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Responsabilità del gestore di attività pericolose negli impianti industriali

Giulio Benedetti
Magistrato

Il D.Lgs. 17/8/1999 n. 334, pubblicato sul supplemento ordinario n. 228 della G.U. del 28/9/1999, recepisce in Italia la direttiva 96/82/CE che contiene le norme finalizzate ad impedire disastri ambientali negli stabilimenti industriali di rilevanti dimensioni. La nuova, "legge Seveso", relativa al controllo dei pericoli di incidenti rilevanti connessi con l'uso di sostanze pericolose in attività industriali viene trattata in questo articolo dal punto di vista del magistrato.
Sono qui dettagliatamente esaminate la procedura di sicurezza e la responsabilità amministrativa, penale e civile del gestore dell'attività pericolosa, sia per quanto concerne gli obblighi di conduzione e di esercizio dell'impianto, sia nel caso di incidente rilevante che metta a repentaglio la pubblica incolumità.

PREMESSA GENERALE
Dopo la nota vicenda di Seveso la prima normativa che, recependo la direttiva CEE n. 82/ 501, ha introdotto in Italia le norme di sicurezza relative ai rischi di incidenti rilevanti connessi con determinate attività industriali è stata il D.P.R. 17/5/1988 n. 175. Dopo 11 anni tale norma è stata aggiornata con il D.Lgs. 334/1999 che abroga il D.P.R. 175/1988 (tranne l'art. 20) e contiene norme finalizzate a prevenire incidenti rilevanti connessi a determinate sostanze pericolose e a limitarne le conseguenze per l'uomo e l'ambiente; invero il decreto traccia una linea di confine e di reciproca tolleranza tra le esigenze della grande produzione industriale (soprattutto chimica) e le aspettative di vita e di sicurezza della popolazione abitante nelle zone viciniori agli stabilimenti. In particolare, occorre notare che tale convivenza deve essere regolamentata secondo criteri di sicurezza per l'uomo e l'ambiente.
Infatti sono evidenti i fenomeni di incremento delle dimensioni degli insediamenti in prossimità degli impianti industriali di maggiore dimensione.
Ciò a causa dell'espansione delle zone abitative residenziali realizzate spesso con improvvise e successive modificazioni dei piani edilizi comunali.
Pertanto gli impianti industriali, dapprima edificati in aperta campagna, sono poi stati dopo pochi anni circondati da private abitazioni costruite senza che né gli edificatori, né i proprietari, né le autorità comunali osservassero o facessero osservare le distanze minime di sicurezza in caso di incidente rilevante.
In proposito l'art. 14 co. 5 della nuova norma, in merito al controllo dell'urbanizzazione nei pressi degli stabilimenti, limita notevolmente, se non esclude del tutto, l'intervento della pubblica autorità a favore dell'incolumità dei cittadini in quanto afferma la salvezza delle concessioni edilizie già rilasciate alla data di entrata in vigore del Decreto 334/1999. È ovvio che tale cristallizzazione della realtà abitativa nei pressi degli stabilimenti pericolosi risponde all'evidente esigenza politica di non rendere traumatico l'impatto del D.Lgs. 334/1999 nella situazione di forte urbanizzazione nei pressi degli impianti, ma consiste, parimenti, in un clamoroso abbandono ed in una mancata occasione di interventi, anche graduali, per sanare situazioni abitative ad altissima esposizione al rischio di incidente rilevante.

