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Requisiti minimi di sicurezza delle attrezzature di lavoro

Antonio Oddo
Roberto Petringa Nicolosi
Avvocati in Milano

Sono ancora in molti a non conoscere od a sottovalutare la valenza e le conseguenze di una disciplina in materia di sicurezza sul lavoro che ha imposto obblighi di portata fondamentale che devono essere adempiuti entro termini la cui scadenza in alcuni casi si è già verificata ed, in altri casi, è ormai prossima.
Il D.Lgs. 359/99 ha infatti attuato (con ritardo grave, per le ragioni che si esporranno in seguito) nel nuovo ordinamento giuridico la direttiva 89/655/CEE, come modificata dalla direttiva 95/63/CEE, in materia di "requisiti minimi di sicurezza e di salute per l'uso delle attrezzature di lavoro".
Si tratta di una cosiddetta "direttiva particolare" destinata a dare attuazione specifica e più rigorosa ai principi generali che sono stati stabiliti per la sicurezza sul lavoro dalla "direttiva quadro" 89/391/CEE i cui contenuti sono stati trasposti e recepiti, com'è noto, nel titolo I del D.Lgs. 626/94 come risulta dalle successive integrazioni e modificazioni.
In altri termini il legislatore comunitario ha ritenuto, fin dal '89, che, nella specifica materia costituita dalla "sicurezza nell'uso delle attrezzature di lavoro" si richiede necessariamente e specificamente (al pari di quanto è stato previsto, ad esempio, per "i cantieri temporanei o mobili") una disciplina ad hoc per rispondere in modo particolareggiato ed articolato alle esigenze di sicurezza che contraddistinguono, in ogni realtà lavorativa, il fondamentale momento dell'"uso" di qualsiasi strumento di lavoro.
Il legislatore italiano si era in precedenza limitato con il D.Lgs. 626/94 (artt. da 34 a 39), a recepire soltanto una parte dei contenuti della direttiva particolare 89/655/CEE ed aveva, tra l'altro, omesso di trasporre gran parte delle "prescrizioni minime" di sicurezza che sono applicabili alle attrezzature di lavoro "in uso" e che sono previste da una lunga e precisa elencazione contenuta nell'allegato tecnico alla direttiva 89/655/CEE.
Quest'ultima, peraltro, avrebbe dovuto essere applicata, al più tardi, dal 31 dicembre '96 in modo da assicurare una completa disciplina dei requisiti di sicurezza esigibili nei confronti di tutte le attrezzature di lavoro secondo una regolamentazione modulata anche in rapporto alla applicabilità o meno delle specifiche direttive comunitarie di prodotto (quali, ad es., la "direttiva macchine", la "direttiva bassa tensione", ecc.).
È importante, a questo riguardo, rilevare la portata vastissima e praticamente omnicomprensiva dell'espressione "attrezzature di lavoro" secondo la definizione dell'art. 2 della direttiva 89/655/CEE e dell'art. 34 del D.Lgs. 626/94 (e successive integrazioni e modificazioni).
Agli effetti di questa disciplina, infatti, "si intendono per attrezzature di lavoro": qualsiasi macchina, apparecchio, utensile, o impianto destinato ad essere usato durante il lavoro".
Appare dunque evidente, a fronte di così gravi violazioni del diritto comunitario in una materia destinata a costituire un pilastro del "nuovo modello" di sicurezza sul lavoro, le ragioni che hanno indotto la Commissione europea ad instaurare una procedura di infrazione nei confronti dello Stato italiano per il mancato recepimento della direttiva 89/655/CEE nella parte riguardante i fondamentali requisiti minimi di sicurezza.
Da qui la necessità giuridica per il medesimo Stato italiano di correre, pur tardivamente, ai ripari emanando il D.Lgs. 359/99 (pubblicato nella G.U. del 19.10.1999) che modifica ed integra il Titolo III del D.Lgs. 626/94 e l'art.184 del D.P.R. 547/55, in attuazione contestuale della direttiva 89/655/CEE e della direttiva 95/63/CE nel frattempo intervenuta per approntare modifiche ed integrazioni alla prima direttiva. I termini fissati per l'adeguamento alle disposizioni del D.Lgs. 359/99 risultano essere diversificati a seconda che si tratti di prescrizioni minime generali applicabili alle attrezzature di lavoro (artt. 2 del D.Lgs. 359/99 in modifica ed integrazione dell'art. 35 del D.Lgs. 626/94) o di prescrizioni minime supplementari applicabili ad attrezzature di lavoro specifiche (art. 3 del D.Lgs. 359/99 in modifica ed integrazione dell'art. 36 del D.Lgs. 626/94). Con riferimento al termine di scadenza del 19 aprile 2000 conviene rammentare brevemente che le specifiche prescrizioni tecniche cui occorre adeguare le attrezzature di lavoro in uso riguardano i "sistemi di comando" e la "disposizione" delle attrezzature stesse, nonché tutta una serie di altre misure di sicurezza per attrezzature di lavoro mobili, semoventi o non semoventi ed, ancora, per attrezzature di lavoro destinate a sollevare carichi.
Un cenno particolare merita invece il regime giuridico applicabile alle "verifiche" di prima o successiva installazione ed alle verifiche periodiche o eccezionali secondo le forme, modalità e procedure previste dal decreto stesso anche mediante rinvio alla specifica legislazione di settore. La disciplina introdotta dal D.Lgs. 359/99 infatti, limita (v. art. 2, parte finale) l'obbligo di "verifica" alle particolari attrezzature di cui all'All. XIV del decreto stesso, mentre l'art. 4 bis della direttiva 89/655/CEE (come modificata dalla direttiva 95/63/CE) non contiene alcuna limitazione prevedendo, al contrario che "il datore di lavoro vigila affinché le attrezzature di lavoro la cui sicurezza dipende dalle condizioni di installazione sono sottoposte a una verifica …".
La scelta italiana di limitare il regime comunitario di "verifica" soltanto alle "macchine" ed "apparecchiature" ricomprese nell'elencazione di cui all'All. XIV (aggiunto al D.Lgs. 626/94 per effetto delle integrazioni apportate dal D.Lgs. 359/99) appare arbitraria e contraddittoria per una serie di motivi. In primo luogo il termine "attrezzature", secondo la già rilevata definizione fornita dall'art. 34 del D.Lgs. 626/94, comprende non soltanto le "macchine" e le "apparecchiature", menzionate nell'All. XIV ma anche gli impianti, siano essi elettrici, a gas o di altro genere.
In secondo luogo appare evidente come, ad esempio, anche la sicurezza di un impianto elettrico possa dipendere "dalle condizioni di installazione".
Tant'è che lo stesso D.P.R. 547/55 prevede - ex art. 328 - una specifica disciplina delle "verifiche" che avrebbe dovuto essere integrata e coordinata con le nuove prescrizioni imposte dalle Direttive 89/655/CEE e 95/63/CE.
Quali conclusioni sono ricavabili a questo particolare riguardo secondo il diritto comunitario applicabile a livello nazionale? La risposta è semplice se si considera che, a certe condizioni, le direttive comunitarie sono direttamente applicabili, indipendentemente da omissioni o ritardi del legislatore nazionale, nei confronti dello Stato inadempiente e di tutte le sue pubbliche amministrazioni o funzioni.
Pertanto: gli obblighi di "verifiche delle attrezzature di lavoro" potranno risultare esigibili secondo le prescrizioni dell'art. 4 bis della Direttiva 89/655/CEE (come integrata dalla direttiva 95/63/CE e, quindi, senza limitazioni relative a determinate apparecchiature e/o impianti) nei confronti del "datore di lavoro", dei dirigenti e dei preposti del settore pubblico in rapporto ad ambienti di lavoro "pubblici".
Fin qui, dunque, le "prescrizioni minime generali", applicabili a tutte le attrezzature di lavoro entro il termine perentorio del 19 aprile 2000.
