dell'aria respirata deve essere eliminato rapidamente".

Art. 14 D.P.R. 303/56 modificato dall'art. 33 D.Lgs. 626/94 che prevede l'adozione di misure adeguate per la protezione dei lavoratori non fumatori contro gli inconvenienti del fumo nei locali di riposo o in altri locali adibiti a tale uso.

Art. 64, lett. b) D.Lgs. 626/94 che impone il divieto di fumare nei locali in cui si compiono operazioni lavorative con impiego di agenti cancerogeni.

Art. 65, co. 2, D.Lgs. 626/94 che rimarca il divieto di fumare nelle zone di lavoro di cui all'art. 64, lett. b).

Art. 9 Statuto dei Lavoratori che prevede il diritto dei lavoratori di controllare l'applicazione delle norme per la prevenzione e di promuovere la ricerca, l'elaborazione e l'attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica.

In base alla presenza, nel nostro ordinamento, delle norme citate la Corte dichiara non fondata la questione (15), affermando che, per la soluzione dei problemi connessi alla presenza di fumo ambientale, è necessario adottare gli strumenti tecnici "più appropriati che, senza giungere all'imposizione di un divieto assoluto di fumare, tutelino le aspettative del lavoratore non fumatore con salvezza della libertà individuale del lavoratore fumatore (16).
Le misure tecniche, secondo la Corte vanno dalla dislocazione di impianti di depurazione, alla statuizione di orari limitati in cui fumare, fino al divieto radicale di fumo che può essere imposto dal datore di lavoro, nonostante la mancanza di una specifica limitazione prevista dalla legge, secondo "una diligente valutazione in corrispondenza alle diverse circostanze in cui viene prestata l'attività lavorativa (17).
In conseguenza, poi, del divieto di fumare, tocca al datore di lavoro, in forza dell'art. 4, co. 5, lett. f) del D.Lgs. 626/94, vigilare "circa l'effettiva osservanza del divieto da parte dei lavoratori ed adottare provvedimenti disciplinari nei confronti dei lavoratori riottosi (18).
La Corte conclude, comunque, pur valorizzando l'intero sistema normativo per la prevenzione della salute e della sicurezza del lavoro, auspicando nuovamente l'intervento del legislatore, perché questi riveda l'intera materia inerente la sicurezza dei rischi derivanti dal fumo passivo, per ottimizzarne la disciplina.
La soluzione prospettata dalla Corte Costituzionale, ritenuta da diverse parti la più ragionevole, in riferimento allo stato attuale della legislazione riguardante il fumo passivo, non ha sopito né interrotto il dibattito su questo tema così scottante ed attuale non solo in Italia, ma in tutto il resto del mondo "civilizzato": basti pensare alle feroci "crociate" che vengono intraprese fra cittadini, fumatori e non, e le case produttrici di tabacco e sigarette. Tant'è vero che, subito dopo l'emanazione della sentenza della Corte, numerosi Tribunali sono stati chiamati ad intervenire nuovamente sullo stesso tema.
Il primo ad intervenire, sulla scia della Corte Costituzionale, è stato il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio (19) che, di fronte all'impugnazione di una dipendente del Ministero della Pubblica Istruzione per il mancato riconoscimento, da parte della commissione medico - ospedaliera, della "dipendenza da causa di servizio" dell'infermità subita, ritiene illegittima l'esclusione dai benefici.
Infatti, l'Amministrazione, dopo che le risultanze avevano messo in rilievo come "l'esposizione ad inquinamento da fumo passivo costituisce una possibile causa di tumore polmonare", per negare la dipendenza da causa di servizio (20) "avrebbe dovuto dimostrare o l'erroneità delle affermazioni contenute nella relazione del dirigente della direzione o la sussistenza di un tipo di tumore polmonare non riconducibile ad inquinamento da fumo passivo".
Nel difetto della prova contraria, viene riconosciuto, all'istante non fumatrice, il diritto all'accertamento che l'infermità subita era stata contratta per causa di servizio.
Il Pretore di Siena (21), invece, in aperta critica con la sentenza della Corte Costituzionale, giunge ad imporre un incondizionato divieto di fumare non soltanto nei locali in cui i ricorrenti prestano la loro attività lavorativa, ma in tutti i locali della società. Peraltro, il Tribunale, in sede di appello, ha immediatamente sospeso l'esecutività della sentenza con riferimento all'estensione del divieto di fumare anche nei locali non frequentati dai ricorrenti.
