Requisiti
minimi di sicurezza delle attrezzature di lavoro
Antonio
Oddo
Roberto Petringa Nicolosi
Avvocati in Milano
Sono
ancora in molti a non conoscere od a sottovalutare la valenza
e le conseguenze di una disciplina in materia di sicurezza sul
lavoro che ha imposto obblighi di portata fondamentale che devono
essere adempiuti entro termini la cui scadenza in alcuni casi
si è già verificata ed, in altri casi, è
ormai prossima.
Il D.Lgs. 359/99 ha infatti attuato (con ritardo grave, per
le ragioni che si esporranno in seguito) nel nuovo ordinamento
giuridico la direttiva 89/655/CEE, come modificata dalla direttiva
95/63/CEE, in materia di "requisiti minimi di sicurezza
e di salute per l'uso delle attrezzature di lavoro".
Si tratta di una cosiddetta "direttiva particolare"
destinata a dare attuazione specifica e più rigorosa
ai principi generali che sono stati stabiliti per la sicurezza
sul lavoro dalla "direttiva quadro" 89/391/CEE i cui
contenuti sono stati trasposti e recepiti, com'è noto,
nel titolo I del D.Lgs. 626/94 come risulta dalle successive
integrazioni e modificazioni.
In altri termini il legislatore comunitario ha ritenuto, fin
dal '89, che, nella specifica materia costituita dalla "sicurezza
nell'uso delle attrezzature di lavoro" si richiede necessariamente
e specificamente (al pari di quanto è stato previsto,
ad esempio, per "i cantieri temporanei o mobili")
una disciplina ad hoc per rispondere in modo particolareggiato
ed articolato alle esigenze di sicurezza che contraddistinguono,
in ogni realtà lavorativa, il fondamentale momento dell'"uso"
di qualsiasi strumento di lavoro.
Il legislatore italiano si era in precedenza limitato con il
D.Lgs. 626/94 (artt. da 34 a 39), a recepire soltanto una parte
dei contenuti della direttiva particolare 89/655/CEE ed aveva,
tra l'altro, omesso di trasporre gran parte delle "prescrizioni
minime" di sicurezza che sono applicabili alle attrezzature
di lavoro "in uso" e che sono previste da una lunga
e precisa elencazione contenuta nell'allegato tecnico alla direttiva
89/655/CEE.
Quest'ultima, peraltro, avrebbe dovuto essere applicata, al
più tardi, dal 31 dicembre '96 in modo da assicurare
una completa disciplina dei requisiti di sicurezza esigibili
nei confronti di tutte le attrezzature di lavoro secondo una
regolamentazione modulata anche in rapporto alla applicabilità
o meno delle specifiche direttive comunitarie di prodotto (quali,
ad es., la "direttiva macchine", la "direttiva
bassa tensione", ecc.).
È importante, a questo riguardo, rilevare la portata
vastissima e praticamente omnicomprensiva dell'espressione "attrezzature
di lavoro" secondo la definizione dell'art. 2 della direttiva
89/655/CEE e dell'art. 34 del D.Lgs. 626/94 (e successive integrazioni
e modificazioni).
Agli effetti di questa disciplina, infatti, "si intendono
per attrezzature di lavoro": qualsiasi macchina, apparecchio,
utensile, o impianto destinato ad essere usato durante il lavoro".
Appare dunque evidente, a fronte di così gravi violazioni
del diritto comunitario in una materia destinata a costituire
un pilastro del "nuovo modello" di sicurezza sul lavoro,
le ragioni che hanno indotto la Commissione europea ad instaurare
una procedura di infrazione nei confronti dello Stato italiano
per il mancato recepimento della direttiva 89/655/CEE nella
parte riguardante i fondamentali requisiti minimi di sicurezza.
Da qui la necessità giuridica per il medesimo Stato italiano
di correre, pur tardivamente, ai ripari emanando il D.Lgs. 359/99
(pubblicato nella G.U. del 19.10.1999) che modifica ed integra
il Titolo III del D.Lgs. 626/94 e l'art.184 del D.P.R. 547/55,
in attuazione contestuale della direttiva 89/655/CEE e della
direttiva 95/63/CE nel frattempo intervenuta per approntare
modifiche ed integrazioni alla prima direttiva. I termini fissati
per l'adeguamento alle disposizioni del D.Lgs. 359/99 risultano
essere diversificati a seconda che si tratti di prescrizioni
minime generali applicabili alle attrezzature di lavoro (artt.
2 del D.Lgs. 359/99 in modifica ed integrazione dell'art. 35
del D.Lgs. 626/94) o di prescrizioni minime supplementari applicabili
ad attrezzature di lavoro specifiche (art. 3 del D.Lgs. 359/99
in modifica ed integrazione dell'art. 36 del D.Lgs. 626/94).
Con riferimento al termine di scadenza del 19 aprile 2000 conviene
rammentare brevemente che le specifiche prescrizioni tecniche
cui occorre adeguare le attrezzature di lavoro in uso riguardano
i "sistemi di comando" e la "disposizione"
delle attrezzature stesse, nonché tutta una serie di
altre misure di sicurezza per attrezzature di lavoro mobili,
semoventi o non semoventi ed, ancora, per attrezzature di lavoro
destinate a sollevare carichi.
Un cenno particolare merita invece il regime giuridico applicabile
alle "verifiche" di prima o successiva installazione
ed alle verifiche periodiche o eccezionali secondo le forme,
modalità e procedure previste dal decreto stesso anche
mediante rinvio alla specifica legislazione di settore. La disciplina
introdotta dal D.Lgs. 359/99 infatti, limita (v. art. 2, parte
finale) l'obbligo di "verifica" alle particolari attrezzature
di cui all'All. XIV del decreto stesso, mentre l'art. 4 bis
della direttiva 89/655/CEE (come modificata dalla direttiva
95/63/CE) non contiene alcuna limitazione prevedendo, al contrario
che "il datore di lavoro vigila affinché le attrezzature
di lavoro la cui sicurezza dipende dalle condizioni di installazione
sono sottoposte a una verifica
".
La scelta italiana di limitare il regime comunitario di "verifica"
soltanto alle "macchine" ed "apparecchiature"
ricomprese nell'elencazione di cui all'All. XIV (aggiunto al
D.Lgs. 626/94 per effetto delle integrazioni apportate dal D.Lgs.
359/99) appare arbitraria e contraddittoria per una serie di
motivi. In primo luogo il termine "attrezzature",
secondo la già rilevata definizione fornita dall'art.