Un diverso termine è invece stabilito, secondo quanto già anticipato, per l'adeguamento delle attrezzature di lavoro ai requisiti indicati nell'All. XV in rapporto a "Prescrizioni minime supplementari applicabili ad attrezzature di lavoro specifiche" quali le attrezzature mobili, semoventi e non (tra cui i carrelli elevatori) che possono creare rischi per le persone o che sono adibite al sollevamento di carichi. Per tutte le prescrizioni considerate dall'All. XV del D.Lgs. 359/99 (e corrispondenti all'All. I parte 3 della Direttiva 89/655/CEE come modificata dalla direttiva 95/63/CE) il termine risulta invece fissato al 30 giugno 2001.
Di rilievo la circostanza, sulla quale si tornerà in seguito, che "le prescrizioni minime … in quanto applicabili alle attrezzature di lavoro in funzione non richiedono necessariamente le stesse misure dei requisiti essenziali applicabili alle attrezzature di lavoro nuove".
È evidente, pertanto, il disegno complessivo del legislatore comunitario secondo il quale tutte le attrezzature di lavoro "messe a disposizione dei lavoratori" devono rispondere a precisi requisiti di sicurezza secondo un doppio regime che consente di differenziare le attrezzature di lavoro "nuove" rispetto a quelle già "in uso". Le prime ("nuove") devono intendersi con riferimento ad attrezzature cui siano applicabili (in tutto o in parte) le direttive comunitarie di settore in rapporto alla sfera di applicazione ed all'entrata in vigore dei relativi provvedimenti (ad es. per le macchine la "direttiva macchine" a partire dal 21 settembre '96, secondo l'ordinamento italiano) con tutto quanto ne consegue in termini di conformità ai requisiti essenziali ed alla marcatura CE.
Le seconde ("attrezzature" "già in uso") devono invece essere adeguate ai requisiti minimi di sicurezza che sono stati precisati negli allegati alle Direttive 89/655/CEE e 95/63/CE.
Ne deriva che anche tutte le attrezzature di lavoro già in funzione precedentemente all'applicabilità delle direttive comunitarie (e non marcate CE) devono obbedire ad una propria "legge" e, qualora necessario, devono essere adeguate a precisi requisiti di sicurezza.
I ritardi accumulati dal legislatore italiano costringono ora le imprese nazionali ad una problematica rincorsa all'adeguamento tecnico e normativo di tutte le attrezzature di lavoro "in uso" (presumibilmente più numerose di quelle "nuove" con marcatura CE) entro termini che avrebbero potuto essere larghi se fossero stati rispettati i termini transitori previsti dalle direttive comunitarie fin dal '92, ma che diventano ora assai stretti in rapporto al numero ed allo stato delle attrezzature da adeguare a requisiti di sicurezza che, pur qualificati "minimi", si possono considerare in molti casi piuttosto severi.
Per quanto riguarda il valore giuridico attribuibile all'espressione "prescrizioni minime" la Corte di Giustizia delle Comunità europee ha precisato - con sentenza del 17 dicembre 1998 nel procedimento C - 2/97 - che, sulla base di quanto istituzionalmente previsto dall'art. 118 A del Trattato (divenuto ora, in seguito a modifica, art. 137) tale espressione "significa che gli Stati membri sono autorizzati ad adottare norme più rigorose di quelle che sono oggetto dell'intervento comunitario … in quanto restano liberi di adottare misure per una maggiore protezione delle condizioni di lavoro."
Da quanto sopra deriva, pertanto, che ove il D.Lgs. 359/99 dovesse contenere disposizioni più severe - sul piano delle misure tecniche per la sicurezza o, anche sul piano delle misure organizzative e procedurali, rispetto a quelle contenute nelle Direttive comunitarie 89/655/CEE e 95/63/CE non si tratterebbe di "infrazione" agli obblighi comunitari bensì di legittimo esercizio di un potere liberamente esercitabile dal legislatore italiano. Al contrario, qualora si dimostrasse che i "requisiti minimi" di sicurezza contenuti nel D.Lgs. 359/99 sono in minor numero o, anche meno rigorosi rispetto a quelli previsti dalle suddette direttive comunitarie, lo Stato italiano potrebbe essere assoggettato ad una nuova procedura di infrazione (dopo quella già instaurata per il mancato recepimento delle direttive nel D.Lgs. 626/94 prima delle ultime modifiche) perché gli Stati membri, agli effetti del diritto comunitario, restano liberi di adottare "norme più rigorose" ma non di adottare norme "meno rigorose".
La libertà degli Stati membri è esercitabile infatti sul piano legislativo soltanto nel senso di una protezione dei lavoratori "maggiore" rispetto a quella prevista dai livelli normativi minimi fissati a livello comunitario.
Né si potrebbe validamente invocare sul piano giuridico a titolo di doglianza da parte degli operatori economici nazionali onerati di maggiori doveri prevenzionali la circostanza che il termine di scadenza fissato dal legislatore italiano per l'adeguamento normativo delle attrezzature di lavoro soggette alle prescrizioni del p. 3 dell'All. I alla direttiva comunitaria (corrispondente all'All. XV del D.Lgs. 359/99) è più ravvicinato (30 giugno 2001) rispetto a quello previsto dalla direttiva 95/63/CE (5 dicembre 2002).
Al riguardo infatti, la Corte di Giustizia, nella sentenza prima indicata e con riferimento ad analogo problema, ha stabilito, che il "termine … fissato dalla disposizione citata contiene un termine massimo. Nulla impedisce agli Stati membri di anticipare l'applicazione degli obblighi previsti nella direttiva per le attrezzature di lavoro esistenti".
Particolare interesse riveste, infine, la già rilevata "osservazione preliminare" contenuta nella Direttiva 89/655/CEE come modificata dalla direttiva 95/63/CE e secondo la quale "le prescrizioni minime … in quanto applicabili alle attrezzature di lavoro in funzione non richiedono necessariamente le stesse misure dei requisiti essenziali applicabili alle attrezzature di lavoro nuove".
In tal modo si sancisce, infatti, una distinzione tra requisiti essenziali e requisiti minimi di sicurezza che, a ben vedere è nella realtà delle cose, e può (e deve) trovare, in assenza di specifici precedenti giurisprudenziali, una propria giustificazione nel rispetto dell'ordinamento giuridico vigente nella specifica materia. Infatti i "requisiti essenziali" applicabili alle attrezzature di lavoro sono previsti dalle direttive comunitarie di armonizzazione totale (ad es. per macchine, apparecchiature elettriche, ecc.) quale conditio sine qua non - nonché condizione necessaria e sufficiente (in tal modo superando tutte le diverse e contrastanti discipline nazionali) - della messa in commercio e messa in servizio di tali attrezzature, nel Mercato Unico europeo.
È opportuno, a questo riguardo, introdurre subito un chiarimento preliminare: ogni eventuale distinzione tra requisiti essenziali e requisiti minimi di sicurezza non può essere riferita ad attrezzature di lavoro cui siano applicabili, in tutto o in parte, le "direttive di prodotto".
Pertanto occorrerà, in primo luogo, verificare, per ogni attrezzatura di lavoro, se risulti o meno applicabile, in tutto o in parte, una (o più) direttive comunitarie.
Vale infatti, comunque, il principio generale che è enunciato chiaramente nella direttiva 89/655/CEE (nel punto non modificata dalla direttiva 95/63/CE) secondo il quale occorre, in via prioritaria, verificare se esistano "disposizioni di qualsiasi direttiva comunitaria applicabile al settore in questione" potendosi fare luogo alla applicazione dei requisiti minimi (di cui all'allegato I della Direttiva 89/655/CEE come modificata dalla Direttiva 95/63/CE) soltanto quando "nessun altra direttiva comunitaria sia applicabile ovvero lo sia solo parzialmente" (v. art. 4 della Direttiva 89/655/CEE).