Il D.Lgs. 334/1999 si applica agli stabilimenti in cui sono presenti sostanze pericolose in quantità uguali o superiori a quelle indicate nell'allegato I, contenente l'elenco delle sostanze, miscele e preparati pericolosi e in ogni caso la normativa del decreto non pregiudica (art. 2 co. 5) l'applicazione delle disposizioni in materia di sicurezza e salute dei lavoratori sul luogo di lavoro; quindi il D.Lgs. 334/1999 non deroga assolutamente alle norme contenute nel D.Lgs 19/9/1994 n. 626. L'art. 4 del D.Lgs. 334/1999 esclude dall'applicazione delle proprie norme: le aree militari; i pericoli connessi alle radiazioni ionizzanti; il trasporto di sostanze pericolose ed il relativo deposito intermedio su strada, per idrovia interna o marittima o per via aerea; il trasporto di sostanze pericolose in condotta; l'attività delle industrie estrattive; le discariche dei rifiuti; il trasporto di sostanze pericolose per ferrovia e gli scali terminali di ferrovia purché l'attività ivi svolta non riguardi l'attività di carico o scarico o travaso di sostanze pericolose presenti in quantità uguale o superiore a quelle indicate nell'allegato I. Viene inoltre prevista l'applicabilità del D.Lgs. 334/1999 nei porti industriali e petroliferi con gli adattamenti richiesti dalla peculiarità delle attività portuali definite in un regolamento interministeriale da adottarsi di concerto tra il Ministro dell'Ambiente, dei Trasporti e della Sanità da emanarsi entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore del D.Lgs. 334/1999.
Il decreto prevede che il gestore dello stabilimento contenente le sostanze pericolose adempia gli obblighi di garanzia della tutela della pubblica incolumità mediante un percorso normativo di riduzione del rischio svolto attraverso i seguenti passaggi principali e ritenuti punti cardine di sicurezza:
- la notifica dell'esercizio dell'impianto (art. 6);
- la politica di prevenzione degli incendi rilevanti (art. 7);
- il rapporto di sicurezza (art. 8);
- i rapporti di sicurezza nei nuovi stabilimenti (art. 9);
- i criteri di modifica degli stabilimenti (art. 10);
- il piano di emergenza interno (art. 11).
Lo schema normativo del decreto, in accordo con la più recente tendenza legislativa comunitaria, ha la finalità di:
- creare una normativa europea uniforme in materia di sicurezza industriale per evitare la formazione, nei singoli paesi dell'Unione, di squilibri territoriali (eventualmente ricercati e dolosamente sfruttati da imprenditori spregiudicati) che consentano solo in certe aree le attività industriali pericolose in modo da favorire la creazione correlata di altre aree assolutamente sicure;
- privilegiare il percorso oggettivo di sicurezza industriale rispetto all'attività del singolo imprenditore per scoraggiare prassi amministrative ed industriali diverse negli Stati dell'Unione;
- dettare parametri e norme di sicurezza concretamente utilizzabili nella progettazione o ristrutturazione dei grandi stabilimenti industriali, secondo le riconosciute regole stabilite dall'odierna dottrina industriale ed "antinfortunistica".
In ogni caso, per non creare il caos nel mondo produttivo, la normativa di sicurezza del decreto non ha un impatto immediato sulle imprese in quanto la norma transitoria (art. 28) consente ai gestori degli stabilimenti in corso di costruzione e non terminati alla data di entrata in vigore del decreto e già autorizzati in base alla normativa previgente, di presentare la notifica, prevista dall'art. 6, comma 1, centoventi giorni prima dell'inizio dell'attività.
Inoltre fino all'emanazione del decreto previsto dall'art. 25, comma 3, concernente i criteri delle verifiche ispettive, le misure di controllo, previste dall'art. 25, sono quelle effettuate in conformità allo stato attuale delle norme tecniche in materia e riconosciute a livello nazionale ed internazionale.

