CAP. IV La libertà d'insegnamento

 

Libertà d'insegnamento! Se ne parla, la si encomia, ma la si difende realmente? E’ una domanda che é necessario porsi, perché, disgraziatamente e nonostante tanta propaganda sembri difenderla, la poca libertà d'insegnamento che resta si sta perdendo sempre più.
Quando l’UNESCO, gli Stati che impongono il monopolio sull’insegnamento ed i mezzi d'informazione parlano di libertà d'insegnamento: cosa intendono in realtà con questo termine? Non é un controsenso che proprio dove il monopolio statale é ogni volta maggiore, si parli di libertà d'insegnamento? Non é un assurdo difendere la libertà d'insegnamento e accrescere contestualmente l'intervento dello Stato? Tale libertà non può essere reale poiché dipende sempre più dallo Stato.
Come mai? Cos’è la libertà d'insegnamento?

La libertà d'insegnamento é la facoltà secondo cui coloro ai quali spetta l’esercizio della missione educativa possono, effettivamente, realizzarla con tutte le funzioni che comporta, unite allo sviluppo e alla messa in pratica della medesima. Ciò suppone una serie di requisiti che, da un lato, la garantiscano da ogni possibile restrizione o annullamento e, dall’altro e allo stesso tempo, ne assicurino la pratica.
Affinché esista la libertà d'insegnamento é necessaria, in primo luogo, l’organizzazione reale ed effettiva della società in corpi intermedi, il che comporta che lo Stato li riconosca (cosa necessaria perché divenga davvero l’organo che veglia per il bene comune) e non s'immischi (perché non é suo compito, giacché manca di ogni titolo per questo) nei doveri, facoltà e diritti che ad essi corrispondono, come enti naturali anteriori ad esso.

Ma perché questa libertà d'insegnamento esista, assieme a questo elemento sociale imprescindibile, é necessaria una determinata attitudine da parte dello Stato. Attitudine che é fondamentalmente triplice.
Da un lato é necessario che lo Stato vegli perché non vengano superati i limiti della libertà d'insegnamento (limiti di cui ci occuperemo poi), impedendo che essa si trasformi in un elemento distruttore della società, per il che dovrà impedire ogni attività che danneggia il bene comune temporale o lo pone in pericolo.
E’ inoltre necessario che lo Stato operi all’interno dei limiti impostigli dalla sua missione propria e specifica. Perciò non può svolgere una politica che renda difficoltoso il funzionamento dei corpi intermedi, come quella costituita da gravami fiscali all’insegnamento o da imposte accademiche, che in nessun caso gli competono perché superano il suo compito proprio e specifico di vegliare sul bene comune.
Infine, quando il corpo sociale non riesce ad impartirlo, lo Stato deve supplire all’insegnamento sia apportando dei mezzi economici, se questa é la causa che ne impedisce il normale funzionamento, sia costruendo il collegio, la scuola, ecc., ma in modo tale che questa supplenza non incorra negli inconvenienti del paragrafo precedente, né comporti per gli alunni, le loro famiglie o i professori alcuna soggezione a un'ideologia o a una politica che, anche se non é totalmente contraria al bene comune, diviene discutibile per l’accettazione di quei principi o conseguenze.

Vale a dire, perché la libertà d'insegnamento divenga realtà si richiede da parte dello Stato il compimento della sua missione specifica, per la quale deve tenere sempre presente il principio di sussidiarietà, principio di ordine naturale, ricordato, non inventato, da Pio XI nella Quadragesimo Anno e nuovamente accolto da Giovanni XXIII nella Mater et magistra, così come da Pio XII e Paolo VI (1).

 

4.1 Presupposti imprescindibili per la libertà d'insegnamento.

4.1.1 Diritto dell’iniziativa privata a fondare e istituire centri d'insegnamento

Tale diritto deriva ed ha il suo fondamento nel Diritto naturale, secondo cui é ai genitori che compete l’educare i propri figli, il che si manifesta in due aspetti.

