Responsabilità
del gestore di attività pericolose negli impianti industriali
Giulio
Benedetti
Magistrato
Il
D.Lgs. 17/8/1999 n. 334, pubblicato sul supplemento ordinario
n. 228 della G.U. del 28/9/1999, recepisce in Italia la direttiva
96/82/CE che contiene le norme finalizzate ad impedire disastri
ambientali negli stabilimenti industriali di rilevanti dimensioni.
La nuova, "legge Seveso", relativa al controllo dei
pericoli di incidenti rilevanti connessi con l'uso di sostanze
pericolose in attività industriali viene trattata in
questo articolo dal punto di vista del magistrato.
Sono qui dettagliatamente esaminate la procedura di sicurezza
e la responsabilità amministrativa, penale e civile del
gestore dell'attività pericolosa, sia per quanto concerne
gli obblighi di conduzione e di esercizio dell'impianto, sia
nel caso di incidente rilevante che metta a repentaglio la pubblica
incolumità.
PREMESSA
GENERALE
Dopo la nota vicenda di Seveso la prima normativa che, recependo
la direttiva CEE n. 82/ 501, ha introdotto in Italia le norme
di sicurezza relative ai rischi di incidenti rilevanti connessi
con determinate attività industriali è stata il
D.P.R. 17/5/1988 n. 175. Dopo 11 anni tale norma è stata
aggiornata con il D.Lgs. 334/1999 che abroga il D.P.R. 175/1988
(tranne l'art. 20) e contiene norme finalizzate a prevenire
incidenti rilevanti connessi a determinate sostanze pericolose
e a limitarne le conseguenze per l'uomo e l'ambiente; invero
il decreto traccia una linea di confine e di reciproca tolleranza
tra le esigenze della grande produzione industriale (soprattutto
chimica) e le aspettative di vita e di sicurezza della popolazione
abitante nelle zone viciniori agli stabilimenti. In particolare,
occorre notare che tale convivenza deve essere regolamentata
secondo criteri di sicurezza per l'uomo e l'ambiente.
Infatti sono evidenti i fenomeni di incremento delle dimensioni
degli insediamenti in prossimità degli impianti industriali
di maggiore dimensione.
Ciò a causa dell'espansione delle zone abitative residenziali
realizzate spesso con improvvise e successive modificazioni
dei piani edilizi comunali.
Pertanto gli impianti industriali, dapprima edificati in aperta
campagna, sono poi stati dopo pochi anni circondati da private
abitazioni costruite senza che né gli edificatori, né
i proprietari, né le autorità comunali osservassero
o facessero osservare le distanze minime di sicurezza in caso
di incidente rilevante.
In proposito l'art. 14 co. 5 della nuova norma, in merito al
controllo dell'urbanizzazione nei pressi degli stabilimenti,
limita notevolmente, se non esclude del tutto, l'intervento
della pubblica autorità a favore dell'incolumità
dei cittadini in quanto afferma la salvezza delle concessioni
edilizie già rilasciate alla data di entrata in vigore
del Decreto 334/1999. È ovvio che tale cristallizzazione
della realtà abitativa nei pressi degli stabilimenti
pericolosi risponde all'evidente esigenza politica di non rendere
traumatico l'impatto del D.Lgs. 334/1999 nella situazione di
forte urbanizzazione nei pressi degli impianti, ma consiste,
parimenti, in un clamoroso abbandono ed in una mancata occasione
di interventi, anche graduali, per sanare situazioni abitative
ad altissima esposizione al rischio di incidente rilevante.
Il
D.Lgs. 334/1999 si applica agli stabilimenti in cui sono presenti
sostanze pericolose in quantità uguali o superiori a
quelle indicate nell'allegato I, contenente l'elenco delle sostanze,
miscele e preparati pericolosi e in ogni caso la normativa del
decreto non pregiudica (art. 2 co. 5) l'applicazione delle disposizioni
in materia di sicurezza e salute dei lavoratori sul luogo di
lavoro; quindi il D.Lgs. 334/1999 non deroga assolutamente alle
norme contenute nel D.Lgs 19/9/1994 n. 626. L'art. 4 del D.Lgs.