34 del D.Lgs. 626/94, comprende non soltanto le "macchine"
e le "apparecchiature", menzionate nell'All. XIV ma
anche gli impianti, siano essi elettrici, a gas o di altro genere.
In secondo luogo appare evidente come, ad esempio, anche la
sicurezza di un impianto elettrico possa dipendere "dalle
condizioni di installazione".
Tant'è che lo stesso D.P.R. 547/55 prevede - ex art.
328 - una specifica disciplina delle "verifiche" che
avrebbe dovuto essere integrata e coordinata con le nuove prescrizioni
imposte dalle Direttive 89/655/CEE e 95/63/CE.
Quali conclusioni sono ricavabili a questo particolare riguardo
secondo il diritto comunitario applicabile a livello nazionale?
La risposta è semplice se si considera che, a certe condizioni,
le direttive comunitarie sono direttamente applicabili, indipendentemente
da omissioni o ritardi del legislatore nazionale, nei confronti
dello Stato inadempiente e di tutte le sue pubbliche amministrazioni
o funzioni.
Pertanto: gli obblighi di "verifiche delle attrezzature
di lavoro" potranno risultare esigibili secondo le prescrizioni
dell'art. 4 bis della Direttiva 89/655/CEE (come integrata dalla
direttiva 95/63/CE e, quindi, senza limitazioni relative a determinate
apparecchiature e/o impianti) nei confronti del "datore
di lavoro", dei dirigenti e dei preposti del settore pubblico
in rapporto ad ambienti di lavoro "pubblici".
Fin qui, dunque, le "prescrizioni minime generali",
applicabili a tutte le attrezzature di lavoro entro il termine
perentorio del 19 aprile 2000.
Un diverso termine è invece stabilito, secondo quanto
già anticipato, per l'adeguamento delle attrezzature
di lavoro ai requisiti indicati nell'All. XV in rapporto a "Prescrizioni
minime supplementari applicabili ad attrezzature di lavoro specifiche"
quali le attrezzature mobili, semoventi e non (tra cui i carrelli
elevatori) che possono creare rischi per le persone o che sono
adibite al sollevamento di carichi. Per tutte le prescrizioni
considerate dall'All. XV del D.Lgs. 359/99 (e corrispondenti
all'All. I parte 3 della Direttiva 89/655/CEE come modificata
dalla direttiva 95/63/CE) il termine risulta invece fissato
al 30 giugno 2001.
Di rilievo la circostanza, sulla quale si tornerà in
seguito, che "le prescrizioni minime
in quanto applicabili
alle attrezzature di lavoro in funzione non richiedono necessariamente
le stesse misure dei requisiti essenziali applicabili alle attrezzature
di lavoro nuove".
È evidente, pertanto, il disegno complessivo del legislatore
comunitario secondo il quale tutte le attrezzature di lavoro
"messe a disposizione dei lavoratori" devono rispondere
a precisi requisiti di sicurezza secondo un doppio regime che
consente di differenziare le attrezzature di lavoro "nuove"
rispetto a quelle già "in uso". Le prime ("nuove")
devono intendersi con riferimento ad attrezzature cui siano
applicabili (in tutto o in parte) le direttive comunitarie di
settore in rapporto alla sfera di applicazione ed all'entrata
in vigore dei relativi provvedimenti (ad es. per le macchine
la "direttiva macchine" a partire dal 21 settembre
'96, secondo l'ordinamento italiano) con tutto quanto ne consegue
in termini di conformità ai requisiti essenziali ed alla
marcatura CE.
Le seconde ("attrezzature" "già in uso")
devono invece essere adeguate ai requisiti minimi di sicurezza
che sono stati precisati negli allegati alle Direttive 89/655/CEE
e 95/63/CE.
Ne deriva che anche tutte le attrezzature di lavoro già
in funzione precedentemente all'applicabilità delle direttive
comunitarie (e non marcate CE) devono obbedire ad una propria
"legge" e, qualora necessario, devono essere adeguate
a precisi requisiti di sicurezza.
I ritardi accumulati dal legislatore italiano costringono ora
le imprese nazionali ad una problematica rincorsa all'adeguamento
tecnico e normativo di tutte le attrezzature di lavoro "in
uso" (presumibilmente più numerose di quelle "nuove"
con marcatura CE) entro termini che avrebbero potuto essere
larghi se fossero stati rispettati i termini transitori previsti
dalle direttive comunitarie fin dal '92, ma che diventano ora
assai stretti in rapporto al numero ed allo stato delle attrezzature
da adeguare a requisiti di sicurezza che, pur qualificati "minimi",
si possono considerare in molti casi piuttosto severi.
Per quanto riguarda il valore giuridico attribuibile all'espressione
"prescrizioni minime" la Corte di Giustizia delle
Comunità europee ha precisato - con sentenza del 17 dicembre
1998 nel procedimento C - 2/97 - che, sulla base di quanto istituzionalmente
previsto dall'art. 118 A del Trattato (divenuto ora, in seguito
a modifica, art. 137) tale espressione "significa che gli
Stati membri sono autorizzati ad adottare norme più rigorose
di quelle che sono oggetto dell'intervento comunitario
in quanto restano liberi di adottare misure per una maggiore
protezione delle condizioni di lavoro."
Da quanto sopra deriva, pertanto, che ove il D.Lgs. 359/99 dovesse
contenere disposizioni più severe - sul piano delle misure
tecniche per la sicurezza o, anche sul piano delle misure organizzative
e procedurali, rispetto a quelle contenute nelle Direttive comunitarie
89/655/CEE e 95/63/CE non si tratterebbe di "infrazione"
agli obblighi comunitari bensì di legittimo esercizio
di un potere liberamente esercitabile dal legislatore italiano.
Al contrario, qualora si dimostrasse che i "requisiti minimi"
di sicurezza contenuti nel D.Lgs. 359/99 sono in minor numero
o, anche meno rigorosi rispetto a quelli previsti dalle suddette
direttive comunitarie, lo Stato italiano potrebbe essere assoggettato
ad una nuova procedura di infrazione (dopo quella già
instaurata per il mancato recepimento delle direttive nel D.Lgs.
626/94 prima delle ultime modifiche) perché gli Stati
membri, agli effetti del diritto comunitario, restano liberi
di adottare "norme più rigorose" ma non di
adottare norme "meno rigorose".
La libertà degli Stati membri è esercitabile infatti
sul piano legislativo soltanto nel senso di una protezione dei
lavoratori "maggiore" rispetto a quella prevista dai
livelli normativi minimi fissati a livello comunitario.