LE SANZIONI AMMINISTRATIVE
Si applica (art. 27 co. 7) la sanzione amministrativa pecuniaria del pagamento di una somma da lire 30 milioni a 180 milioni nei confronti del gestore degli impianti che non effettua i seguenti adempimenti:
1) per gli impianti indicati nell'allegato A in cui sono presenti sostanze in quantitativi superiori ai valori di soglia di cui al punto 3 dell'allegato B e per le sostanze chimiche nell'allegato I, in quantità inferiori ai valori di soglia ivi riportati:
- 1a) non presenta alla regione territorialmente competente ed al prefetto, entro un anno dall'entrata in vigore del D.Lgs. 334/1999 e aggiornato ogni 5 anni, la relazione redatta (fino all'adozione del decreto previsto dall'art. 8 co. 4) in conformità al D.P.C.M. 31/3/1989 e contenente le informazioni relative al processo produttivo, alle sostanze pericolose presenti, alla valutazione dei rischi di incidente rilevante, all'adozione di misure di sicurezza appropriate, all'informazione, formazione, addestramento ed equipaggiamento dei lavoratori nonché non presenta la scheda di informazione prevista dall'allegato V;
- 1b) non predispone il piano di emergenza interno previsto dall'art. 11 (art. 5 co. 3 lettere a e b);
2) per tutti gli stabilimenti soggetti alle disposizioni dell'art. 8 (ovvero per tutti gli stabilimenti contenenti sostanze pericolose in quantità uguali o superiori a quelle indicate nell'allegato I punti 1 e 2, colonna 3) non predispone, previa consultazione dei lavoratori, il piano di emergenza interna da adottare con le seguenti scadenze:
- per gli stabilimenti nuovi prima di iniziare l'attività;
- per gli stabilimenti esistenti, non ancora soggetti al D.P.R. 175/1989, entro due anni dalla data di entrata in vigore del D.Lgs. 334/1999;
- per gli altri stabilimenti preesistenti entro tre mesi dalla data di entrata in vigore del D.Lgs. 334/1999.
Il piano di emergenza, contenente le informazioni dell'allegato IV punto 1, deve essere predisposto per:
- controllare e circoscrivere gli incidenti per limitare i loro effetti sull'uomo, sull'ambiente e sulle cose;
- mettere in atto le misure necessarie per proteggere l'uomo e l'ambiente dalle conseguenze degli incidenti;
- informare i lavoratori e le autorità competenti;
- provvedere al ripristino ed al risanamento ambientale dopo un incidente rilevante. Il piano di emergenza deve essere trasmesso al prefetto ed alla provincia e deve essere riesaminato, riveduto ed aggiornato dal gestore previa consultazione del personale ad intervalli non superiori a tre anni. La revisione deve tenere conto dei cambiamenti nello stabilimento, dei servizi di emergenza, dei progressi tecnici e delle nuove conoscenze in merito alle misure da adottare in caso di incidenti rilevanti (art. 11);
3) non trasmette al prefetto e alla provincia, entro 4 mesi dall'individuazione del possibile effetto domino, le informazioni necessarie per gli adempimenti di competenza previsti dall'art. 20 per la redazione del piano di emergenza interna (art. 12 co. 2).

L'INGIUNZIONE DI SICUREZZA ED IL SEQUESTRO AMMINISTRATIVO DELL'IMPIANTO
L'art. 27 co. 4 consente alle autorità preposte al controllo (previste dall'art. 17 ovvero ANPA, ISPESL, Istituto Superiore di Sanità e Corpo nazionale dei vigili del fuoco), laddove il gestore non abbia presentato il rapporto di sicurezza o non siano state rispettate le misure previste nel rapporto o le misure integrative indicate dall'autorità, di diffidare il gestore ad adottare le misure necessarie consentendo un periodo moratorio di 60 giorni, prorogabili in caso di giustificato e comprovato motivo. Nel caso in cui il gestore non ottemperi alla diffida è ordinata la sospensione dell'attività per il tempo necessario ad adeguare gli impianti alle prescrizioni indicate e, comunque, per un periodo non superiore a sei mesi. Laddove il gestore, anche dopo il periodo di sospensione, continui a non adeguarsi alla prescrizioni, l'autorità preposta al controllo ordina la chiusura dello stabilimento o, se possibile , di un singolo impianto o di una parte di esso.
La procedura descritta attribuisce giuridica rilevanza al procedimento, usualmente adottato, di diffida amministrativa finalizzata alla sicurezza e attribuisce la facoltà agli organi tecnici di intervenire con efficacia nelle situazioni di pericolo mediante l'indicazione al gestore di un percorso tecnico amministrativo di salvaguardia della pubblica incolumità che, se disatteso, è sanzionato con il sequestro amministrativo degli impianti.
Si noti che l'art. 27 co. 4 contiene l'inciso " fatti salvi i casi di responsabilità penale" e quindi non abroga l'art. 650 c.p.: pertanto le autorità di vigilanza previste dall'art. 6 (Ministero dell'ambiente, il prefetto, la regione, il comune, la provincia o il comitato tecnico regionale o interregionale del Corpo nazionale dei vigili del fuoco) possono emettere, per garantire la sicurezza pubblica ed al fine di tutelare l'incolumità dei cittadini, dell'ambiente e delle cose, ordinanze contingibili ed urgenti, aventi ad oggetto la messa in sicurezza degli impianti, la cui inosservanza è punita dall'art. 650 c.p. con l'arresto fino a tre anni o con l'ammenda fino a lire 400.000.
D'altra parte le esigenze della produzione sono tutelate dall'art. 26 che contempla la procedura semplificata, valida fino all'attuazione dell'art. 72 del D.Lgs. 112/1998 (attività a rischio di incidente rilevante), per il rilascio del certificato di prevenzione incendi, previsto dall'art. 17 del D.P.R. 29/7/1982 n. 577.