In primo luogo, al diritto e all’obbligo dei genitori di educare i figli corrisponde che, di fatto e di diritto, gli stessi possano istituire i centri perché ciò avvenga. Se si nega questo diritto a fondare i centri d'insegnamento, il diritto naturale dei genitori viene soppresso (anche se in teoria si riconosce quel diritto naturale), posto che non se ne permette l’esercizio. Il diritto naturale primario, per cui spetta ai genitori l’educazione dei figli, deve essere riconosciuto, accolto e protetto dalla legislazione umana positiva, perché possa divenire realtà; cosa che non succede se s'impedisce ai genitori di istituire i centri d'insegnamento.
Ciò nonostante, si cerca di instaurare il monopolio statale sostenendo che non elimina questo diritto ma che, piuttosto, é l’unico modo di renderlo effettivo. Lo Stato si arroga così la titolarità del diritto, col che scompare il diritto inalienabile dei genitori; la sua finalità, come il suo oggetto, é sostituito da quanto stabilisce lo Stato.

D’altra parte scompare la possibilità di scelta dei genitori, che deriva dal diritto in ordine all’educazione della prole, secondo la quale essi lo esercitano come meglio credono: le famiglie, per rendere reale il proprio diritto, devono poter mandare i figli nel collegio che, secondo loro, riunisce le caratteristiche più adeguate all’insegnamento che vogliono sia ricevuto dai loro figli.
Questa possibilità, totalmente legittima perché in accordo con la morale e il bene comune, viene eliminata col monopolio statale; e viene ritagliato e mutilato il diritto originario su cui si basa, quando si limita indebitamente, arbitrariamente, la libertà d'insegnamento: col monopolio, anche se esisteranno diversi centri d'insegnamento, saranno tutti caratterizzati dalla loro dipendenza dallo Stato. L’opzione dei genitori, l’esercizio del loro diritto, resta ridotto, nel migliore dei casi, all’inviarli al centro A, B o X, sostanzialmente tutti identici: quell’opzione, quell’esercizio del diritto, altro non é che una presa in giro dello stesso. L’opzione, la libertà nell’esercizio del diritto, resta limitata (e diviene una grossolana parodia) allo scegliere materialmente fra un centro o l’altro, non essendoci opzione possibile quanto al metodo d'insegnamento, allo spirito del medesimo. Tutti saranno esattamente uguali, perchè sono tutti statali.

L’unico modo per garantire il diritto dei padri nell’educazione e insegnamento della prole, per garantire la libertà d'insegnamento, é mediante la formazione di centri d'insegnamento di iniziativa privata.

4.1.2 Finanziamento dell’insegnamento

Secondo il corrente "senso della storia", l’insegnamento "deve" essere finanziato dallo Stato, ma tale attitudine - frutto del maggiore totalitarismo che sarà ricordato dalla storia e che si sta instaurando a passi da gigante -, é inammissibile, non solo per il cattolico, ma anche per ogni uomo, dato che é totalmente contrario alla natura.

Se si crede che l’uomo é libero, non si può contemporaneamente affermare nessun'altra soggezione allo Stato che quella derivante dal bene comune temporale. L’uomo, salvo quella limitazione conseguente la sua socialità, non dipende dallo Stato, né questo può imporgli altro dello strettamente necessario al bene comune temporale: in ogni altro modo perde la sua libertà, divenendo schiavo dello Stato.
Lo Stato é necessario, ma - evidentemente - per svolgere le sue funzioni specifiche; e il diritto di insegnare, lo abbiamo già visto (2), non gli compete in altro modo che sussidiario e indiretto. Fra queste sue missioni specifiche c’è quella di vegliare - per imposizione stessa derivante dal procurare il bene comune - sulla libertà d'insegnamento. Se questa libertà non esiste - oppure è limitata dallo Stato per capriccio - il bene comune scompare.
Sul piano economico, del quale andiamo a trattare, ciò comporta che l’insegnamento debba essere sostenuto da coloro che sono i suoi beneficiari diretti - che sono anche coloro che possono insegnare - e, pertanto, che esercitano il diritto alla libertà d'insegnamento: i genitori degli alunni e gli alunni stessi. L'insegnamento può, e a volte dovrà, essere indirettamente sostenuto dai diversi corpi intermedi che formano l’armoniosa struttura della società. Ciò si può perfettamente praticare nelle diverse classi o gradi d’insegnamento: nella misura in cui questo é più completo, l’intervento nello stesso aumenta, sia per i fini che per le conoscenze e la loro formazione.