Questo chiarissimo principio generale - peraltro indicativo del criterio sistematico e delle scelte complessivamente adottate dal legislatore comunitario in materia di sicurezza delle attrezzature di lavoro - è stato trasposto in modo riduttivo e confuso nell'art. 3, comma 3 del D.Lgs. 359/99 con riferimento soltanto alle attrezzature di cui all'All. XV in quanto "non soggette a norme nazionali di attuazione di direttive comunitarie concernenti disposizioni di carattere costruttivo".
Tuttavia quest'ultima disposizione non può che essere interpretata "alla luce" della direttiva comunitaria da cui essa deriva, in quanto la giurisprudenza della Corte di Giustizia ha sempre affermato che ogni disposizione nazionale che traspone una direttiva comunitaria deve essere - "a prescindere dal fatto che si tratti di norma precedente o successiva alla direttiva" - interpretata "alla luce della lettera e dello scopo della direttiva, onde conseguire il risultato perseguito da quest'ultima…" (Sentenza della corte di Giustizia delle Comunità europee, 13 novembre 1990, in Causa c. 106/80).
Pertanto, indipendentemente dal carattere riduttivo e parziale della disposizione contenuta nell'art. 3, comma 3, del D.Lgs. 359/99, occorrerà ad esempio, per quanto riguarda le macchine, verificare se si tratti di prodotto al quale è applicabile, dal 21 settembre '96, la "direttiva macchine" ed il relativo decreto nazionale di attuazione - il D.P.R. 459/96 - dovendosi, in tal caso, applicare in toto la disciplina specifica, con riferimento anche, e principalmente, ai requisiti essenziali di sicurezza di cui all'all. I della suddetta direttiva e del relativo decreto di recepimento.
D'altra parte occorre verificare anche se non sussista una applicabilità parziale di una direttiva comunitaria alla "macchina" con la conseguenza, ad esempio, che, per macchine in circolazione dal '77, all'equipaggiamento elettrico della macchina medesima risulta comunque applicabile - dal 25 ottobre 1977 (data di recepimento con la L. 18.10.1977 della direttiva "Bassa tensione" 73/23/CEE) - la relativa disciplina comunitaria.
Analoghe conclusioni possono riguardare, mutatis mutandis, l'ipotesi di macchine alle quali, dal '91, risulti applicabile il D.Lgs. 277/91 (art. 46) applicativo, in materia di limiti di rumore, delle direttive comunitarie sui rischi derivanti dalla esposizione ad agenti chimici, fisici e biologici.
Soltanto nel caso in cui non risulti applicabile, né in tutto né in parte, alla "attrezzatura" in questione (per restare nell'esempio, la "macchina") alcuna direttiva comunitaria potrà farsi luogo, in modo dunque residuale, alla eventuale presa in considerazione delle disposizioni del D.Lgs. 359/99 e, pertanto, dei requisiti minimi non necessariamente coincidenti con i requisiti essenziali legislativamente previsti per le macchine "nuove" (da intendersi sempre come "macchine" messe in commercio e/o in servizio per la prima volta dal 21.09.96).
Risulta così fissata la premessa che mira a circoscrivere preliminarmente la sfera di applicazione delle prescrizioni minime del D.Lgs 359/99 rispetto alla sfera di applicazione di tutti i decreti e delle leggi che hanno trasposto nell'ordinamento italiano le numerosissime direttive comunitarie emanate a partire dagli anni '70.
Resta ancora da valutare quale possa essere, sul piano delle misure di sicurezza da attuare in concreto, la portata e l'efficacia della eventuale differenza tra "prescrizioni minime" e "requisiti essenziali" dal momento che le prime, in quanto applicabili alle attrezzature di lavoro "in funzione non richiedono necessariamente le stesse misure dei requisiti essenziali applicabili alle attrezzature di lavoro nuove".
Sul piano generale si può rilevare come la stessa previsione legislativa di una disciplina ad hoc, speciale e diversa rispetto alla disciplina generale, per le attrezzature "in funzione" può giustificare, con le dovute cautele, la previsione di "misure" di sicurezza speciali e diverse per le attrezzature medesime.
Tale giustificazione appare inoltre corroborata dalla circostanza che determinate misure di carattere tenico-progettuale possono essere prese in considerazione - non dal "datore di lavoro" utilizzatore bensì, tipicamente, dal produttore prima della immissione in commercio delle macchine "nuove". D'altra parte è lo stesso legislatore comunitario ad avere "legittimato", a certe condizioni, l'uso di macchine non necessariamente "nuove" tanto da emanare per queste ultime la disciplina ad hoc che è prevista dalle due direttive "particolari" 89/655/CEE e 95/63/CE. La ragion d'essere di queste ultime consiste, oltre che nella previsione di principi e misure organizzative e procedurali per la sicurezza nell'uso delle attrezzature di lavoro anche nella specifica e "speciale" disciplina delle misure di sicurezza che sono prescritte negli allegati tecnici alle direttive medesime per attrezzature di lavoro, cui non siano applicabili direttive comunitarie "di prodotto" o altre direttive "sociali".
In assenza, ovviamente, di precedenti giurisprudenziali si può ritenere che le eventuali differenziazioni tra "misure di sicurezza" applicabili, rispettivamente a macchine vecchie e macchine nuove siano destinate a riguardare (fatti salvi, naturalmente, anche sotto questo profilo, i "requisiti minimi" fissati negli allegati al D.Lgs. 359/99) e tutte le altre prescrizioni in materia ricavabili dall'ordinamento vigente - in modo caratteristico o, quantomeno, prevalente - le misure tecnico-progettuali che - per il principio generale dell'integrazione della sicurezza nella fase di progettazione - rientrano nella sfera di obblighi prevenzionali controllabili dal progettista e dal produttore della attrezzatura prima della immissione in commercio.
Per quanto riguarda, invece, le misure di sicurezza più tipicamente organizzative e procedurali si tratterà di verificare di volta in volta se, ed in che misura, sia giustificabile la differenza tra le misure applicabili, rispettivamente, a macchine "nuove" e "non nuove" (in quanto già in funzione) in modo che, comunque, risulti raggiunto un risultato di sicurezza "accettabile" alla luce delle situazioni in concreto esistenti in un determinato ambiente di lavoro.
In quest'ultimo caso, infatti, la sfera di potere e di controllo del datore di lavoro - per attrezzature di lavoro non disciplinate da direttive comunitarie - appare certamente diversa da quelle configurabile in rapporto alle specifiche misure tecnico-progettuali che appartengono tipicamente alla sfera di potere e di controllo del produttore (e del progettista) prima della immissione sul mercato.
Tuttavia anche sul piano delle misure strettamente tecniche sono configurabili obblighi di intervento del datore di lavoro sulle "attrezzature in uso" se è vero quanto segue:
- in base all'art. 2087 del Codice Civile il datore di lavoro deve adottare le "misure" che non soltanto secondo "la particolarità del lavoro" e l'"esperienza", ma anche secondo la "tecnica" possono risultare necessarie "a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del datore di lavoro".
- In base all'art. 4, comma 5, lett. b), D.Lgs. 626/94 il datore di lavoro deve aggiornare le misure di prevenzione anche "in relazione al grado di evoluzione della tecnica, della prevenzione e della protezione".