LE SANZIONI PENALI
Il sistema sanzionatorio penale del D.Lgs. 334/1999 consiste nei seguenti reati:
A) è punito (art. 27 co. 1) con l'arresto fino ad un anno il gestore che omette:
- di presentare alle competenti autorità (Ministero dell'Ambiente , regione, provincia, comune , prefetto , comitato tecnico regionale o interregionale del Corpo nazionale dei vigili del fuoco) la notifica prevista dall'art. 6 comma 1;
- di presentare il rapporto di sicurezza previsto dall'art. 8;
- di redigere il documento previsto dall'art. 7 (documento che definisce la politica degli incidenti rilevanti) nei termini ivi contemplati (entro 6 mesi dall'entrata in vigore del D.Lgs. 334/1999);
B) è punito (art. 27 co. 2) con l'arresto fino a tre mesi il gestore che omette di presentare la scheda informativa prevista dall'art. 6 co. 5 (contenente le informazioni dell'allegato V);
C) nel caso di incidente rilevante, salvo che il fatto non costituisca più grave reato, è punito con l'arresto (art. 27 co. 3) da sei mesi a tre anni il gestore che non pone in essere le prescrizioni indicate nel rapporto di sicurezza o nelle eventuali misure integrative prescritte dall'autorità competente o che non adempie agli obblighi previsti dall'art. 24 co. 1 (adempimenti in caso di incidente rilevante);
D) salvo che il fatto non costituisca più grave reato, è punito (art. 27 co. 5) con l'arresto da tre mesi ad un anno il gestore che non attua il sistema di gestione previsto dall'art. 7 co. 2 (adozione entro 6 mesi dall'entrata in vigore del D.Lgs. 334/1999 del sistema di gestione di sicurezza previsto dal D.Lgs. 626/1994 secondo quanto previsto dall'allegato III);
E) è punito (art. 27 co. 6) con l'arresto fino a tre mesi il gestore che non aggiorna in conformità all'art. 10 (modifiche in uno stabilimento):
- il rapporto di sicurezza previsto dall'art. 8;
- il documento dell'art. 7 co. 1 (politica di prevenzione degli incidenti rilevanti);
F) è punita (art. 27 co. 8 e art. 22 commi 2 e 3) con la reclusione fino a due anni la diffusione dei dati e delle informazioni riservate del rapporto di sicurezza, previsto dall'art. 8, da parte di chiunque ne venga a conoscenza per motivi attinenti al suo ufficio.