Né si potrebbe validamente invocare sul piano giuridico
a titolo di doglianza da parte degli operatori economici nazionali
onerati di maggiori doveri prevenzionali la circostanza che
il termine di scadenza fissato dal legislatore italiano per
l'adeguamento normativo delle attrezzature di lavoro soggette
alle prescrizioni del p. 3 dell'All. I alla direttiva comunitaria
(corrispondente all'All. XV del D.Lgs. 359/99) è più
ravvicinato (30 giugno 2001) rispetto a quello previsto dalla
direttiva 95/63/CE (5 dicembre 2002).
Al riguardo infatti, la Corte di Giustizia, nella sentenza prima
indicata e con riferimento ad analogo problema, ha stabilito,
che il "termine
fissato dalla disposizione citata
contiene un termine massimo. Nulla impedisce agli Stati membri
di anticipare l'applicazione degli obblighi previsti nella direttiva
per le attrezzature di lavoro esistenti".
Particolare interesse riveste, infine, la già rilevata
"osservazione preliminare" contenuta nella Direttiva
89/655/CEE come modificata dalla direttiva 95/63/CE e secondo
la quale "le prescrizioni minime
in quanto applicabili
alle attrezzature di lavoro in funzione non richiedono necessariamente
le stesse misure dei requisiti essenziali applicabili alle attrezzature
di lavoro nuove".
In tal modo si sancisce, infatti, una distinzione tra requisiti
essenziali e requisiti minimi di sicurezza che, a ben vedere
è nella realtà delle cose, e può (e deve)
trovare, in assenza di specifici precedenti giurisprudenziali,
una propria giustificazione nel rispetto dell'ordinamento giuridico
vigente nella specifica materia. Infatti i "requisiti essenziali"
applicabili alle attrezzature di lavoro sono previsti dalle
direttive comunitarie di armonizzazione totale (ad es. per macchine,
apparecchiature elettriche, ecc.) quale conditio sine qua non
- nonché condizione necessaria e sufficiente (in tal
modo superando tutte le diverse e contrastanti discipline nazionali)
- della messa in commercio e messa in servizio di tali attrezzature,
nel Mercato Unico europeo.
È opportuno, a questo riguardo, introdurre subito un
chiarimento preliminare: ogni eventuale distinzione tra requisiti
essenziali e requisiti minimi di sicurezza non può essere
riferita ad attrezzature di lavoro cui siano applicabili, in
tutto o in parte, le "direttive di prodotto".
Pertanto occorrerà, in primo luogo, verificare, per ogni
attrezzatura di lavoro, se risulti o meno applicabile, in tutto
o in parte, una (o più) direttive comunitarie.
Vale infatti, comunque, il principio generale che è enunciato
chiaramente nella direttiva 89/655/CEE (nel punto non modificata
dalla direttiva 95/63/CE) secondo il quale occorre, in via prioritaria,
verificare se esistano "disposizioni di qualsiasi direttiva
comunitaria applicabile al settore in questione" potendosi
fare luogo alla applicazione dei requisiti minimi (di cui all'allegato
I della Direttiva 89/655/CEE come modificata dalla Direttiva
95/63/CE) soltanto quando "nessun altra direttiva comunitaria
sia applicabile ovvero lo sia solo parzialmente" (v. art.
4 della Direttiva 89/655/CEE).
Questo chiarissimo principio generale - peraltro indicativo
del criterio sistematico e delle scelte complessivamente adottate
dal legislatore comunitario in materia di sicurezza delle attrezzature
di lavoro - è stato trasposto in modo riduttivo e confuso
nell'art. 3, comma 3 del D.Lgs. 359/99 con riferimento soltanto
alle attrezzature di cui all'All. XV in quanto "non soggette
a norme nazionali di attuazione di direttive comunitarie concernenti
disposizioni di carattere costruttivo".
Tuttavia quest'ultima disposizione non può che essere
interpretata "alla luce" della direttiva comunitaria
da cui essa deriva, in quanto la giurisprudenza della Corte
di Giustizia ha sempre affermato che ogni disposizione nazionale
che traspone una direttiva comunitaria deve essere - "a
prescindere dal fatto che si tratti di norma precedente o successiva
alla direttiva" - interpretata "alla luce della lettera
e dello scopo della direttiva, onde conseguire il risultato
perseguito da quest'ultima
" (Sentenza della corte
di Giustizia delle Comunità europee, 13 novembre 1990,
in Causa c. 106/80).
Pertanto, indipendentemente dal carattere riduttivo e parziale
della disposizione contenuta nell'art. 3, comma 3, del D.Lgs.
359/99, occorrerà ad esempio, per quanto riguarda le
macchine, verificare se si tratti di prodotto al quale è
applicabile, dal 21 settembre '96, la "direttiva macchine"
ed il relativo decreto nazionale di attuazione - il D.P.R. 459/96
- dovendosi, in tal caso, applicare in toto la disciplina specifica,
con riferimento anche, e principalmente, ai requisiti essenziali
di sicurezza di cui all'all. I della suddetta direttiva e del
relativo decreto di recepimento.
D'altra parte occorre verificare anche se non sussista una applicabilità
parziale di una direttiva comunitaria alla "macchina"
con la conseguenza, ad esempio, che, per macchine in circolazione
dal '77, all'equipaggiamento elettrico della macchina medesima
risulta comunque applicabile - dal 25 ottobre 1977 (data di
recepimento con la L. 18.10.1977 della direttiva "Bassa
tensione" 73/23/CEE) - la relativa disciplina comunitaria.
Analoghe conclusioni possono riguardare, mutatis mutandis, l'ipotesi
di macchine alle quali, dal '91, risulti applicabile il D.Lgs.
277/91 (art. 46) applicativo, in materia di limiti di rumore,
delle direttive comunitarie sui rischi derivanti dalla esposizione
ad agenti chimici, fisici e biologici.
Soltanto nel caso in cui non risulti applicabile, né
in tutto né in parte, alla "attrezzatura" in
questione (per restare nell'esempio, la "macchina")
alcuna direttiva comunitaria potrà farsi luogo, in modo
dunque residuale, alla eventuale presa in considerazione delle
disposizioni del D.Lgs. 359/99 e, pertanto, dei requisiti minimi
non necessariamente coincidenti con i requisiti essenziali legislativamente
previsti per le macchine "nuove" (da intendersi sempre
come "macchine" messe in commercio e/o in servizio
per la prima volta dal 21.09.96).