Peraltro a questi riferimenti legislativi deve aggiungersi il fattore "giurisprudenza" che ha più volte interpretato il contesto legislativo - e, quindi, anche il D.P.R. 547/55 - nel senso di un agganciamento dell'obbligo prevenzionale al progresso tecnologico.
Alla legislazione ed agli insegnamenti giurisprudenziali si aggiungono ora gli obblighi di adeguamento tecnico collegabili alle nuove "prescrizioni minime" generali e specifiche prescritte dal D.Lgs. 359/99.
Queste ultime, infatti, non possono, in quanto "minime" (nel senso già chiarito in precedenza alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia) che concorrere ad integrare ed accrescere i livelli di sicurezza esigibili sulla base di disposizioni previgenti, o anche successive, dell'ordinamento giuridico nazionale. La risultante normativa che deriva da tutti gli interventi legislativi nel settore delle "misure tecniche" applicabili a "macchine in uso" porta in definitiva a considerare come la differenza tra requisiti essenziali per le attrezzature di lavoro "nuove" e requisiti minimi per le attrezzature di lavoro "in uso" si riduca notevolmente in prospettiva quando ci si sposti dal piano di valutazione delle variabili tecnico-progettuali al piano di valutazione del risultato di sicurezza da garantire per tutte le attrezzature di lavoro comunque "messe a disposizione dei lavoratori".
Da rilevare, infine, sul piano generale, che l'introduzione dei nuovi obblighi previsti dal D.Lgs. 359/99 ha comportato la modifica non soltanto del titolo III del D.Lgs. 626/94 ma anche del regime sanzionatorio (art. 89 e 90) del decreto medesimo in corrispondenza alle ipotesi di violazione di alcuni dei nuovi obblighi (alcuni ma non tutti: v. art. 35, commi 4 bis, 4 ter e 4 quater, nonché art. 36 comma 8 ter; curiosamente è stato omesso, tra l'altro, il richiamo sanzionatorio all'art.35, comma 3, lett. c) bis, in tema di sistemi di comando).