334/1999 esclude dall'applicazione delle proprie norme: le aree
militari; i pericoli connessi alle radiazioni ionizzanti; il
trasporto di sostanze pericolose ed il relativo deposito intermedio
su strada, per idrovia interna o marittima o per via aerea;
il trasporto di sostanze pericolose in condotta; l'attività
delle industrie estrattive; le discariche dei rifiuti; il trasporto
di sostanze pericolose per ferrovia e gli scali terminali di
ferrovia purché l'attività ivi svolta non riguardi
l'attività di carico o scarico o travaso di sostanze
pericolose presenti in quantità uguale o superiore a
quelle indicate nell'allegato I. Viene inoltre prevista l'applicabilità
del D.Lgs. 334/1999 nei porti industriali e petroliferi con
gli adattamenti richiesti dalla peculiarità delle attività
portuali definite in un regolamento interministeriale da adottarsi
di concerto tra il Ministro dell'Ambiente, dei Trasporti e della
Sanità da emanarsi entro 90 giorni dalla data di entrata
in vigore del D.Lgs. 334/1999.
Il decreto prevede che il gestore dello stabilimento contenente
le sostanze pericolose adempia gli obblighi di garanzia della
tutela della pubblica incolumità mediante un percorso
normativo di riduzione del rischio svolto attraverso i seguenti
passaggi principali e ritenuti punti cardine di sicurezza:
- la notifica dell'esercizio dell'impianto (art. 6);
- la politica di prevenzione degli incendi rilevanti (art. 7);
- il rapporto di sicurezza (art. 8);
- i rapporti di sicurezza nei nuovi stabilimenti (art. 9);
- i criteri di modifica degli stabilimenti (art. 10);
- il piano di emergenza interno (art. 11).
Lo schema normativo del decreto, in accordo con la più
recente tendenza legislativa comunitaria, ha la finalità
di:
- creare una normativa europea uniforme in materia di sicurezza
industriale per evitare la formazione, nei singoli paesi dell'Unione,
di squilibri territoriali (eventualmente ricercati e dolosamente
sfruttati da imprenditori spregiudicati) che consentano solo
in certe aree le attività industriali pericolose in modo
da favorire la creazione correlata di altre aree assolutamente
sicure;
- privilegiare il percorso oggettivo di sicurezza industriale
rispetto all'attività del singolo imprenditore per scoraggiare
prassi amministrative ed industriali diverse negli Stati dell'Unione;
- dettare parametri e norme di sicurezza concretamente utilizzabili
nella progettazione o ristrutturazione dei grandi stabilimenti
industriali, secondo le riconosciute regole stabilite dall'odierna
dottrina industriale ed "antinfortunistica".
In ogni caso, per non creare il caos nel mondo produttivo, la
normativa di sicurezza del decreto non ha un impatto immediato
sulle imprese in quanto la norma transitoria (art. 28) consente
ai gestori degli stabilimenti in corso di costruzione e non
terminati alla data di entrata in vigore del decreto e già
autorizzati in base alla normativa previgente, di presentare
la notifica, prevista dall'art. 6, comma 1, centoventi giorni
prima dell'inizio dell'attività.
Inoltre fino all'emanazione del decreto previsto dall'art. 25,
comma 3, concernente i criteri delle verifiche ispettive, le
misure di controllo, previste dall'art. 25, sono quelle effettuate
in conformità allo stato attuale delle norme tecniche
in materia e riconosciute a livello nazionale ed internazionale.
LE
SANZIONI AMMINISTRATIVE
Si applica (art. 27 co. 7) la sanzione amministrativa pecuniaria
del pagamento di una somma da lire 30 milioni a 180 milioni
nei confronti del gestore degli impianti che non effettua i
seguenti adempimenti:
1) per gli impianti indicati nell'allegato A in cui sono presenti
sostanze in quantitativi superiori ai valori di soglia di cui
al punto 3 dell'allegato B e per le sostanze chimiche nell'allegato
I, in quantità inferiori ai valori di soglia ivi riportati:
- 1a) non presenta alla regione territorialmente competente
ed al prefetto, entro un anno dall'entrata in vigore del D.Lgs.
334/1999 e aggiornato ogni 5 anni, la relazione redatta (fino
all'adozione del decreto previsto dall'art. 8 co. 4) in conformità
al D.P.C.M. 31/3/1989 e contenente le informazioni relative
al processo produttivo, alle sostanze pericolose presenti, alla
valutazione dei rischi di incidente rilevante, all'adozione
di misure di sicurezza appropriate, all'informazione, formazione,
addestramento ed equipaggiamento dei lavoratori nonché
non presenta la scheda di informazione prevista dall'allegato
V;
- 1b) non predispone il piano di emergenza interno previsto
dall'art. 11 (art. 5 co. 3 lettere a e b);
2) per tutti gli stabilimenti soggetti alle disposizioni dell'art.