4.1.2.1 - Finanziamento paterno

I genitori possono finanziare l’insegnamento? I genitori e i loro figli sono i principali beneficiari dell’insegnamento; il loro finanziamento - dal quale dipende l’insegnamento - é e sarà garanzia che l'opera non sarà contraria a ciò che essi desiderano.
Se si nega ai genitori il diritto di sostenere l’insegnamento dei propri figli o che questo debba dipendere economicamente dalle famiglie, si sta negando, da un lato, la possibilità di disporre dei mezzi economici dei genitori in ordine all’educazione e insegnamento dei figli. Con questo si verificherà il controsenso per il quale i mezzi economici, che sono di libero utilizzo, non potranno essere impiegati per l'istruzione dei propri figli: potranno essere usati per qualunque cosa, salvo che per uno degli impieghi migliori e più importanti. D’altro lato significa che, per via economica (con le conseguenze che comporta), si elimina l’obbligo dei genitori di insegnare ai propri figli.
Se i genitori vogliono che i figli apprendano e vengano formati in accordo con un retto e sano criterio, l’unica garanzia che hanno perché ciò avvenga é quella di pagare l’insegnamento dei propri figli: l’insegnamento, soprattutto ai livelli più bassi, deve essere tale e quale lo chiedono - nelle cose fondamentali - i genitori. E questa garanzia si apprezza sotto svariati aspetti.
Primo, perché se il centro al quale sono mandati i figli cessa di avere le condizioni che i genitori vogliono, questi li manderanno ad un altro, cosa possibile perché la scelta dipende economicamente da loro.
Secondo, perché i centri d'insegnamento dovranno seguire le direttive dei genitori, pena il non incassare e, quindi, non poter sussistere.
Terzo, perché i genitori associandosi, da soli o per mezzo dei corpi intermedi, potranno istituire dei centri d'insegnamento che, questi sì, saranno come essi li desiderano.
Se i genitori non possono pagare i collegi dei figli tutto ciò é impossibile. Quand’anche il finanziamento paterno non venga dichiarato illegale ma lo si voglia scoraggiare, i genitori si troveranno senza mezzi per influire sui centri d'insegnamento: questi faranno più o meno caso ad essi sapendo che ai genitori non resterà altro da fare che sopportarli.

4.1.2.2 - Cooperazione con le famiglie e indipendenza dei centri d'insegnamento rispetto allo Stato

I centri d'insegnamento ricevono la loro autorità primariamente dalle famiglie, sono come prolungamenti di quelle. Perciò, essendo sostenuti dai genitori, non dipenderanno da estranei: la loro maggiore indipendenza, l'unica vera, verrà dalla collaborazione con le famiglie, senza mettersi al loro posto, ma cooperando con esse.
L’efficace collaborazione tra centro d'insegnamento e famiglia si raggiunge solo quando i genitori pagano l’insegnamento. Nelle scuole di Stato avviene il contrario, non solo perché non sono i genitori a chiedere conto della loro opera (col che già cessa di esistere quella collaborazione scuola - famiglia, con pregiudizio per l’alunno, la famiglia e la società), perché dipendendo completamente da esso, ma anche perché, qualora non seguano totalmente le direttive statali, non potrebbero sussistere perché verrebbero privati del denaro necessario.
Inoltre, se non sono le famiglie ma lo Stato a pagare l’insegnamento, i maestri diverranno dei meri funzionari. L’esperienza dimostra che la "sicurezza" del posto di lavoro può venire persa nell'andirivieni politico e che gli stipendi dello Stato non sono poi tanto alti: ma quando tutto é statale, essi devono accettare e conformarsi per forza agli stipendi precari che esso concede.
I centri d'insegnamento statali, quindi, non sono affatto migliori di quelli finanziati dai privati, e ciò non solo dal punto di vista del Diritto naturale, del vero ordine sociale, ma anche per motivi d'interesse economico.