Risulta così fissata la premessa che mira a circoscrivere
preliminarmente la sfera di applicazione delle prescrizioni
minime del D.Lgs 359/99 rispetto alla sfera di applicazione
di tutti i decreti e delle leggi che hanno trasposto nell'ordinamento
italiano le numerosissime direttive comunitarie emanate a partire
dagli anni '70.
Resta ancora da valutare quale possa essere, sul piano delle
misure di sicurezza da attuare in concreto, la portata e l'efficacia
della eventuale differenza tra "prescrizioni minime"
e "requisiti essenziali" dal momento che le prime,
in quanto applicabili alle attrezzature di lavoro "in funzione
non richiedono necessariamente le stesse misure dei requisiti
essenziali applicabili alle attrezzature di lavoro nuove".
Sul piano generale si può rilevare come la stessa previsione
legislativa di una disciplina ad hoc, speciale e diversa rispetto
alla disciplina generale, per le attrezzature "in funzione"
può giustificare, con le dovute cautele, la previsione
di "misure" di sicurezza speciali e diverse per le
attrezzature medesime.
Tale giustificazione appare inoltre corroborata dalla circostanza
che determinate misure di carattere tenico-progettuale possono
essere prese in considerazione - non dal "datore di lavoro"
utilizzatore bensì, tipicamente, dal produttore prima
della immissione in commercio delle macchine "nuove".
D'altra parte è lo stesso legislatore comunitario ad
avere "legittimato", a certe condizioni, l'uso di
macchine non necessariamente "nuove" tanto da emanare
per queste ultime la disciplina ad hoc che è prevista
dalle due direttive "particolari" 89/655/CEE e 95/63/CE.
La ragion d'essere di queste ultime consiste, oltre che nella
previsione di principi e misure organizzative e procedurali
per la sicurezza nell'uso delle attrezzature di lavoro anche
nella specifica e "speciale" disciplina delle misure
di sicurezza che sono prescritte negli allegati tecnici alle
direttive medesime per attrezzature di lavoro, cui non siano
applicabili direttive comunitarie "di prodotto" o
altre direttive "sociali".
In assenza, ovviamente, di precedenti giurisprudenziali si può
ritenere che le eventuali differenziazioni tra "misure
di sicurezza" applicabili, rispettivamente a macchine vecchie
e macchine nuove siano destinate a riguardare (fatti salvi,
naturalmente, anche sotto questo profilo, i "requisiti
minimi" fissati negli allegati al D.Lgs. 359/99) e tutte
le altre prescrizioni in materia ricavabili dall'ordinamento
vigente - in modo caratteristico o, quantomeno, prevalente -
le misure tecnico-progettuali che - per il principio generale
dell'integrazione della sicurezza nella fase di progettazione
- rientrano nella sfera di obblighi prevenzionali controllabili
dal progettista e dal produttore della attrezzatura prima della
immissione in commercio.
Per quanto riguarda, invece, le misure di sicurezza più
tipicamente organizzative e procedurali si tratterà di
verificare di volta in volta se, ed in che misura, sia giustificabile
la differenza tra le misure applicabili, rispettivamente, a
macchine "nuove" e "non nuove" (in quanto
già in funzione) in modo che, comunque, risulti raggiunto
un risultato di sicurezza "accettabile" alla luce
delle situazioni in concreto esistenti in un determinato ambiente
di lavoro.
In quest'ultimo caso, infatti, la sfera di potere e di controllo
del datore di lavoro - per attrezzature di lavoro non disciplinate
da direttive comunitarie - appare certamente diversa da quelle
configurabile in rapporto alle specifiche misure tecnico-progettuali
che appartengono tipicamente alla sfera di potere e di controllo
del produttore (e del progettista) prima della immissione sul
mercato.
Tuttavia anche sul piano delle misure strettamente tecniche
sono configurabili obblighi di intervento del datore di lavoro
sulle "attrezzature in uso" se è vero quanto
segue:
- in base all'art. 2087 del Codice Civile il datore di lavoro
deve adottare le "misure" che non soltanto secondo
"la particolarità del lavoro" e l'"esperienza",
ma anche secondo la "tecnica" possono risultare necessarie
"a tutelare l'integrità fisica e la personalità
morale del datore di lavoro".
- In base all'art. 4, comma 5, lett. b), D.Lgs. 626/94 il datore
di lavoro deve aggiornare le misure di prevenzione anche "in
relazione al grado di evoluzione della tecnica, della prevenzione
e della protezione".
Peraltro
a questi riferimenti legislativi deve aggiungersi il fattore
"giurisprudenza" che ha più volte interpretato
il contesto legislativo - e, quindi, anche il D.P.R. 547/55
- nel senso di un agganciamento dell'obbligo prevenzionale al
progresso tecnologico.
Alla legislazione ed agli insegnamenti giurisprudenziali si
aggiungono ora gli obblighi di adeguamento tecnico collegabili
alle nuove "prescrizioni minime" generali e specifiche
prescritte dal D.Lgs. 359/99.
Queste ultime, infatti, non possono, in quanto "minime"
(nel senso già chiarito in precedenza alla luce della
giurisprudenza della Corte di Giustizia) che concorrere ad integrare
ed accrescere i livelli di sicurezza esigibili sulla base di
disposizioni previgenti, o anche successive, dell'ordinamento
giuridico nazionale. La risultante normativa che deriva da tutti
gli interventi legislativi nel settore delle "misure tecniche"
applicabili a "macchine in uso" porta in definitiva
a considerare come la differenza tra requisiti essenziali per
le attrezzature di lavoro "nuove" e requisiti minimi
per le attrezzature di lavoro "in uso" si riduca notevolmente
in prospettiva quando ci si sposti dal piano di valutazione
delle variabili tecnico-progettuali al piano di valutazione
del risultato di sicurezza da garantire per tutte le attrezzature
di lavoro comunque "messe a disposizione dei lavoratori".
Da rilevare, infine, sul piano generale, che l'introduzione
dei nuovi obblighi previsti dal D.Lgs. 359/99 ha comportato
la modifica non soltanto del titolo III del D.Lgs. 626/94 ma
anche del regime sanzionatorio (art. 89 e 90) del decreto medesimo
in corrispondenza alle ipotesi di violazione di alcuni dei nuovi
obblighi (alcuni ma non tutti: v. art. 35, commi 4 bis, 4 ter
e 4 quater, nonché art. 36 comma 8 ter; curiosamente
è stato omesso, tra l'altro, il richiamo sanzionatorio
all'art.35, comma 3, lett. c) bis, in tema di sistemi di comando).