8 (ovvero per tutti gli stabilimenti contenenti sostanze pericolose
in quantità uguali o superiori a quelle indicate nell'allegato
I punti 1 e 2, colonna 3) non predispone, previa consultazione
dei lavoratori, il piano di emergenza interna da adottare con
le seguenti scadenze:
- per gli stabilimenti nuovi prima di iniziare l'attività;
- per gli stabilimenti esistenti, non ancora soggetti al D.P.R.
175/1989, entro due anni dalla data di entrata in vigore del
D.Lgs. 334/1999;
- per gli altri stabilimenti preesistenti entro tre mesi dalla
data di entrata in vigore del D.Lgs. 334/1999.
Il piano di emergenza, contenente le informazioni dell'allegato
IV punto 1, deve essere predisposto per:
- controllare e circoscrivere gli incidenti per limitare i loro
effetti sull'uomo, sull'ambiente e sulle cose;
- mettere in atto le misure necessarie per proteggere l'uomo
e l'ambiente dalle conseguenze degli incidenti;
- informare i lavoratori e le autorità competenti;
- provvedere al ripristino ed al risanamento ambientale dopo
un incidente rilevante. Il piano di emergenza deve essere trasmesso
al prefetto ed alla provincia e deve essere riesaminato, riveduto
ed aggiornato dal gestore previa consultazione del personale
ad intervalli non superiori a tre anni. La revisione deve tenere
conto dei cambiamenti nello stabilimento, dei servizi di emergenza,
dei progressi tecnici e delle nuove conoscenze in merito alle
misure da adottare in caso di incidenti rilevanti (art. 11);
3) non trasmette al prefetto e alla provincia, entro 4 mesi
dall'individuazione del possibile effetto domino, le informazioni
necessarie per gli adempimenti di competenza previsti dall'art.
20 per la redazione del piano di emergenza interna (art. 12
co. 2).
L'INGIUNZIONE
DI SICUREZZA ED IL SEQUESTRO AMMINISTRATIVO DELL'IMPIANTO
L'art. 27 co. 4 consente alle autorità preposte al controllo
(previste dall'art. 17 ovvero ANPA, ISPESL, Istituto Superiore
di Sanità e Corpo nazionale dei vigili del fuoco), laddove
il gestore non abbia presentato il rapporto di sicurezza o non
siano state rispettate le misure previste nel rapporto o le
misure integrative indicate dall'autorità, di diffidare
il gestore ad adottare le misure necessarie consentendo un periodo
moratorio di 60 giorni, prorogabili in caso di giustificato
e comprovato motivo. Nel caso in cui il gestore non ottemperi
alla diffida è ordinata la sospensione dell'attività
per il tempo necessario ad adeguare gli impianti alle prescrizioni
indicate e, comunque, per un periodo non superiore a sei mesi.
Laddove il gestore, anche dopo il periodo di sospensione, continui
a non adeguarsi alla prescrizioni, l'autorità preposta
al controllo ordina la chiusura dello stabilimento o, se possibile
, di un singolo impianto o di una parte di esso.
La procedura descritta attribuisce giuridica rilevanza al procedimento,
usualmente adottato, di diffida amministrativa finalizzata alla
sicurezza e attribuisce la facoltà agli organi tecnici
di intervenire con efficacia nelle situazioni di pericolo mediante
l'indicazione al gestore di un percorso tecnico amministrativo
di salvaguardia della pubblica incolumità che, se disatteso,
è sanzionato con il sequestro amministrativo degli impianti.
Si noti che l'art. 27 co. 4 contiene l'inciso " fatti salvi
i casi di responsabilità penale" e quindi non abroga
l'art. 650 c.p.: pertanto le autorità di vigilanza previste
dall'art. 6 (Ministero dell'ambiente, il prefetto, la regione,
il comune, la provincia o il comitato tecnico regionale o interregionale
del Corpo nazionale dei vigili del fuoco) possono emettere,
per garantire la sicurezza pubblica ed al fine di tutelare l'incolumità
dei cittadini, dell'ambiente e delle cose, ordinanze contingibili
ed urgenti, aventi ad oggetto la messa in sicurezza degli impianti,
la cui inosservanza è punita dall'art. 650 c.p. con l'arresto
fino a tre anni o con l'ammenda fino a lire 400.000.