Emanuele Pianese
Esperto Qualificato Centro Studi ed Esperienze - C.N.VV.F.

INTRODUZIONE
Da tanti anni ormai in Italia le centrali nucleari sono inattive, ma continua tuttavia l'uso di sostanze radioattive e macchine radiogene nell'industria, nella medicina, nella ricerca. L'impiego delle radiazioni in quest'ultimo settore è assai diffuso, in particolare per il prezioso, quasi insostituibile aiuto fornito da tanti isotopi radioattivi agli studiosi e ricercatori nel campo della biologia.
L'uso di sostanze radioattive avviene in modo sistematico e continuativo in alcuni laboratori, mentre in altri ha carattere sporadico; in linea di massima la maggior parte dei laboratori di ricerca, a prescindere dall'eventuale uso di preparati e sostanze radioattive, sono caratterizzati da una spiccata variabilità delle attività che vi si svolgono, nonché dei prodotti e degli strumenti che vi si impiegano. La mancanza di una situazione lavorativa routinaria può introdurre delle difficoltà nella completa individuazione delle fonti di rischio, nella determinazione della loro entità, nella definizione delle misure preventive e protettive necessarie per il conseguimento di un sufficiente grado di sicurezza, e ciò assume particolare gravità nel caso in cui sia presente radioattività.
La presente memoria illustra i criteri di progettazione antincendio per laboratori scientifici con riferimento a quelle attività che ricadono sotto il diretto controllo dell'autorità competente in materia (vigili del fuoco) e sono soggette agli adempimenti di prevenzione incendi previsti dal D.P.R. 37/98 [1,2] in quanto comprese nel punto 75 del D.M. 16.2.1982: si tratta di "istituti, laboratori, stabilimenti e reparti in cui si effettuano anche saltuariamente, ricerche scientifiche o attività industriali per le quali si impiegano isotopi radioattivi, apparecchi contenenti dette sostanze ed apparecchi generatori di radiazioni ionizzanti (art. 13 della Legge 31 dicembre 1962 n. 1860 e art. 102 del D.P.R. 13 febbraio 1964 n. 185)".
Vengono poi brevemente presentate, sempre con riferimento ai laboratori con presenza di radioisotopi, alcune elementari procedure di emergenza da adottare ed azioni da compiere nel caso in cui si verificasse l'evento incendio.

Adempimenti di prevenzione incendi
Il D.M. 16.2.1982 [3] elenca le n. 97 attività soggette al controllo dei vigili del fuoco e per le quali è obbligatorio il rispetto di criteri di prevenzione incendi ed il rilascio del certificato di prevenzione incendi (CPI); tra le 97 attività figurano anche attività riscontrabili in aree/laboratori scientifici e di ricerca e che comportano quindi la necessità per i responsabili dei laboratori di seguire le procedure dettate dal ricordato D.P.R. 37/98 [4].
Il rilascio del CPI avviene da parte del comando provinciale VV.F. competente per territorio in seguito al completamento di un iter tecnico-amministrativo. Tale iter comprende due fasi: la prima consiste nella redazione del progetto antincendio, predisposto da un tecnico abilitato, e nella sua approvazione da parte dell'autorità competente, mentre la seconda comprende la visita sopralluogo ad opera di ispettori antincendio per accertare la corretta realizzazione del progetto approvato.
Il progetto anticendi dovrà seguire la normativa specifica per l'attività in esame (normativa verticale), se esistente, la quale definisce in modo puntuale i requisiti richiesti; se tuttavia questa non c'è il progetto dovrà ispirarsi ai criteri generali di prevenzione incendi. L'obiettivo del progetto è in ogni caso quello di definire e conseguire un sufficiente grado di sicurezza contro gli incendi che si realizza mediante misure preventive, volte a ridurre la frequenza incidentale, e mediante misure protettive tendenti al contenimento della magnitudo degli eventi incidentali: un giusto equilibrio tra misure preventive e protettive consente il corretto raggiungimento di un sufficiente grado di sicurezza equivalente (fig. 1) [5,6,7]. Le misure preventive sono costituite da accorgimenti che evitino l'insorgenza dell'incendio (primariamente eliminazione di possibili fonti di innesco e limitazione del combustibile): in pratica occorre fare impianti elettrici a regola d'arte, limitare il carico d'incendio, definire aree a rischio specifico etc. La protezione può essere di tipo "passivo", che non richieda cioè una fonte di energia o un intervento esterno per espletare la sua funzione, ovvero di tipo "attivo".

Fig. 1: Prevenzione incendi e sicurezza equivalente

La protezione passiva si basa sulla scelta di idonee caratteristiche costruttive, opportuni materiali, corretti lay-out, corrette aperture di ventilazione: si tratta di effettuare la compartimentazione, definire le caratteristiche di resistenza al fuoco delle strutture, la reazione al fuoco dei materiali, provvedere alla limitazione del carico di incendio e alla corretta realizzazione degli impianti tecnologici.
La protezione attiva si basa sui sistemi di rivelazione d'incendio, sui sistemi di estinzione (automatici e manuali), sull'esistenza di squadre di emergenza e primo intervento, sull'esistenza dei piani di emergenza.

LABORATORI CON IMPIEGO DI RADIOISOTOPI
Il già citato D.M. 16.02.1982 [3] assoggetta agli adempimenti di prevenzione incendi una serie di attività comportanti l'uso o la dentenzione o lo stoccaggio o la manipolazione di sostanze radioattive; in particolare sono dedicati alla radioattività i punti 75,76,77,78,79,80. Di questi il punto 75 è costituito, come già detto, da istituti, laboratori, stabilimenti e reparti in cui si effettuano anche saltuariamente ricerche scientifiche o attività industriali per le quali si impiegano isotopi radioattivi, apparecchi contenenti dette sostanze ed apparecchi generatori di radiazioni ionizzanti, limitatamente a quelle attività per le quali si applica l'articolo 13 della legge 31 dicembre 1962 n. 1860 "Impiego pacifico dell'energia nucleare" o l'articolo 102 del D.P.R. 13 febbraio 1964 n. 185 "sicurezza degli impianti e protezione sanitaria dei lavoratori e delle popolazioni contro i pericoli delle radiazioni ionizzanti derivanti dall'impiego pacifico dell'energia nucleare" [8,9]. Più esplicitamente non rientrano nel punto 75 le attività in cui sono detenuti quantitativi di radioisotopi inferiori a quanto indicato in Tab. 1, né quelle attività in cui sono utilizzate macchine radiogene con tensione inferiore a 200 kV; non sono inoltre soggette ai controlli di prevenzione incendi "i gabinetti medici, i reparti ed ambulatori in genere ove si impieghino anche saltuariamente a scopo terapeutico, sostanze radioattive naturali o artificiali, apparecchi contenenti dette sostanze, apparecchi generatori di radiazioni ionizzanti e, a scopo diagnostico, sostanze radioattive naturali o artificiali autorizzati dal medico provinciale a norma dell'articolo 96 del D.P.R. 185/64" [10, 11].