Emanuele
Pianese
Esperto Qualificato Centro Studi ed Esperienze - C.N.VV.F.
INTRODUZIONE
Da tanti anni ormai in Italia le centrali nucleari sono inattive,
ma continua tuttavia l'uso di sostanze radioattive e macchine
radiogene nell'industria, nella medicina, nella ricerca. L'impiego
delle radiazioni in quest'ultimo settore è assai diffuso,
in particolare per il prezioso, quasi insostituibile aiuto fornito
da tanti isotopi radioattivi agli studiosi e ricercatori nel
campo della biologia.
L'uso di sostanze radioattive avviene in modo sistematico e
continuativo in alcuni laboratori, mentre in altri ha carattere
sporadico; in linea di massima la maggior parte dei laboratori
di ricerca, a prescindere dall'eventuale uso di preparati e
sostanze radioattive, sono caratterizzati da una spiccata variabilità
delle attività che vi si svolgono, nonché dei
prodotti e degli strumenti che vi si impiegano. La mancanza
di una situazione lavorativa routinaria può introdurre
delle difficoltà nella completa individuazione delle
fonti di rischio, nella determinazione della loro entità,
nella definizione delle misure preventive e protettive necessarie
per il conseguimento di un sufficiente grado di sicurezza, e
ciò assume particolare gravità nel caso in cui
sia presente radioattività.
La presente memoria illustra i criteri di progettazione antincendio
per laboratori scientifici con riferimento a quelle attività
che ricadono sotto il diretto controllo dell'autorità
competente in materia (vigili del fuoco) e sono soggette agli
adempimenti di prevenzione incendi previsti dal D.P.R. 37/98
[1,2] in quanto comprese nel punto 75 del D.M. 16.2.1982: si
tratta di "istituti, laboratori, stabilimenti e reparti
in cui si effettuano anche saltuariamente, ricerche scientifiche
o attività industriali per le quali si impiegano isotopi
radioattivi, apparecchi contenenti dette sostanze ed apparecchi
generatori di radiazioni ionizzanti (art. 13 della Legge 31
dicembre 1962 n. 1860 e art. 102 del D.P.R. 13 febbraio 1964
n. 185)".
Vengono poi brevemente presentate, sempre con riferimento ai
laboratori con presenza di radioisotopi, alcune elementari procedure
di emergenza da adottare ed azioni da compiere nel caso in cui
si verificasse l'evento incendio.
Adempimenti
di prevenzione incendi
Il D.M. 16.2.1982 [3] elenca le n. 97 attività soggette
al controllo dei vigili del fuoco e per le quali è obbligatorio
il rispetto di criteri di prevenzione incendi ed il rilascio
del certificato di prevenzione incendi (CPI); tra le 97 attività
figurano anche attività riscontrabili in aree/laboratori
scientifici e di ricerca e che comportano quindi la necessità
per i responsabili dei laboratori di seguire le procedure dettate
dal ricordato D.P.R. 37/98 [4].
Il rilascio del CPI avviene da parte del comando provinciale
VV.F. competente per territorio in seguito al completamento
di un iter tecnico-amministrativo. Tale iter comprende due fasi:
la prima consiste nella redazione del progetto antincendio,
predisposto da un tecnico abilitato, e nella sua approvazione
da parte dell'autorità competente, mentre la seconda
comprende la visita sopralluogo ad opera di ispettori antincendio
per accertare la corretta realizzazione del progetto approvato.
Il progetto anticendi dovrà seguire la normativa specifica
per l'attività in esame (normativa verticale), se esistente,
la quale definisce in modo puntuale i requisiti richiesti; se
tuttavia questa non c'è il progetto dovrà ispirarsi
ai criteri generali di prevenzione incendi. L'obiettivo del
progetto è in ogni caso quello di definire e conseguire
un sufficiente grado di sicurezza contro gli incendi che si
realizza mediante misure preventive, volte a ridurre la frequenza
incidentale, e mediante misure protettive tendenti al contenimento
della magnitudo degli eventi incidentali: un giusto equilibrio
tra misure preventive e protettive consente il corretto raggiungimento
di un sufficiente grado di sicurezza equivalente (fig. 1) [5,6,7].
Le misure preventive sono costituite da accorgimenti che evitino
l'insorgenza dell'incendio (primariamente eliminazione di possibili
fonti di innesco e limitazione del combustibile): in pratica
occorre fare impianti elettrici a regola d'arte, limitare il
carico d'incendio, definire aree a rischio specifico etc. La
protezione può essere di tipo "passivo", che
non richieda cioè una fonte di energia o un intervento
esterno per espletare la sua funzione, ovvero di tipo "attivo".
Fig.
1: Prevenzione incendi e sicurezza equivalente
La
protezione passiva si basa sulla scelta di idonee caratteristiche
costruttive, opportuni materiali, corretti lay-out, corrette
aperture di ventilazione: si tratta di effettuare la compartimentazione,
definire le caratteristiche di resistenza al fuoco delle strutture,
la reazione al fuoco dei materiali, provvedere alla limitazione
del carico di incendio e alla corretta realizzazione degli impianti
tecnologici.
La protezione attiva si basa sui sistemi di rivelazione d'incendio,
sui sistemi di estinzione (automatici e manuali), sull'esistenza
di squadre di emergenza e primo intervento, sull'esistenza dei
piani di emergenza.
LABORATORI
CON IMPIEGO DI RADIOISOTOPI
Il già citato D.M. 16.02.1982 [3] assoggetta agli adempimenti
di prevenzione incendi una serie di attività comportanti
l'uso o la dentenzione o lo stoccaggio o la manipolazione di
sostanze radioattive; in particolare sono dedicati alla radioattività
i punti 75,76,77,78,79,80. Di questi il punto 75 è costituito,
come già detto, da istituti, laboratori, stabilimenti
e reparti in cui si effettuano anche saltuariamente ricerche
scientifiche o attività industriali per le quali si impiegano
isotopi radioattivi, apparecchi contenenti dette sostanze ed
apparecchi generatori di radiazioni ionizzanti, limitatamente
a quelle attività per le quali si applica l'articolo
13 della legge 31 dicembre 1962 n. 1860 "Impiego pacifico
dell'energia nucleare" o l'articolo 102 del D.P.R. 13 febbraio
1964 n. 185 "sicurezza degli impianti e protezione sanitaria
dei lavoratori e delle popolazioni contro i pericoli delle radiazioni
ionizzanti derivanti dall'impiego pacifico dell'energia nucleare"
[8,9]. Più esplicitamente non rientrano nel punto 75
le attività in cui sono detenuti quantitativi di radioisotopi
inferiori a quanto indicato in Tab. 1, né quelle attività
in cui sono utilizzate macchine radiogene con tensione inferiore
a 200 kV; non sono inoltre soggette ai controlli di prevenzione
incendi "i gabinetti medici, i reparti ed ambulatori in
genere ove si impieghino anche saltuariamente a scopo terapeutico,
sostanze radioattive naturali o artificiali, apparecchi contenenti
dette sostanze, apparecchi generatori di radiazioni ionizzanti
e, a scopo diagnostico, sostanze radioattive naturali o artificiali
autorizzati dal medico provinciale a norma dell'articolo 96
del D.P.R. 185/64" [10, 11].