Il Pretore di Napoli (22) ha escluso la sussistenza di un pregiudizio nei confronti dei lavoratori non fumatori, nel caso in cui gli stessi lavorino in locali separati rispetto a quelli dove si trovano i lavoratori fumatori ed in entrambi i settori vi siano finestre apribili e bocchette di aerazione.
Citiamo, infine, la sentenza del Tribunale di Torino (23) che riforma, in sede di appello, la sentenza dell'8 febbraio 1993 del Pretore di Torino (24), che aveva dato origine anche al giudizio di infondatezza della Corte Costituzionale. Il Tribunale ricorda l'esistenza, nel nostro ordinamento, di una norma, il D.M. 18 maggio 1976, emanato in seguito all'entrata in vigore della L. 584/75, che individua un limite minimo di immissioni di aria, non inferiore a 20 metri cubi per persona e per ora nei luoghi chiusi, soddisfatto il quale si può ritenere garantito il diritto di protezione del lavoratore dall'esposizione al fumo ambientale; citando questa norma, il Tribunale riafferma il ruolo centrale del legislatore "nell'individuare il punto di contemperamento degli interessi in questione, ovvero, da un lato, il diritto del lavoratore non fumatore a veder limitata la propria esposizione al fumo ambientale e dall'altro il diritto del lavoratore fumatore di non vedere compressa la propria libertà personale (25).
Il Tribunale, quindi, riforma la sentenza affermando che l'Istituto Bancario San Paolo aveva adempiuto a tutto quanto previsto dall'art. 2087 c.c., seguendo tutte quelle norme già citate in precedenza anche dalla Corte Costituzionale, e utilizzando gli accorgimenti da queste previste, tra i quali l'adozione di appropriati impianti di condizionamento e di ventilazione, rispondenti alle previsioni del D.M. 18 maggio 1976 citato.
Pertanto, da quanto più sopra analizzato, poichè l'obbligo generale di sicurezza posto dall'art. 2087 c.c. in modo certamente sintetico, ma non per questo meno chiaro, in capo al datore di lavoro, trova proprio nel D.Lgs. 626/94 una puntuale specificazione con una dettagliata indicazione dei suoi elementi essenziali, vale a dire l'eliminazione dei rischi alla fonte, l'aggiornamento continuo delle misure prevenzionali alla luce delle nuove conoscenze tecnologiche e non della ragionevole praticabilità per la tutela della personalità fisica e morale del lavoratore, è possibile ritenere che il datore di lavoro non possa non valutare il rischio da fumo passivo e non possa non predisporre misure per eliminarlo o ridurlo al minimo. Ciò in virtù, in particolare, degli artt. 1, 4 e 31 del D.Lgs. 626/94, i quali dispongono che il datore di lavoro, in relazione alla natura dell'attività dell'azienda ovvero dell'unità produttiva, debba valutare, anche nella sistemazione dei luoghi di lavoro, i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, adottare le misure necessarie ed aggiornare le misure di prevenzione in relazione ai mutamenti organizzativi e produttivi che hanno rilevanza ai fini della salute e della sicurezza riaffermando l'obbligo di adeguare i luoghi di lavoro alle prescrizioni di sicurezza e di salute.
A questo deve essere aggiunto che l'art. 9 del D.P.R. 303/56, così come modificato dall'art. 16 del D.Lgs. 242/96, stabilisce la necessità che i lavoratori dispongano di aria salubre in quantità sufficiente, anche ottenuta con impianti di areazione e soggiunge che qualsiasi sedimento che potrebbe comportare un pericolo per la salute dei lavoratori dovuto all'inquinamento dell'aria respirata deve essere eliminato.
Pertanto, applicando le misure previste dall'art. 9 e dall'art. 14 del D.P.R. 303/56, oppure prevedendo misure o procedure aziendali (ex artt. 4 e 31 D.Lgs. 626/94) di gestione del fumo passivo ulteriori rispetto a quelle previste dal D.P.R. 303/56, quali ad esempio la creazione di una o più "oasi fumatori" adeguatamente attrezzate, coordinate con la procedura aziendale relativa alle soste di lavoro di durata inferiore ai 10 minuti, è possibile ritenere che l'obbligo generale di cui all'art. 2087 c.c. sia adempiuto.