Gruppi di sostanze Ci Bq
radioattive

I 1 x 10-3 3,7 x 107

II 1 x 10-2 3,7 x 108

III 0,1 3,7 x 109

IV 1 3,7 x 1010

Tab. 1: Quantitativi per gruppi di sostanze rientranti nel campo di applicazione dell'attività 75 del D.M. 16.02.1982

È bene innanzitutto riflettere sul motivo per cui la prevenzione incendi coinvolge anche le attività con presenza di radiazioni.
La presenza di sorgenti di radiazioni ionizzanti e la manipolazione di isotopi radioattivi di per sé non provocano un aumento della probabilità di insorgenza di un incendio, né d'altro canto la radioattività viene distrutta o modificata dal fuoco. La presenza di un incendio tuttavia può cambiare lo stato di una sostanza radioattiva e renderla più pericolosa in ragione del rischio di dispersione della sostanza stessa sotto forma di gas, aerosol o ceneri. Il fuoco inoltre in casi particolari può portare delle modificazioni nelle strutture di immagazzinamento delle materie fissili o nelle apparecchiature studiate per trattare o utilizzare queste materie, che a loro volta conducano ad un incidente di criticità.
I rischi dovuti alla radioattività possono essere ricondotti a due distinte situazioni:
- rischio di irradiazione esterna (esposizione esterna)
- rischio di contaminazione (esposizione interna)
In caso di più nuclidi aventi differente radiotossicità, ed elencati in differenti gruppi, la condizione di applicazione si verifica allorché la somma dei rapporti tra le quantità di radioattività di ciascun nuclide e la quantità limite fissata per ciascuno di essi sia uguale o superiore a 1.

La prima, in linea di massima meno preoccupante della seconda, si verifica in caso di danneggiamento o distruzione dell'involucro di una sorgente (difficilmente prodotto dall'incendio), con conseguente creazione di campi di radiazioni; in questo caso occorre tenersi a distanza dalla sorgente, servirsi eventualmente di schermi protettivi, limitare il tempo di esposizione.
La seconda è più grave ed è legata a:
- sversamento o proiezione di liquidi radioattivi
- dispersione di materie radioattive solide sotto forma di polveri o pastiglie
- contaminazione atmosferica prodotta da radioelementi in forma di aerosol, vapori, gas.

L'ultima circostanza non può mai essere completamente scongiurata in caso di coinvolgimento di sorgenti in un incendio. Il fatto che una materia sia radioattiva infatti, come già accennato non influisce sulle sue caratteristiche fisiche generali e cioè sul suo comportamento in occasione di un innalzamento anormale della temperatura come nel caso in cui venga coinvolta in un incendio. Di conseguenza, nel caso di un incendio questa materia, a seconda della sua forma fisica iniziale - solida, liquida o gassosa, - subirà normali trasformazioni vale a dire fusione, ebollizione, sublimazione, con formazione di prodotti di combustione radioattivi sotto forma di scorie, ceneri, polveri, aerosol, vapori o gas. Questi prodotti della combustione sono in generale più frazionati e meno densi della materia da cui hanno avuto origine, ed è più facile la loro dispersione. Ne consegue che, dato che la modificazione della forma fisica non porta nessun cambiamento alle caratteristiche di radioattività della sostanza, facilmente si produce contaminazione in caso di incendio e diventa più difficile il controllo del rischio radiologico.
L'incendio è in sintesi uno dei principali vettori dell'incidente radioattivo, in grado di amplificare in modo considerevole la portata spaziale e l'entità stessa del pericolo; l'assoggettamento delle attività con uso di radioisotopi ai controlli di prevenzione incendi appare, alla luce di quanto esposto, doveroso.
Diverso è il caso delle macchine radiogene (escludendo le macchine acceleratrici di alta energia in grado di produrre attivazione dei materiali); se ci limitiamo a considerare i tubi a raggi X occorre osservare che la loro presenza ed il loro uso non pone in essere alcun rischio di produzione o diffusione della contaminazione. Il loro eventuale conivolgimento in un incendio non crea pericoli di tipo radiologico, essendo certa, in mancanza di alimentazione elettrica alle macchine, l'assenza di radiazioni. L'assoggettamento previsto dall'attuale assetto normativo ai controlli di prevenzione incendi delle macchine a raggi X con tensione superiore a 200 kV, non è giustificabile dal punto di vista strettamente tecnico, ed appare pertanto incongruente; viceversa non sembra completamente giustificato l'esonero dal certificato di prevenzione incendi per le attività mediche di diagnostica o terapia in cui si faccia uso di sostanze radioattive naturali o artificiali.

CRITERI DI PROGETTO ANTINCENDIO
Per quanto riguarda i criteri di progetto antincendi dei laboratori va preliminarmente osservato che questi sono strettamente legati ai requisiti radioprotezionistici, per cui risulta talvolta arduo o comunque superfluo distinguere i due aspetti.
La tabella 2 riporta i criteri generali di radioprotezione delle zone di lavoro con riferimento alla disposizione delle zone di accesso, allo stato dei pavimenti e superfici di lavoro, alla tenuta ed ai sistemi di ventilazione.

Accessi Le zone a rischio più elevato in generale devono essere circondate da zone a rischio meno elevato in ordine decrescente. Le zone adiacenti una zona controllata, in particolare se questa presenta rischio di contaminazione, devono essere da essa separate materialmente in modo da rendere impossibile l'accesso diretto e non controllato di persone da una zona all'altra. Il locale di passaggio da una zona all'altra deve essere munito di mezzi di controllo della contaminazione individuale, di doccia di decontaminazione e di abbigliamento speciale.
Gli accessi diretti ad una zona controllata con pericolo di contaminazione utilizzati eccezionalmente per il passaggio di materiali, devono essere a tenuta di pressione, chiusi a chiave; gli stessi non devono essere aperti senza il consenso dell'esperto qualificato.