Gruppi di sostanze Ci Bq
radioattive
I 1 x 10-3 3,7 x 107
II 1 x 10-2 3,7 x 108
III 0,1 3,7 x 109
IV 1 3,7 x 1010
Tab.
1: Quantitativi per gruppi di sostanze rientranti nel campo
di applicazione dell'attività 75 del D.M. 16.02.1982
È
bene innanzitutto riflettere sul motivo per cui la prevenzione
incendi coinvolge anche le attività con presenza di radiazioni.
La presenza di sorgenti di radiazioni ionizzanti e la manipolazione
di isotopi radioattivi di per sé non provocano un aumento
della probabilità di insorgenza di un incendio, né
d'altro canto la radioattività viene distrutta o modificata
dal fuoco. La presenza di un incendio tuttavia può cambiare
lo stato di una sostanza radioattiva e renderla più pericolosa
in ragione del rischio di dispersione della sostanza stessa
sotto forma di gas, aerosol o ceneri. Il fuoco inoltre in casi
particolari può portare delle modificazioni nelle strutture
di immagazzinamento delle materie fissili o nelle apparecchiature
studiate per trattare o utilizzare queste materie, che a loro
volta conducano ad un incidente di criticità.
I rischi dovuti alla radioattività possono essere ricondotti
a due distinte situazioni:
- rischio di irradiazione esterna (esposizione esterna)
- rischio di contaminazione (esposizione interna)
In caso di più nuclidi aventi differente radiotossicità,
ed elencati in differenti gruppi, la condizione di applicazione
si verifica allorché la somma dei rapporti tra le quantità
di radioattività di ciascun nuclide e la quantità
limite fissata per ciascuno di essi sia uguale o superiore a
1.
La
prima, in linea di massima meno preoccupante della seconda,
si verifica in caso di danneggiamento o distruzione dell'involucro
di una sorgente (difficilmente prodotto dall'incendio), con
conseguente creazione di campi di radiazioni; in questo caso
occorre tenersi a distanza dalla sorgente, servirsi eventualmente
di schermi protettivi, limitare il tempo di esposizione.
La seconda è più grave ed è legata a:
- sversamento o proiezione di liquidi radioattivi
- dispersione di materie radioattive solide sotto forma di polveri
o pastiglie
- contaminazione atmosferica prodotta da radioelementi in forma
di aerosol, vapori, gas.
L'ultima
circostanza non può mai essere completamente scongiurata
in caso di coinvolgimento di sorgenti in un incendio. Il fatto
che una materia sia radioattiva infatti, come già accennato
non influisce sulle sue caratteristiche fisiche generali e cioè
sul suo comportamento in occasione di un innalzamento anormale
della temperatura come nel caso in cui venga coinvolta in un
incendio. Di conseguenza, nel caso di un incendio questa materia,
a seconda della sua forma fisica iniziale - solida, liquida
o gassosa, - subirà normali trasformazioni vale a dire
fusione, ebollizione, sublimazione, con formazione di prodotti
di combustione radioattivi sotto forma di scorie, ceneri, polveri,
aerosol, vapori o gas. Questi prodotti della combustione sono
in generale più frazionati e meno densi della materia
da cui hanno avuto origine, ed è più facile la
loro dispersione. Ne consegue che, dato che la modificazione
della forma fisica non porta nessun cambiamento alle caratteristiche
di radioattività della sostanza, facilmente si produce
contaminazione in caso di incendio e diventa più difficile
il controllo del rischio radiologico.
L'incendio è in sintesi uno dei principali vettori dell'incidente
radioattivo, in grado di amplificare in modo considerevole la
portata spaziale e l'entità stessa del pericolo; l'assoggettamento
delle attività con uso di radioisotopi ai controlli di
prevenzione incendi appare, alla luce di quanto esposto, doveroso.
Diverso è il caso delle macchine radiogene (escludendo
le macchine acceleratrici di alta energia in grado di produrre
attivazione dei materiali); se ci limitiamo a considerare i
tubi a raggi X occorre osservare che la loro presenza ed il
loro uso non pone in essere alcun rischio di produzione o diffusione
della contaminazione. Il loro eventuale conivolgimento in un
incendio non crea pericoli di tipo radiologico, essendo certa,
in mancanza di alimentazione elettrica alle macchine, l'assenza
di radiazioni. L'assoggettamento previsto dall'attuale assetto
normativo ai controlli di prevenzione incendi delle macchine
a raggi X con tensione superiore a 200 kV, non è giustificabile
dal punto di vista strettamente tecnico, ed appare pertanto
incongruente; viceversa non sembra completamente giustificato
l'esonero dal certificato di prevenzione incendi per le attività
mediche di diagnostica o terapia in cui si faccia uso di sostanze
radioattive naturali o artificiali.
CRITERI
DI PROGETTO ANTINCENDIO
Per quanto riguarda i criteri di progetto antincendi dei laboratori
va preliminarmente osservato che questi sono strettamente legati
ai requisiti radioprotezionistici, per cui risulta talvolta
arduo o comunque superfluo distinguere i due aspetti.
La tabella 2 riporta i criteri generali di radioprotezione delle
zone di lavoro con riferimento alla disposizione delle zone
di accesso, allo stato dei pavimenti e superfici di lavoro,
alla tenuta ed ai sistemi di ventilazione.
Accessi Le zone a rischio più elevato in generale devono
essere circondate da zone a rischio meno elevato in ordine decrescente.
Le zone adiacenti una zona controllata, in particolare se questa
presenta rischio di contaminazione, devono essere da essa separate
materialmente in modo da rendere impossibile l'accesso diretto
e non controllato di persone da una zona all'altra. Il locale
di passaggio da una zona all'altra deve essere munito di mezzi
di controllo della contaminazione individuale, di doccia di
decontaminazione e di abbigliamento speciale.