D'altra parte le esigenze della produzione sono tutelate dall'art.
26 che contempla la procedura semplificata, valida fino all'attuazione
dell'art. 72 del D.Lgs. 112/1998 (attività a rischio
di incidente rilevante), per il rilascio del certificato di
prevenzione incendi, previsto dall'art. 17 del D.P.R. 29/7/1982
n. 577.
LE
SANZIONI PENALI
Il sistema sanzionatorio penale del D.Lgs. 334/1999 consiste
nei seguenti reati:
A) è punito (art. 27 co. 1) con l'arresto fino ad un
anno il gestore che omette:
- di presentare alle competenti autorità (Ministero dell'Ambiente
, regione, provincia, comune , prefetto , comitato tecnico regionale
o interregionale del Corpo nazionale dei vigili del fuoco) la
notifica prevista dall'art. 6 comma 1;
- di presentare il rapporto di sicurezza previsto dall'art.
8;
- di redigere il documento previsto dall'art. 7 (documento che
definisce la politica degli incidenti rilevanti) nei termini
ivi contemplati (entro 6 mesi dall'entrata in vigore del D.Lgs.
334/1999);
B) è punito (art. 27 co. 2) con l'arresto fino a tre
mesi il gestore che omette di presentare la scheda informativa
prevista dall'art. 6 co. 5 (contenente le informazioni dell'allegato
V);
C) nel caso di incidente rilevante, salvo che il fatto non costituisca
più grave reato, è punito con l'arresto (art.
27 co. 3) da sei mesi a tre anni il gestore che non pone in
essere le prescrizioni indicate nel rapporto di sicurezza o
nelle eventuali misure integrative prescritte dall'autorità
competente o che non adempie agli obblighi previsti dall'art.
24 co. 1 (adempimenti in caso di incidente rilevante);
D) salvo che il fatto non costituisca più grave reato,
è punito (art. 27 co. 5) con l'arresto da tre mesi ad
un anno il gestore che non attua il sistema di gestione previsto
dall'art. 7 co. 2 (adozione entro 6 mesi dall'entrata in vigore
del D.Lgs. 334/1999 del sistema di gestione di sicurezza previsto
dal D.Lgs. 626/1994 secondo quanto previsto dall'allegato III);
E) è punito (art. 27 co. 6) con l'arresto fino a tre
mesi il gestore che non aggiorna in conformità all'art.
10 (modifiche in uno stabilimento):
- il rapporto di sicurezza previsto dall'art. 8;
- il documento dell'art. 7 co. 1 (politica di prevenzione degli
incidenti rilevanti);
F) è punita (art. 27 co. 8 e art. 22 commi 2 e 3) con
la reclusione fino a due anni la diffusione dei dati e delle
informazioni riservate del rapporto di sicurezza, previsto dall'art.
8, da parte di chiunque ne venga a conoscenza per motivi attinenti
al suo ufficio.
Un
primo commento alle norme penali contenute nel D.Lgs. 334/1999
non può trascurare di annotare che le stesse richiamano
la tecnica legislativa del D.Lgs 624/1994 e, pertanto, hanno
la finalità di indicare al gestore degli impianti un
percorso di sicurezza volto all'adozione delle misure tecniche
e gestionali idonee ad evitare gli incidenti rilevanti per l'uomo,
l'ambiente e le cose. I reati previsti dall'art. 27 commi 1,
2, 3, 5, 6 , 7 sono contravvenzioni per la cui realizzazione,
sotto il profilo dell'elemento soggettivo, rileva indifferentemente
il dolo , la colpa e la colpa lieve o lievissima del reo. Tale
caratteristica se da un lato rende più facile il lavoro
del pubblico ministero nel sostenere l'accusa in giudizio, d'altra
parte impone al gestore di non trascurare, neppure per colpa
lievissima, nessuna condotta rilevante per garantire la sicurezza
nello stabilimento. Particolare importanza rivestono le previsioni
dell'art. 27 co. 3 e co. 5 poiché impongono al gestore,
anche e non solo nel caso di incidente rilevante, l'adozione
della cultura di sicurezza già prevista dal D.Lgs. 626/1994,
in modo da predisporre, con efficacia, una difesa avanzata (
e possibilmente preliminare all'incidente) della integrità
delle persone, dell'ambiente e delle cose, attuando così
il principio che "prevenire è meglio che reprimere".