4.1.2.3 - Garanzia di un retto insegnamento

Il finanziamento da parte dei privati permette, inoltre, di garantire che l’insegnamento impartito da maestri e professori non sia nocivo, dato che si potranno rompere i contratti con tutti quei professori la cui opera sia pregiudizievole, e firmare contratti con tutti quelli da cui si può ragionevolmente sperare un insegnamento sano.
Non bisogna dimenticare che la questione principale non riguarda il legittimo beneficio economico del lavoro di professori e maestri: questa è ma solo una conseguenza derivante dal fine dell’educazione. Infatti, non si può mettere al di sopra di quella finalità (insegnamento competente e sano) un preteso diritto del professore o maestro al lavoro: se tale diritto esiste, non lo é mai in modo congenito ma in modo acquisito e derivato e, pertanto, dipende da quello primario che gli dà vita e al quale deve assoggettarsi, anche a costo di perderlo.

4.1.2.4 - Adeguatezza del finanziamento privato (non statale).

Il finanziamento dell’insegnamento da parte dei privati é sufficiente? In una società sana e costituita normalmente, si. La sufficienza del finanziamento privato deve essere considerata sotto tre aspetti. Ma naturalmente, bisogna vivere in una contesto nel quale l’iniziativa privata funziona; se ciò non avviene in tutta la sua ampiezza é a causa non solo alla sistematica propaganda contraria, ma delle onerose misure impositive che, dal consumatore al municipio, crescono in ogni istante e si avviano a seppellire ogni vita e indipendenza economica sotto il peso della burocratizzazione e dell’apparato statale.

4.1.2.4.1 - Armonia tra istituti e i mezzi economici.

L’insegnamento non può essere svolto in modo che l’iniziativa privata sia insufficiente per spesarlo: gli istituti devono invece dipendere dalle disponibilità. Oggi l’insegnamento é sempre più caro, ma ciò é per gran parte dovuto al fatto che si utilizzano mezzi (senza entrare nel merito del modo di usarli e delle finalità degli stessi) imposti in larga misura dallo Stato, che rincara considerevolmente e continuamente l’insegnamento. Pensiamo, ad esempio, ai mezzi audiovisivi: questi devono essere utilizzati - ripetiamo senza considerazioni di valore - quando i genitori, l’iniziativa privata e in definitiva la società strutturata naturalmente in corpi intermedi, può affrontare tali spese. Altrimenti ci si rende schiavi col dipendere dalle finanze statali o degli organismi internazionali; e ciò in nome, teoricamente, di un maggiore sapere, che però non é tale, posto che ci fa perdere la libertà.
Negare la possibilità del finanziamento privato perché non si possono usare mezzi tecnologici da cambiare continuamente, equivale a mettere tali mezzi al di sopra dei fini che l’educazione deve perseguire. E’, in definitiva, dimenticare che i mezzi, la tecnica, sono al servizio di una finalità, é voler sostituire il fine educativo e, in ultima analisi e di conseguenza, il fine stesso dell’uomo con l’uso di un mezzo tecnologico. La tecnologia, così, non é pregiudizievole in se stessa, ma per le conseguenze a cui porta: il trasformare la tecnica da strumento che perfeziona a finalità mostruosa, divenendo assurda e contraria alla natura delle cose.

4.1.2.4.2 - Insufficienza economica di alcune famiglie.

E’ evidente che non tutte le famiglie possono sostenere l’insegnamento dei propri figli. Il buon ordine sociale permette che tale difficoltà venga supplita dalla società, come richiede la convivenza organica e naturale della stessa.
I collegi, i centri d'insegnamento, possono concedere borse di studio tramite un fondo a ciò dedicato, costituito con l’eccedenza delle rette che le famiglie più dotate dovranno pagare per l’educazione dei propri figli. Le borse di studio saranno concesse a quanti ne necessitano realmente e a coloro che, nei diversi tipi e livelli d'insegnamento, saranno in grado di approfittarne in modo efficace. In modo che, se le borse di studio per l’insegnamento primario saranno concesse a tutti coloro che ne abbisognano, per i gradi successivi lo saranno invece solo a coloro che abbiano raggiunto i risultati migliori, in rapporto alla classe frequentata. Infatti, man mano che cresce il grado d'insegnamento, le attitudini necessarie aumentano, e occorre guardarsi dal creare una società d'incapaci titolati che, per mancare di conoscenze, si risentono non trovando un posto corrispondente al titolo acquisito.
Il tema delle borse di studio non deve essere considerato negativamente, come fosse falso paternalismo o carità: il buon ordine sociale non é violato ma, al contrario, intimamente legato al vero paternalismo e carità.