Note
(1) In questo senso PONZANELLI G., Commento a Corte Cost. 20 dicembre 1996 n. 389, Fumo passivo e tutela dei luoghi di lavoro, in Danno e resp., 1997, 2, pag.176.
(2) Non possiamo trascurare il fatto che la Corte di Cassazione era già intervenuta in passato numerose volte in questo senso; ricordiamo, fra tutte, la sentenza del Pretore di Santhià, 11 aprile 1986, in Giur. Merito, 1988, 353 ss, con la quale la Corte ha qualificato l'introduzione di un divieto generalizzato di fumo nel luogo di lavoro non sorretto da ragioni obiettive quale comportamento arbitrario, in contrasto con la libertà e la dignità umana dei dipendenti.
(3) In Giur. It., 1991, IV, c. 551.
(4) Ulteriori considerazioni a questo proposito in PONZANELLI G., I danni da fumo passivo: l'opinione del "non fumatore", in Foro it., I, 1991, c.2314 ss.
(5) Corte Cost. 7 maggio 1991, n.202, in Giur. It., 1991, IV, pag. 551 s.
(6) Autorevole dottrina, tuttavia, sottolinea come l'enfatica rivendicazione dell'immediata esperibilità del rimedio risarcitorio ex art. 2043 c.c. "quale braccio armato dell'art. 32 Cost., nonché l'esortazione al legislatore di rimboccarsi le maniche per assicurare una tutela più incisiva per chi è costretto a subire il fumo altrui, utilizzata dalla Corte, pur determinando una pronuncia di inammissibilità, siano ispirati al più proverbiale "vorrei ma non posso". Infatti, pur attribuendo, plausibilmente, alla clausola generale di cui all'art. 2043 c.c. il compito di far prevalere l'idiosincrasia di chi non tollera il fumo altrui, l'arma indicata resta impropria, anche se, "ciò che contava era agitarla come monito della nuova morale corrente". PARDOLESI, Dalla parte di Zeno: fumo passivo (negli occhi?) e responsabilità civile, nota alla sentenza 7 maggio 1991 n. 202 Corte Costituzionale, in Foro it., 1991, I, p. 2312-2313.
(7) PALLA, La tutela dal fumo c.d. passivo torna all'attenzione della Corte costituzionale, in Riv. It. Dir. Lav., 1997, II, p. 93-94.
(8) La sentenza è pubblicata in Riv. It. Dir. Lav., 1995, II, pag.151 ss, con nota di NALETTO G., Il fumo nell'ambiente di lavoro. Per ora solo un equivoco?; e in Giur. It., 1, II, c.281 ss, con nota di NTUK G., "Diritto alla salute", "obbligo di sicurezza" da parte dell'imprenditore e "fumo passivo" nei luoghi di lavoro.
(9) Corte Costituzionale 7 maggio 1991 n.202 cit.; 2 giugno 1994, n.218, in Foro it., 1995, I, c.46. È stato ripetutamente affermato che la tutela riguarda la generale e comune pretesa dell'individuo a condizioni di vita, di ambiente e di lavoro che non pongano a rischio questo suo bene essenziale. E tale tutela implica non solo situazioni attive di pretesa, ma comprende, oltre che misure di prevenzione, anche il dovere di non ledere né porre a rischio con il proprio comportamento la salute altrui. Pertanto, ove si profili una incompatibilità tra il diritto alla tutela della salute, protetto costituzionalmente, ed i liberi comportamenti che non hanno una diretta copertura costituzionale, deve, ovviamente, darsi prevalenza al primo.
(10) Segnaliamo l'opinione critica di LUTHER J., Una tutela preventiva ragionevole dei non fumatori: come un monito al legislatore si trasforma in moniti al giudice e al datore di lavoro, in Giurisp. Costit., 1997, pag.1127, secondo cui l'invito rivolto dal legislatore al datore di lavoro "non solo è carente sotto il profilo della motivazione, ma rischia di costringere i datori di lavoro e i rappresentanti dei Lavoratori per la sicurezza a confliggere circa le soglie di tolleranza, proprio in una situazione di sostanziale incertezza sulle soglie stesse. Il vero nodo da risolvere consisterà, allora, nella distribuzione degli oneri della prova circa i metodi di accertamento dell'ETS (Environmental Tobacco Smoke) e circa l'adeguatezza della "soglia" di tolleranza individuata dal datore di lavoro". Parimenti critico