Particolarmente rigorosa è la sanzione dell'art. 27 co.
8 prevista per la violazione del segreto di ufficio del rapporto
di sicurezza, previsto dall'art. 22, che contiene informazioni
riservate di carattere industriale, commerciale o personale
o che si riferiscono alla pubblica sicurezza o alla difesa nazionale.
Il reato è un delitto per cui è previsto il dolo
del reo (infatti si applica la sanzione dell'art. 623 c.p. relativo
alla rivelazione dei segreti scientifici o industriali) nella
divulgazione del segreto (anche se non viene richiesto, come
per l'art. 623 c.p., il dolo specifico del proprio od altrui
profitto nella rivelazione del segreto) e la norma intende proteggere
le ragioni della riservatezza del gestore sulla sua politica
industriale o di ricerca scientifica al fine di evitare che
la diffusione al pubblico del rapporto di sicurezza, finalizzato
alla tutela della pubblica incolumità, si traduca in
un danno economico, anche di notevole rilevanza. Pertanto l'art.
22 co. 2 afferma che la regione mette a disposizione della popolazione
il rapporto di sicurezza solo nel suo contenuto minimo previsto
dall'art. 8 co. 10.
LA
RESPONSABILITÀ CIVILE, PREVISTA DALL'ART. 2050 C.C.,
DEL GESTORE DELLO STABILIMENTO DERIVANTE DA INCIDENTE CAUSATO
DALL'USO DI SOSTANZE PERICOLOSE
Nel caso di un incidente rilevante connesso con determinate
sostanze pericolose che causi dei danni a terzi si pone il problema
dell'esperibilità dell'azione di risarcimento del danno.
In tale caso è applicabile l'art. 2050 del codice civile
il quale stabilisce che chiunque cagiona un danno ad altri nello
svolgimento di un'attività pericolosa, per sua natura
o per la natura dei mezzi adoperati, è tenuto al risarcimento
del danno, se non prova di avere adottato tutte le misure idonee
a evitare il danno stesso. A tal proposito notasi che l'attività
disciplinata dal D.Lgs. 334/1999 rientra nel novero delle attività
pericolose contemplate dall'art. 2050 c.c. poiché la
giurisprudenza (Sent. C. Cass. n. 5341 del 29/5/1998) riconosce
come attività pericolose menzionate dall'art. 2050 c.c.
non solo quelle che tali sono qualificate dalla legge di pubblica
sicurezza e da altre leggi speciali, ma anche quelle che per
la loro stessa natura o per caratteristiche dei mezzi adoperati
comportino la rilevante possibilità del verificarsi di
un danno per la loro spiccata potenzialità offensiva.
In tali casi la valutazione del giudice di merito, finalizzata
ad accertare se in concreto un'attività sia da considerare
pericolosa, è insindacabile in sede di legittimità
(ovvero dalla Corte di Cassazione) se congruamente motivata.
Negli ultimi anni, nell'evidente intento di tutelare maggiormente
l'integrità psicofisica del cittadino dall'aggressione
delle attività pericolose, le sentenze dei giudici di
merito, confermate in Cassazione, hanno allargato il numero
delle attività pericolose disciplinate dall'art. 2050
c.c. facendovi rientrare:
- l'attività di noleggio di cavalli, la quale se di per
sé non è intrinsecamente pericolosa, tuttavia
può diventare tale in dipendenza delle circostanze del
caso concreto, laddove il noleggio sia organizzato su percorsi
pericolosi o senza adeguata vigilanza per prevedibili situazioni
di emergenza (Sent. C. Cass. n. 3471 del 9/4/1999);
- l'attività imprenditoriale di maneggio di cavalli con
esercitazioni a principianti o di allievi giovanissimi la cui
inesperienza, e conseguente incapacità di controllo dell'animale,
imprevedibile nelle sue reazioni se non sottoposto ad un comando
valido, rende pericolosa l'attività (Sent. C. Cass. n.