Gli accessi diretti ad una zona controllata con pericolo di
contaminazione utilizzati eccezionalmente per il passaggio di
materiali, devono essere a tenuta di pressione, chiusi a chiave;
gli stessi non devono essere aperti senza il consenso dell'esperto
qualificato.
Pavimenti I pavimenti, le pareti e le superfici di lavoro devono
essere ricoperti con rivestimenti resistenti ai reattivi e superfici
chimici di cui è prevista l'utilizzazione; gli stessi
non devono essere porosi, devono invece avere buona resistenza
alle abrasioni e graffiature, devono essere facilmente decontaminabili
con i mezzi ordinari normalmente usabili. Non devono in linea
di massima essere usati materiali combustibili privi di adeguata
classificazione di reazione al fuoco.
Tenuta I laboratori dove avvengono manipolazioni di materiali
con radiotossicità molto elevata od elevata ed i locali
adibiti a stoccaggio di materiali radioattivi devono avere le
pareti e gli infissi con una resistenza e tenuta tali da impedire
l'estensione verso l'esterno di una eventuale contaminazione.
Le manipolazioni devono avvenire entro speciali spazi confinati
(scatole a guanti) mantenuti in depressione e muniti di filtri
assoluti.
Nel caso in cui i materiali radioattivi manipolati pongano in
essere rischi di esposizione esterna oltre che di contaminazione,
debbono essere utilizzati schermi di protezione o, se del caso
le manipolazioni devono aver luogo a distanza mediante pinze
o telemanipolatori.
Ventilazione La ventilazione delle zone dove avvengono manipolazioni
di materiali radioattivi e dove esistono contaminanti radioattivi
liberi deve essere tale da assicurare in ogni locale un rinnovo
d'aria sufficiente per mantenere la contaminazione atmosferica
compatibile con le zone alle quali detti locali appartengono.
A titolo indicativo il rinnovo d'aria può arrivare fino
a 5 ricambi ora in una zona sorvegliata mentre può superare
la decina di ricambi ora nelle zone controllate con pericolo
di contaminazione.
In generale le zone controllate, ad eccezione di casi particolari
devono essere tenute in depressione permanente rispetto alle
zone adiacenti e suddivise da queste da locali che permettano
il mantenimento della depressione. I valori di depressione possono
essere dell'ordine di alcuni millimetri di colonna d'acqua.
L'aria in uscita dalle zone sorvegliate può essere utilizzata
per ventilare altri laboratori, previa idonea filtrazione, mentre
l'aria in uscita dalle zone controllate, deve essere direttamente
espulsa, previa filtrazione con filtri assoluti soggetti a periodico
controllo.
Dove il lavoro tende a generare contaminazione dell'aria, si
devono isolare le apparecchiature che ne sono la causa mediante
pareti prefabbricate; dovrà anche essere applicata una
griglia di aspirazione ad alto flusso sopra il punto dove è
prevista la generazione della contaminazione, e l'aria in uscita
deve essere filtrata con filtri assoluti.
Tab.
2: criteri generali di radioprotezione nelle zone di lavoro
Non
esistono normative specifiche antincendio (norme verticali)
per i laboratori con presenza di sostanze radioattive; ne discende
che per la progettazione degli stessi occorre far riferimento
ai criteri base generali della prevenzione incendi, in relazione
ai rischi peculiari derivanti dalla radioattività.
Nel corso degli anni sessanta sono state emanate diverse CIRCOLARI
del Ministero dell'Interno che dettano prescrizioni radioprotezionistiche
e di prevenzione antincendio relativamente al trasporto di sostanze
radioattive; alcune di esse [12] possono essere utilizzate per
avere indicazioni di massima anche per installazioni fisse.
È evidente che la severità dei criteri di progetto
adottati è commisurata all'entità della radioattività
presente: infatti all'aumentare dei quantitativi di sostanze
radioattive impiegate, detenute, manipolate, aumenta anche il
rischio. A seconda dei quantitativi impiegati i laboratori possono
essere distinti in varie classi, per le quali si definiscono
criteri man mano più stringenti. In questa sede ci si
limita ad esaminare i principali aspetti da considerare in un
laboratorio di classe intermedia senza scendere in eccessivi
dettagli; in casi specifici si deve peraltro considerare che
le esigenze possono variare con la particolare natura dei materiali,
con la radiotossicità dei nuclidi impiegati, nonché
con la frequenza del lavoro.
È innanzitutto fondamentale delimitare le zone con presenza
di radioattività: queste debbono costituire uno o più
compartimenti di resistenza al fuoco adeguata al carico di incendio
presente e possibilmente non inferiore a REI 120. A seconda
dei rischi che presentano e della loro distribuzione in uno
o più locali, una installazione può generalmente
essere divisa in zone omogenee (una o più) differenziate
secondo l'ordine crescente del rischio. Possiamo per semplicità
riferirci al caso di un'unica zona. L'accesso al compartimento
deve avvenire da apposito locale filtro che funga anche da spogliatoio;
se il laboratorio è classificato come zona controllata,
nello spogliatoio deve essere presente una barriera fisica per
la separazione della zona "calda" da quella "fredda".
In tale caso, nella zona calda, devono esser presenti oltre
ad attrezzature per il controllo della contaminazione, lavandini
ed eventualmente docce di decontaminazione, con scarichi separati
collegati ai serbatoi per la raccolta dei rifiuti liquidi radioattivi.
È sempre opportuno, anche qualora il laboratorio non
costituisca una zona controlla e non abbia pertanto necessariamente
un accesso regolamentato come sopra specificato, che la porta
di ingresso del laboratorio sia dotata di oblò per ispezionare
l'interno senza necessariamente accedervi.
Per quanto riguarda gli aspetti antincendio dell'impianto di
ventilazione si segnalano i seguenti requisiti:
- l'impianto deve prevedere l'arresto automatico in caso di
incendio, comandato da rivelatori di fumo posti anche nelle
condotte di estrazione;
- le condotte dell'aria ed in particolare quelle che servono
le zone controllate devono essere dotate di serrande tagliafuoco
ad azionamento automatico;
- i filtri devono essere incombustibili, ovvero dotati di prefiltro
di protezione di tipo incombustibile; tale requisito è
richiesto in modo particolare per i filtri assoluti sui condotti
di estrazione delle zone controllate;
- le cappe di estrazione debbono poter essere azionabili anche
dall'esterno delle zone controllate.