Un primo commento alle norme penali contenute nel D.Lgs. 334/1999 non può trascurare di annotare che le stesse richiamano la tecnica legislativa del D.Lgs 624/1994 e, pertanto, hanno la finalità di indicare al gestore degli impianti un percorso di sicurezza volto all'adozione delle misure tecniche e gestionali idonee ad evitare gli incidenti rilevanti per l'uomo, l'ambiente e le cose. I reati previsti dall'art. 27 commi 1, 2, 3, 5, 6 , 7 sono contravvenzioni per la cui realizzazione, sotto il profilo dell'elemento soggettivo, rileva indifferentemente il dolo , la colpa e la colpa lieve o lievissima del reo. Tale caratteristica se da un lato rende più facile il lavoro del pubblico ministero nel sostenere l'accusa in giudizio, d'altra parte impone al gestore di non trascurare, neppure per colpa lievissima, nessuna condotta rilevante per garantire la sicurezza nello stabilimento. Particolare importanza rivestono le previsioni dell'art. 27 co. 3 e co. 5 poiché impongono al gestore, anche e non solo nel caso di incidente rilevante, l'adozione della cultura di sicurezza già prevista dal D.Lgs. 626/1994, in modo da predisporre, con efficacia, una difesa avanzata ( e possibilmente preliminare all'incidente) della integrità delle persone, dell'ambiente e delle cose, attuando così il principio che "prevenire è meglio che reprimere".
Particolarmente rigorosa è la sanzione dell'art. 27 co. 8 prevista per la violazione del segreto di ufficio del rapporto di sicurezza, previsto dall'art. 22, che contiene informazioni riservate di carattere industriale, commerciale o personale o che si riferiscono alla pubblica sicurezza o alla difesa nazionale. Il reato è un delitto per cui è previsto il dolo del reo (infatti si applica la sanzione dell'art. 623 c.p. relativo alla rivelazione dei segreti scientifici o industriali) nella divulgazione del segreto (anche se non viene richiesto, come per l'art. 623 c.p., il dolo specifico del proprio od altrui profitto nella rivelazione del segreto) e la norma intende proteggere le ragioni della riservatezza del gestore sulla sua politica industriale o di ricerca scientifica al fine di evitare che la diffusione al pubblico del rapporto di sicurezza, finalizzato alla tutela della pubblica incolumità, si traduca in un danno economico, anche di notevole rilevanza. Pertanto l'art. 22 co. 2 afferma che la regione mette a disposizione della popolazione il rapporto di sicurezza solo nel suo contenuto minimo previsto dall'art. 8 co. 10.

LA RESPONSABILITÀ CIVILE, PREVISTA DALL'ART. 2050 C.C., DEL GESTORE DELLO STABILIMENTO DERIVANTE DA INCIDENTE CAUSATO DALL'USO DI SOSTANZE PERICOLOSE
Nel caso di un incidente rilevante connesso con determinate sostanze pericolose che causi dei danni a terzi si pone il problema dell'esperibilità dell'azione di risarcimento del danno. In tale caso è applicabile l'art. 2050 del codice civile il quale stabilisce che chiunque cagiona un danno ad altri nello svolgimento di un'attività pericolosa, per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati, è tenuto al risarcimento del danno, se non prova di avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno stesso. A tal proposito notasi che l'attività disciplinata dal D.Lgs. 334/1999 rientra nel novero delle attività pericolose contemplate dall'art. 2050 c.c. poiché la giurisprudenza (Sent. C. Cass. n. 5341 del 29/5/1998) riconosce come attività pericolose menzionate dall'art. 2050 c.c. non solo quelle che tali sono qualificate dalla legge di pubblica sicurezza e da altre leggi speciali, ma anche quelle che per la loro stessa natura o per caratteristiche dei mezzi adoperati comportino la rilevante possibilità del verificarsi di un danno per la loro spiccata potenzialità offensiva. In tali casi la valutazione del giudice di merito, finalizzata ad accertare se in concreto un'attività sia da considerare pericolosa, è insindacabile in sede di legittimità (ovvero dalla Corte di Cassazione) se congruamente motivata. Negli ultimi anni, nell'evidente intento di tutelare maggiormente l'integrità psicofisica del cittadino dall'aggressione delle attività pericolose, le sentenze dei giudici di merito, confermate in Cassazione, hanno allargato il numero delle attività pericolose disciplinate dall'art. 2050 c.c. facendovi rientrare:
- l'attività di noleggio di cavalli, la quale se di per sé non è intrinsecamente pericolosa, tuttavia può diventare tale in dipendenza delle circostanze del caso concreto, laddove il noleggio sia organizzato su percorsi pericolosi o senza adeguata vigilanza per prevedibili situazioni di emergenza (Sent. C. Cass. n. 3471 del 9/4/1999);
- l'attività imprenditoriale di maneggio di cavalli con esercitazioni a principianti o di allievi giovanissimi la cui inesperienza, e conseguente incapacità di controllo dell'animale, imprevedibile nelle sue reazioni se non sottoposto ad un comando valido, rende pericolosa l'attività (Sent. C. Cass. n. 9581 del 24/9/1998 - Sent. Cass. n. 11861 del 23/11/1998);
- nel caso di danno provocato dallo scoppio di una bombola di gas, se non si fornisce la prova della causa dello scoppio, l'attività del produttore - distributore, quale esercente di attività pericolose (art. 2050 c.c.), e quella dell'utente, quale custode (art. 2051 c.c.), riferendosi lo scoppio a due comportamenti od omissioni differenti ed essendo la prima prospettabile anche quando la bombola sia passata, a seguito della consegna , nella disponibilità dell'utente (Sent. C. Cass. n. 5484 del 4/6/1998);
- l'uso di saldatrice a fiamma ossiacetilenica (Sent. C. Cass. n. 4777 del 12/5/1998);
- l'attività imprenditoriale di riempimento e dei collaudi di recipienti per gas liquefatti e valvole connesse (Sent. C. Cass. n. 12809 del 1/10/98 - 5/12/1998). In tale caso il giudice ha ritenuto la predetta società responsabile di incendio colposo, cagionato per la cessione di una spina di sicurezza di una bombola costruita 28 anni prima e sottoposta a revisione 9 anni prima. In tale caso la Corte di Cassazione ha affermato che:
- l'adempimento di un obbligo di revisione periodica non esclude la colpa generica per difetto di manutenzione nell'intervallo di tempo tra le revisioni, tanto più quanto maggiore è l'intervallo temporale tra l'ultima revisione e la data di costruzione;
- un obbligo di generica diligenza e prudenza si desume dall'art. 1 della legge 6/12/1971 n. 1083 secondo cui tutti i materiali, gli apparecchi, le installazioni e gli impianti alimentati con gas combustibile per uso domestico devono essere realizzati secondo le regole specifiche della buona tecnica per la salvaguardia della sicurezza.
In tema di responsabilità presunta per l'esercizio di un'attività pericolosa il danneggiato è particolarmente favorito perchè (Sent. C. Cass. n. 12307 del 4/12/1998) ha il solo onere di provare l'esistenza del nesso causale tra l'attività pericolosa ed il danno subito; incombe invece sull'esercente l'attività pericolosa l'onere di provare di avere adottato tutte le misure idonee a prevenire il danno.
Quindi la presunzione di responsabilità contemplata dall'art. 2050 c.c. può essere superata (Sent. C. Cass. n. 5484 del 4/6/1998) solo con una prova particolarmente rigorosa, e cioè con la dimostrazione di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno. Pertanto non basta la prova negativa di non aver commesso alcuna violazione delle norme di legge o di comune esperienza, ma occorre quella positiva di avere impiegato ogni cura o misura volta ad impedire l'evento dannoso.