4.1.2.4.3 - Ruolo dei corpi intermedi.

Abbiamo visto in precedenza (3) la funzione e il ruolo dei corpi intermedi nell’insegnamento; andiamo ora a trattare dell’aspetto finanziario ad essi relativo.
I corpi intermedi non soltanto possono dare vita a centri come gli altri privati (essi hanno anche un interesse professionale a ciò), ma sostenerli per mezzo di borse di studio (altro modo in cui riceve insegnamento chi manca di mezzi economici) e attraverso sovvenzioni. Le scuole non perderanno la loro indipendenza per questo (purché non siano stati fondati dagli stessi corpi intermedi che danno la sovvenzione), non solo perché non dipenderebbero da essi (continuerebbero a dipendere dalle famiglie e organizzazioni private), ma perché numerica non potrebbero esercitare un monopolio come può fare lo Stato a causa della loro esiguità.
Tanto i municipi come le corporazioni professionali possono (e se lo Stato non li strozzasse con le sue misure impositive, potrebbero realmente) contribuire al finanziamento dell’insegnamento. Infatti, in definitiva, la vita dei corpi intermedi é manifestazione e condizione sine qua non dell’iniziativa privata.

4.1.2.5 - Il ruolo finanziario dello Stato

Se la funzione d'insegnare non compete allo Stato che sussidiariamente e indirettamente, sul piano finanziario ciò implica la sua inattività diretta: anche in questo caso esso dovrà intervenire solo suppletivamente e indirettamente.

4.1.2.5.1 - Sgravi fiscali all’iniziativa privata.

In primo luogo, lo Stato deve impedire che la libertà d'insegnamento divenga impossibile per l'assenza di disponibilità economiche private. Pertanto, non deve soffocare con misure impositive né i privati, né i corpi intermedi.
Lo Stato deborda in modo evidente dalle sue funzioni e trasgredisce il bene comune, ragione della propria esistenza, se il finanziamento non può essere privato per colpa delle imposte. Non c’è dunque scusante quando la sua politica fiscale danneggia il finanziamento privato dell’insegnamento, coartando e impedendo il diritto naturale e il relativo obbligo dei genitori in questa faccenda. Perché, lo ripetiamo una e mille volte, l’uomo, la famiglia e i corpi intermedi, non sono al servizio assoluto dello Stato, bensì esso esiste perché quelli possano compiere le proprie funzioni e conseguire le finalità loro proprie.

4.1.2.5.2 - Sgravi fiscali ai centri d'insegnamento.

Secondariamente, non deve gravare sui centri d'insegnamento per mezzo di una politica fiscale abusiva. Se i genitori, attraverso le loro associazioni, collaboreranno realmente con i collegi, si eviterà che essi siano accusati d'essere solo degli affari lucrosi. Inoltre, se in gran parte dei centri d'insegnamento privati le rette aumentano, lo si deve alla politica dello Stato nei loro confronti, che li obbliga - volenti o nolenti - a subire i suoi costi.
Se d’altra parte, come deve essere, lo Stato é davvero interessato a che l’insegnamento sia buono, poco costoso e utile alla nazione (perché se ciò avviene sarà utile anche allo Stato), non si vede chiaramente perché pesi sull’insegnamento, annullando così l’iniziativa privata (che non potrà aprire collegi se l’insegnamento rincara). Così facendo lo Stato eccede dalle sue funzioni specifiche in ordine al bene comune temporale e lo danneggia.

4.1.2.5.3 - Ruolo sussidiario dello Stato.

In terzo luogo, il finanziamento dell’insegnamento da parte dello Stato deve esistere solo suppletivamente e indirettamente, senza che questo finanziamento e aiuto, effettuati d’accordo col principio di sussidiarietà, suppongano un'imposizione che vada oltre a quanto richiesto per il bene comune temporale. Per tutto quanto appartiene al campo della legittima libertà d'opzione politica o sociale, lo Stato non può imporre nulla.
Quando il finanziamento privato è insufficiente, allora, e solo allora, lo Stato può concedere borse di studio e sussidi. Ma solo in ultima istanza, giacché la buona organizzazione sociale esige che i contributi statali siano necessari solo quando non si riesce a svolgere le proprie funzioni: l’insegnamento é di competenza statale solo suppletivamente. Se viene sovvenzionato a priori, é perché lo Stato ricava, per mezzo delle imposte, del denaro che non avrebbe ragione di aver chiesto, dato che non é tra le sue funzioni occuparsi dell’insegnamento, se non in modo sussidiario.