I laboratori dovranno essere decontaminabili; a tal fine le
pareti ed i soffitti dovranno essere rivestiti con vernici decontaminabili,
mentre i pavimenti dovranno essere in cemento lisciato ricoperti
di fogli di spoknol (o analogo materiale quale linoleum, purché
resistenti agli agenti e alle sostanze impiegate), saldati tra
loro e raccordati senza spigoli vivi e risalenti in generale
per un'altezza di 20 cm lungo le pareti.
Devono essere previste porte di emergenza per consentire in
caso di assoluta necessità l'evacuazione rapida dell'edificio
senza seguire il normale percorso di accesso.
Debbono esser presenti dispositivi automatici di rivelazione
di incendio, dispositivi acustici e luminosi di allarme, idonei
apparecchi portatili di estinzione (a CO2 ed a polvere).
Si deve tenere conto che in presenza di radioattività
in caso di incendio, una serie di norme "classiche"
nelle operazioni di spegnimento e/o di intervento devono essere
modificate. In particolare occorre considerare che:
- è più importante la protezione del materiale
radioattivo implicato che non la lotta contro l'estensione dell'incendio
a locali con rischi convenzionali;
- l'uso dell'acqua deve essere ridotto al minimo per evitare
l'estensione della contaminazione superficiale (ed in casi particolari
il pericolo di criticità);
- è bene usare acqua nebulizzata per abbattere le polveri
e la contaminazione;
- è preferibile usare estintori a CO2 ed a polvere;
- deve essere organizzata una zona per il controllo del personale
di intervento e per provvedere alla decontaminazione;
- qualora sia previsto lo spegnimento con acqua, i pozzetti
ed i serbatoi di raccolta degli scarichi radioattivi (docce,
lavandini) devono essere dimensionati per poter contenere anche
l'acqua antincendio.
CONCLUSIONI
I criteri di prevenzione incendi sopra illustrati non hanno
la pretesa di costituire una guida tecnica in fase di progettazione
completa di un laboratorio, ma possono fornire utili indicazioni
nel caso di adeguamento di locali ad attività specifiche.
Nel settore della ricerca ove per forza di cose non si svolgono
attività routinarie è particolarmente sentita
la necessità di adattare in itinere le strutture disponibili
alle esigenze contingenti che via via si presentano e che possono
riguardare l'uso di particolari strumenti, macchine, sostanze,
compresi i materiali radioattivi. In questa situazione di possibile
continuo cambiamento è importante che vengano sempre
rispettati i criteri generali di sicurezza: spesso infatti l'amplificazione
di eventi incidentali di piccola entità è dovuta
proprio alla mancanza di requisiti base dei locali, delle apparecchiature
degli impianti; tutto ciò assume particolare rilevanza
ove vi sia o vi possa essere presenza di radiazioni ionizzanti.
Attribuire la giusta considerazione alla prevenzione incendi
consente di ridurre la frequenza degli incidenti e di limitarne
la magnitudo delle conseguenze, mediante l'adozione di misure
preventive e protettive di tipo attivo e passivo. È auspicabile
che la definizione e l'adozione di dette misure di sicurezza
avvenga in modo sistematico, sia in fase di progetto sia con
successivi interventi di adeguamento che debbono accompagnare
le mutate esigenze e condizioni di lavoro. Occorre a tal fine
entrare nell'ottica di idee che "fare sicurezza" non
significa solo operare da un punto di vista autorizzativo, formale,
documentale, cartaceo, ma vuol dire innanzitutto rispettare
la salvaguardia della salute dei lavoratori prevenendo i possibili
eventi incidentali.
Bibliografia
[1] D.P.R. 37 del 12.01.1998 "Regolamento recante disciplina
dei procedimenti relativi alla prevenzione incendi a norma dell'articolo
20 comma 8, della Legge 15.03.1997 n. 59"
[2] Lettera Circolare M.I. prot. N. P796/4101 sott. 72/E del
05.05.1998 "DP.R. 12.01.1998 n. 37 - Regolamento per la
disciplina dei procedimenti relativi alla
prevenzione incendi - Chiarimenti applicativi"
[3] D.M. 82 del 16.02.1982 "Modificazioni del Decreto Ministeriale
27 settembre 1965 concernente la determinazione delle attività
soggette alle visite di prevenzione incendi"
[4] E. Pianese, E. Ragno, E. Ragno "La nuova disciplina
di prevenzione incendi" Bollettino della Prevenzione CEDIS
n. 8 - 98
[5] R. Paciucci, E. Pianese, E. Ragno "Il rischio di incendio
nelle aziende agricole" - Progetto Sicurezza n. 2/98
[6] S. Marinelli "La gestione della sicurezza antincendio"
EPC 1998
[7] L. Corbo "Prevenzione incendi - Corso di sicurezza
nelle costruzioni" ETAS Libri 1992
[8] Legge 31 dicembre 1962 n. 1860 Impiego pacifico dell'energia
nucleare"
[9] D.P.R. 13 febbraio 1964 n. 185 "Sicurezza degli impianti
e protezione civile-sanitaria dei lavoratori e delle popolazioni
contro i pericoli delle radiazioni ionizzanti derivanti dall'impiego
pacifico dell'energia nucleare"
[10] Lettera Circolare Ministero dell'Interno n. 36 del 11.12.1985
"Prevenzione incendi: chiarimenti interpretativi di vigenti
disposizioni e pareri espressi dal Comitato centrale tecnico
scientifico per la prevenzione incendi su questioni e problemi
di prevenzione incendi".
[11] Lettera Circolare n. 1 MI.SA. (89) 1 prot. 922/4101 del
20/01/1989 "Decreto ministeriale 16 febbraio 1982 punto
75: Chiarimento - Istituti laboratori, stabilimenti e reparti
in cui si effettuano anche saltuariamente ricerche scientifiche
o attività industriali per le quali si impiegano isotopi
radioattivi, apparecchi contenenti dette sostanze ed apparecchi
generatori di radiazioni ionizzanti (art. 13 della legge 31.12.1962
n. 1860 e art. 102 del D.P.R. 13.2.1964 n. 185)
[12] Lettera Circolare Ministero dell'Interno n. 48 prot. 18669/24222
del 19.05.1965 "Trasporti stradali di materie fissili speciali
e di materie radioattive - procedura per il rilascio delle autorizzazioni"
[13] E. Pianese "Metrologia delle radiazioni ionizzanti"
Riv. Antincendio n. 1/99
[14] D.P.R. 27.04.1955 n. 547 "Norme per la prevenzione
degli infortuni sul lavoro"
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