Pavimenti I pavimenti, le pareti e le superfici di lavoro devono essere ricoperti con rivestimenti resistenti ai reattivi e superfici chimici di cui è prevista l'utilizzazione; gli stessi non devono essere porosi, devono invece avere buona resistenza alle abrasioni e graffiature, devono essere facilmente decontaminabili con i mezzi ordinari normalmente usabili. Non devono in linea di massima essere usati materiali combustibili privi di adeguata classificazione di reazione al fuoco.

Tenuta I laboratori dove avvengono manipolazioni di materiali con radiotossicità molto elevata od elevata ed i locali adibiti a stoccaggio di materiali radioattivi devono avere le pareti e gli infissi con una resistenza e tenuta tali da impedire l'estensione verso l'esterno di una eventuale contaminazione. Le manipolazioni devono avvenire entro speciali spazi confinati (scatole a guanti) mantenuti in depressione e muniti di filtri assoluti.
Nel caso in cui i materiali radioattivi manipolati pongano in essere rischi di esposizione esterna oltre che di contaminazione, debbono essere utilizzati schermi di protezione o, se del caso le manipolazioni devono aver luogo a distanza mediante pinze o telemanipolatori.

Ventilazione La ventilazione delle zone dove avvengono manipolazioni di materiali radioattivi e dove esistono contaminanti radioattivi liberi deve essere tale da assicurare in ogni locale un rinnovo d'aria sufficiente per mantenere la contaminazione atmosferica compatibile con le zone alle quali detti locali appartengono. A titolo indicativo il rinnovo d'aria può arrivare fino a 5 ricambi ora in una zona sorvegliata mentre può superare la decina di ricambi ora nelle zone controllate con pericolo di contaminazione.
In generale le zone controllate, ad eccezione di casi particolari devono essere tenute in depressione permanente rispetto alle zone adiacenti e suddivise da queste da locali che permettano il mantenimento della depressione. I valori di depressione possono essere dell'ordine di alcuni millimetri di colonna d'acqua.
L'aria in uscita dalle zone sorvegliate può essere utilizzata per ventilare altri laboratori, previa idonea filtrazione, mentre l'aria in uscita dalle zone controllate, deve essere direttamente espulsa, previa filtrazione con filtri assoluti soggetti a periodico controllo.
Dove il lavoro tende a generare contaminazione dell'aria, si devono isolare le apparecchiature che ne sono la causa mediante pareti prefabbricate; dovrà anche essere applicata una griglia di aspirazione ad alto flusso sopra il punto dove è prevista la generazione della contaminazione, e l'aria in uscita deve essere filtrata con filtri assoluti.

Tab. 2: criteri generali di radioprotezione nelle zone di lavoro

Non esistono normative specifiche antincendio (norme verticali) per i laboratori con presenza di sostanze radioattive; ne discende che per la progettazione degli stessi occorre far riferimento ai criteri base generali della prevenzione incendi, in relazione ai rischi peculiari derivanti dalla radioattività.
Nel corso degli anni sessanta sono state emanate diverse CIRCOLARI del Ministero dell'Interno che dettano prescrizioni radioprotezionistiche e di prevenzione antincendio relativamente al trasporto di sostanze radioattive; alcune di esse [12] possono essere utilizzate per avere indicazioni di massima anche per installazioni fisse.
È evidente che la severità dei criteri di progetto adottati è commisurata all'entità della radioattività presente: infatti all'aumentare dei quantitativi di sostanze radioattive impiegate, detenute, manipolate, aumenta anche il rischio. A seconda dei quantitativi impiegati i laboratori possono essere distinti in varie classi, per le quali si definiscono criteri man mano più stringenti. In questa sede ci si limita ad esaminare i principali aspetti da considerare in un laboratorio di classe intermedia senza scendere in eccessivi dettagli; in casi specifici si deve peraltro considerare che le esigenze possono variare con la particolare natura dei materiali, con la radiotossicità dei nuclidi impiegati, nonché con la frequenza del lavoro.
È innanzitutto fondamentale delimitare le zone con presenza di radioattività: queste debbono costituire uno o più compartimenti di resistenza al fuoco adeguata al carico di incendio presente e possibilmente non inferiore a REI 120. A seconda dei rischi che presentano e della loro distribuzione in uno o più locali, una installazione può generalmente essere divisa in zone omogenee (una o più) differenziate secondo l'ordine crescente del rischio. Possiamo per semplicità riferirci al caso di un'unica zona. L'accesso al compartimento deve avvenire da apposito locale filtro che funga anche da spogliatoio; se il laboratorio è classificato come zona controllata, nello spogliatoio deve essere presente una barriera fisica per la separazione della zona "calda" da quella "fredda". In tale caso, nella zona calda, devono esser presenti oltre ad attrezzature per il controllo della contaminazione, lavandini ed eventualmente docce di decontaminazione, con scarichi separati collegati ai serbatoi per la raccolta dei rifiuti liquidi radioattivi.
È sempre opportuno, anche qualora il laboratorio non costituisca una zona controlla e non abbia pertanto necessariamente un accesso regolamentato come sopra specificato, che la porta di ingresso del laboratorio sia dotata di oblò per ispezionare l'interno senza necessariamente accedervi.
Per quanto riguarda gli aspetti antincendio dell'impianto di ventilazione si segnalano i seguenti requisiti:
- l'impianto deve prevedere l'arresto automatico in caso di incendio, comandato da rivelatori di fumo posti anche nelle condotte di estrazione;
- le condotte dell'aria ed in particolare quelle che servono le zone controllate devono essere dotate di serrande tagliafuoco ad azionamento automatico;
- i filtri devono essere incombustibili, ovvero dotati di prefiltro di protezione di tipo incombustibile; tale requisito è richiesto in modo particolare per i filtri assoluti sui condotti di estrazione delle zone controllate;
- le cappe di estrazione debbono poter essere azionabili anche dall'esterno delle zone controllate.
I laboratori dovranno essere decontaminabili; a tal fine le pareti ed i soffitti dovranno essere rivestiti con vernici decontaminabili, mentre i pavimenti dovranno essere in cemento lisciato ricoperti di fogli di spoknol (o analogo materiale quale linoleum, purché resistenti agli agenti e alle sostanze impiegate), saldati tra loro e raccordati senza spigoli vivi e risalenti in generale per un'altezza di 20 cm lungo le pareti.
Devono essere previste porte di emergenza per consentire in caso di assoluta necessità l'evacuazione rapida dell'edificio senza seguire il normale percorso di accesso.
Debbono esser presenti dispositivi automatici di rivelazione di incendio, dispositivi acustici e luminosi di allarme, idonei apparecchi portatili di estinzione (a CO2 ed a polvere).
Si deve tenere conto che in presenza di radioattività in caso di incendio, una serie di norme "classiche" nelle operazioni di spegnimento e/o di intervento devono essere modificate. In particolare occorre considerare che:
- è più importante la protezione del materiale radioattivo implicato che non la lotta contro l'estensione dell'incendio a locali con rischi convenzionali;
- l'uso dell'acqua deve essere ridotto al minimo per evitare l'estensione della contaminazione superficiale (ed in casi particolari il pericolo di criticità);
- è bene usare acqua nebulizzata per abbattere le polveri e la contaminazione;
- è preferibile usare estintori a CO2 ed a polvere;
- deve essere organizzata una zona per il controllo del personale di intervento e per provvedere alla decontaminazione;
- qualora sia previsto lo spegnimento con acqua, i pozzetti ed i serbatoi di raccolta degli scarichi radioattivi (docce, lavandini) devono essere dimensionati per poter contenere anche l'acqua antincendio.