sulle conclusioni della Corte è anche BARBIERI E.M., Il fumo passivo nei luoghi di lavoro, in Mass. Giur. Lav., 1997, p. 318, il quale afferma che il problema del fumo passivo non è propriamente riconducibile alla materia della sicurezza e dell'igiene nei posti di lavoro. Ciò in considerazione del fatto che, essendo nel caso del fumo passivo nei luoghi di lavoro, l'elemento generatore della situazione di rischio ascrivibile alla sola ed esclusiva iniziativa del lavoratore stesso e, quindi, totalmente disancorata da un qualsiasi rapporto con la prestazione lavorativa richiesta, risulta privo di causa giustificativa il trasferimento di iniziative e responsabilità sull'impresa la quale dovrebbe attivarsi per evitare qualcosa che, in definitiva, essa non cagiona ai propri dipendenti.
(11) Sentenza 6 settembre 1988, n. 5084, in Foro it., 1988, I, c. 2849.
(12) FRANCO M., Diritto alla salute e responsabilità civile del datore di lavoro, Milano, 1995, pag. 70. Ci ricorda la sentenza del Pretore di Torino 8 febbraio 1993, già citata, che è lo stesso vincolo contrattuale ad istituire un obbligo di tutela del lavoratore non fumatore, desunto dallo stesso art. 2087 c.c. In questo senso possono essere ricordate anche le sentenze: Pret. Torino, 20 febbraio 1995, in Giur. It., 1995, I, 2, p. 916, secondo la quale l'art. 2087 c.c. (in correlazione con l'art. 32 cost. e con l'art. 9 st. lav.) impone al datore di lavoro di adottare tutti quegli accorgimenti e quelle misure che siano necessarie a tutelare l'integrità fisica dei prestatori di lavoro (nella specie è stato accertato il dovere del datore di lavoro di adottare misure adeguate onde sottrarre i ricorrenti, durante l'espletamento della loro attività lavorativa, al fumo passivo); Pret. Torino, 7 marzo 1995, in Mass. Giur. Lav., 1995, p. 180, secondo la quale, poiché risulta accertata la pericolosità del fumo di tabacco alla salute, il datore di lavoro - giusto quanto disposto dall'art. 2087 c.c. - è obbligato ad adottare tutti gli accorgimenti e quelle misure che siano necessarie a tutelare l'integrità fisica dei propri dipendenti onde evitare che gli stessi restino esposti, nei locali di lavoro, agli effetti nocivi del fumo passivo.
(13) Tra gli altri, ad esempio, GAZZONI F., Manuale di diritto privato, 1992, pag. 673.
(14) Per un maggior approfondimento, in questo senso, QUADRI S., Prodotti da fumo, pubblicità e responsabilità, in Danno e Resp., 1997, 4, pag. 437.
(15) Ricordiamo che il Tribunale aveva concluso ritenendo che la piena tutela dei lavoratori non fumatori non poteva che attuarsi attraverso l'imposizione legale del divieto di fumare nei luoghi di lavoro.
(16) In questo senso, CALLEGARI G., Il fumo ambientale nei luoghi di lavoro, commento a Tribunale di Torino 19 ottobre 1998, in Il Lavoro nella Giurisp., n.12/1998, pag.1049.
(17) MARINO V., La Corte Costituzionale sul divieto di fumare nei luoghi di lavoro, in Riv. It. Dir. Lav., 1997, II, pag.261.
(18) GUARINIELLO R., 1996: un anno di novità per la sicurezza sul lavoro, in Dir. Pen. e Proc., 1997, pag. 88.
(19) 20 marzo 1997, n.723, in Danno e Resp., n.4/1997, pagg. 507 - 508, con nota di PONZANELLI G., Fumo passivo: la prima vittoria; e in Guida al diritto, 10 maggio 1997, n. 17, pag.76.
(20) Ricordiamo, a questo proposito, che l'istante, non fumatrice, aveva prestato servizio, per sette anni, insieme a tre colleghe fumatrici, in una stanza ubicata al di sotto del livello stradale, scarsamente illuminata ed insufficientemente riscaldata, per cui, durante i mesi invernali, veniva di rado aerata mediante l'apertura delle finestre.
(21) Con sentenza 15 novembre 1997, inedita, per quanto consta.
(22) Ordinanza 19 marzo 1998, inedita.
(23) Sentenza 19 ottobre 1998, cit.
(24) Già citata in precedenza.
(25) CALLEGARI G., cit., pag.1050.

 



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