9581 del 24/9/1998 - Sent. Cass. n. 11861 del 23/11/1998);
- nel caso di danno provocato dallo scoppio di una bombola di
gas, se non si fornisce la prova della causa dello scoppio,
l'attività del produttore - distributore, quale esercente
di attività pericolose (art. 2050 c.c.), e quella dell'utente,
quale custode (art. 2051 c.c.), riferendosi lo scoppio a due
comportamenti od omissioni differenti ed essendo la prima prospettabile
anche quando la bombola sia passata, a seguito della consegna
, nella disponibilità dell'utente (Sent. C. Cass. n.
5484 del 4/6/1998);
- l'uso di saldatrice a fiamma ossiacetilenica (Sent. C. Cass.
n. 4777 del 12/5/1998);
- l'attività imprenditoriale di riempimento e dei collaudi
di recipienti per gas liquefatti e valvole connesse (Sent. C.
Cass. n. 12809 del 1/10/98 - 5/12/1998). In tale caso il giudice
ha ritenuto la predetta società responsabile di incendio
colposo, cagionato per la cessione di una spina di sicurezza
di una bombola costruita 28 anni prima e sottoposta a revisione
9 anni prima. In tale caso la Corte di Cassazione ha affermato
che:
- l'adempimento di un obbligo di revisione periodica non esclude
la colpa generica per difetto di manutenzione nell'intervallo
di tempo tra le revisioni, tanto più quanto maggiore
è l'intervallo temporale tra l'ultima revisione e la
data di costruzione;
- un obbligo di generica diligenza e prudenza si desume dall'art.
1 della legge 6/12/1971 n. 1083 secondo cui tutti i materiali,
gli apparecchi, le installazioni e gli impianti alimentati con
gas combustibile per uso domestico devono essere realizzati
secondo le regole specifiche della buona tecnica per la salvaguardia
della sicurezza.
In tema di responsabilità presunta per l'esercizio di
un'attività pericolosa il danneggiato è particolarmente
favorito perchè (Sent. C. Cass. n. 12307 del 4/12/1998)
ha il solo onere di provare l'esistenza del nesso causale tra
l'attività pericolosa ed il danno subito; incombe invece
sull'esercente l'attività pericolosa l'onere di provare
di avere adottato tutte le misure idonee a prevenire il danno.
Quindi la presunzione di responsabilità contemplata dall'art.
2050 c.c. può essere superata (Sent. C. Cass. n. 5484
del 4/6/1998) solo con una prova particolarmente rigorosa, e
cioè con la dimostrazione di aver adottato tutte le misure
idonee ad evitare il danno. Pertanto non basta la prova negativa
di non aver commesso alcuna violazione delle norme di legge
o di comune esperienza, ma occorre quella positiva di avere
impiegato ogni cura o misura volta ad impedire l'evento dannoso.
Ne
consegue che in merito al danneggiamento di terzi si possono
produrre effetti liberatori solo se le circostanze, per la loro
incidenza e rilevanza siano tali da escludere, in modo certo,
il nesso causale tra attività pericolosa ed evento. Diversamente
avviene quando lo svolgimento dell'attività pericolosa
costituisce elemento concorrente alla produzione del danno,
inserendosi il terzo danneggiato in una situazione di pericolo
che abbia reso possibile l'insorgenza del danno stesso a causa
dell'inidoneità delle misure preventive adottate.
Da quanto premesso consegue che l'esercente di un'attività
pericolosa è obbligato dalla legge all'adozione di tutte
le norme antinfortunistiche e laddove la sua attività
causi un danno ad altro soggetto è invertito l'onere
della prova poiché, contrariamente a quanto stabilito
per l'ordinaria azione risarcitoria extra contrattuale prevista
dall'art. 2043 del codice civile, il danneggiante, per evitare
di essere condannato al risarcimento dovrà provare di
avere utilizzato tutte le cautele previste per evitare il danno.
Invero
i fondamenti diversi delle due azioni civili previste dagli
articoli 2043 e 2050 del codice civile sono riconosciuti dalla
giurisprudenza (Sent. C. Cass. n. 6418 del 1/7/1998 - n. 2483
del 6/3/1998) la quale afferma che la responsabilità
presunta per l'esercizio di attività pericolosa (art.
2050 c.c. ) si fonda su presupposti parzialmente diversi rispetto
alla generale responsabilità aquiliana (art. 2043 c.c.)
per cui una volta formulata una domanda di condanna ai sensi
dell'art. 2050 c.c., invocare la presunzione di cui all'art.
2050 c.c. integra gli estremi di una domanda nuova, e perciò
non deducibile per la prima volta nel giudizio di cassazione.
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