CONCLUSIONI
I criteri di prevenzione incendi sopra illustrati non hanno la pretesa di costituire una guida tecnica in fase di progettazione completa di un laboratorio, ma possono fornire utili indicazioni nel caso di adeguamento di locali ad attività specifiche.
Nel settore della ricerca ove per forza di cose non si svolgono attività routinarie è particolarmente sentita la necessità di adattare in itinere le strutture disponibili alle esigenze contingenti che via via si presentano e che possono riguardare l'uso di particolari strumenti, macchine, sostanze, compresi i materiali radioattivi. In questa situazione di possibile continuo cambiamento è importante che vengano sempre rispettati i criteri generali di sicurezza: spesso infatti l'amplificazione di eventi incidentali di piccola entità è dovuta proprio alla mancanza di requisiti base dei locali, delle apparecchiature degli impianti; tutto ciò assume particolare rilevanza ove vi sia o vi possa essere presenza di radiazioni ionizzanti.
Attribuire la giusta considerazione alla prevenzione incendi consente di ridurre la frequenza degli incidenti e di limitarne la magnitudo delle conseguenze, mediante l'adozione di misure preventive e protettive di tipo attivo e passivo. È auspicabile che la definizione e l'adozione di dette misure di sicurezza avvenga in modo sistematico, sia in fase di progetto sia con successivi interventi di adeguamento che debbono accompagnare le mutate esigenze e condizioni di lavoro. Occorre a tal fine entrare nell'ottica di idee che "fare sicurezza" non significa solo operare da un punto di vista autorizzativo, formale, documentale, cartaceo, ma vuol dire innanzitutto rispettare la salvaguardia della salute dei lavoratori prevenendo i possibili eventi incidentali.

Bibliografia
[1] D.P.R. 37 del 12.01.1998 "Regolamento recante disciplina dei procedimenti relativi alla prevenzione incendi a norma dell'articolo 20 comma 8, della Legge 15.03.1997 n. 59"
[2] Lettera Circolare M.I. prot. N. P796/4101 sott. 72/E del 05.05.1998 "DP.R. 12.01.1998 n. 37 - Regolamento per la disciplina dei procedimenti relativi alla
prevenzione incendi - Chiarimenti applicativi"
[3] D.M. 82 del 16.02.1982 "Modificazioni del Decreto Ministeriale 27 settembre 1965 concernente la determinazione delle attività soggette alle visite di prevenzione incendi"
[4] E. Pianese, E. Ragno, E. Ragno "La nuova disciplina di prevenzione incendi" Bollettino della Prevenzione CEDIS n. 8 - 98
[5] R. Paciucci, E. Pianese, E. Ragno "Il rischio di incendio nelle aziende agricole" - Progetto Sicurezza n. 2/98
[6] S. Marinelli "La gestione della sicurezza antincendio" EPC 1998
[7] L. Corbo "Prevenzione incendi - Corso di sicurezza nelle costruzioni" ETAS Libri 1992
[8] Legge 31 dicembre 1962 n. 1860 Impiego pacifico dell'energia nucleare"
[9] D.P.R. 13 febbraio 1964 n. 185 "Sicurezza degli impianti e protezione civile-sanitaria dei lavoratori e delle popolazioni contro i pericoli delle radiazioni ionizzanti derivanti dall'impiego pacifico dell'energia nucleare"
[10] Lettera Circolare Ministero dell'Interno n. 36 del 11.12.1985 "Prevenzione incendi: chiarimenti interpretativi di vigenti disposizioni e pareri espressi dal Comitato centrale tecnico scientifico per la prevenzione incendi su questioni e problemi di prevenzione incendi".
[11] Lettera Circolare n. 1 MI.SA. (89) 1 prot. 922/4101 del 20/01/1989 "Decreto ministeriale 16 febbraio 1982 punto 75: Chiarimento - Istituti laboratori, stabilimenti e reparti in cui si effettuano anche saltuariamente ricerche scientifiche o attività industriali per le quali si impiegano isotopi radioattivi, apparecchi contenenti dette sostanze ed apparecchi generatori di radiazioni ionizzanti (art. 13 della legge 31.12.1962 n. 1860 e art. 102 del D.P.R. 13.2.1964 n. 185)
[12] Lettera Circolare Ministero dell'Interno n. 48 prot. 18669/24222 del 19.05.1965 "Trasporti stradali di materie fissili speciali e di materie radioattive - procedura per il rilascio delle autorizzazioni"
[13] E. Pianese "Metrologia delle radiazioni ionizzanti" Riv. Antincendio n. 1/99
[14] D.P.R. 27.04.1955 n. 547 "Norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro"

 



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