Ne consegue che in merito al danneggiamento di terzi si possono produrre effetti liberatori solo se le circostanze, per la loro incidenza e rilevanza siano tali da escludere, in modo certo, il nesso causale tra attività pericolosa ed evento. Diversamente avviene quando lo svolgimento dell'attività pericolosa costituisce elemento concorrente alla produzione del danno, inserendosi il terzo danneggiato in una situazione di pericolo che abbia reso possibile l'insorgenza del danno stesso a causa dell'inidoneità delle misure preventive adottate.
Da quanto premesso consegue che l'esercente di un'attività pericolosa è obbligato dalla legge all'adozione di tutte le norme antinfortunistiche e laddove la sua attività causi un danno ad altro soggetto è invertito l'onere della prova poiché, contrariamente a quanto stabilito per l'ordinaria azione risarcitoria extra contrattuale prevista dall'art. 2043 del codice civile, il danneggiante, per evitare di essere condannato al risarcimento dovrà provare di avere utilizzato tutte le cautele previste per evitare il danno.

Invero i fondamenti diversi delle due azioni civili previste dagli articoli 2043 e 2050 del codice civile sono riconosciuti dalla giurisprudenza (Sent. C. Cass. n. 6418 del 1/7/1998 - n. 2483 del 6/3/1998) la quale afferma che la responsabilità presunta per l'esercizio di attività pericolosa (art. 2050 c.c. ) si fonda su presupposti parzialmente diversi rispetto alla generale responsabilità aquiliana (art. 2043 c.c.) per cui una volta formulata una domanda di condanna ai sensi dell'art. 2050 c.c., invocare la presunzione di cui all'art. 2050 c.c. integra gli estremi di una domanda nuova, e perciò non deducibile per la prima volta nel giudizio di cassazione.

 



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