4.1.3 Autonomia dei centri d'insegnamento

Tra i presupposti sinora segnalati come imprescindibili per una vera libertà d'insegnamento, é ancora possibile che, malgrado la marea socializzante, quello della costituzione di centri da parte dell’iniziativa privata venga compreso dalla maggior parte della gente, senza dubbio per essersi conservato, più o meno bene, sino ai nostri giorni. Non é di difficile comprensione neppure la necessità che sia il privato chi finanzia l’insegnamento (soprattutto quando é cosciente che con le imposte l’insegnamento risulterà più caro), perché senza di ciò non ci sarà più neanche la libertà d'insegnamento e verrà, pertanto, violato il diritto. Senza dubbio, ammettere come necessario per una vera libertà d'insegnamento il punto che tratteremo in seguito, é di difficoltà molto maggiore.

L’autonomia dei centri d'insegnamento suppone il poterli stabilire liberamente e il renderli autosufficienti economicamente, del che ci siamo già occupati. Ma con ciò non si é ottenuta l’autonomia. Perché questa sia realtà, é ancora necessaria l’indipendenza nei confronti dello Stato per quanto concerne i programmi e i titoli accademici (4).

4.1.4 L’autonomia universitaria (5)

L’insegnamento statale é incompatibile con la libertà d'insegnamento, che é espressione della libertà dell’essere umano e inerente la natura stessa dell’uomo. Lo Stato, per garantire la libertà, deve agire sulla base della sua esistenza e limitare il proprio operato all’impedire che divenga contraria al bene comune, cosa incompatibile col positivismo e il totalitarismo, in cui lo statalismo sbocca inesorabilmente.

Quanto abbiamo detto si applica anche all’insegnamento universitario. L’autonomia universitaria altro non é che la libertà d'insegnamento applicata a quanto concerne l’Università.
Se l’insegnamento - anche quello universitario -, appartiene alla società, é questa che deve esercitarlo. Per darle la possibilità reale di farlo, essa necessita di mezzi economici sufficienti.
Abituati all’Università di Stato, sembra che il finanziamento competa ad essa. Invece il finanziamento dell’insegnamento universitario compete a colui al quale spetta impartirlo: la società. Il finanziamento da parte dello Stato non é compatibile con l’autonomia universitaria, perché se così fosse (se cioè i mezzi economici dipendessero dallo Stato), essa dovrebbe seguire le direttive statali, altrimenti il rubinetto economico verrebbe chiuso.
Orbene: é possibile il finanziamento dell’Università, in modo che questa non dipenda dallo Stato? Detto in altre parole: la società attuale impone il finanziamento a carico del bilancio statale?
Prima di rispondere a questa domanda e indicare come possa aver luogo il finanziamento privato, bisogna mettere in risalto una questione molto importante relativa al finanziamento statale: se lo Stato paga l’insegnamento universitario, lo fa a carico della società. Invece di stabilire una relazione diretta società-Università, lo Stato s'introduce come intermediario, dando luogo alla relazione società-Stato-Università.
Infatti, è dalla società, attraverso le imposte, che lo Stato prende i mezzi economici per soddisfare le spese dell’insegnamento universitario. Non si creda, pertanto, che il finanziamento statale non costi alla società: al contrario, é a essa che costa, dato che da essa lo Stato estrae le risorse economiche. Così, il finanziamento statale é più caro di quello privato - senza intermediazione dello Stato -, anche se può sembrare il contrario. Si pensi solo alla burocrazia necessaria per l’opera d'intermediazione (6).
Si può argomentare che, a causa del suo elevato costo, malgrado gli inconvenienti prima esposti e nonostante tutto, solo lo Stato ha la capacità sufficiente per finanziare l’Università grazie alle imposte; oppure che se non lo facesse lo Stato, non sarebbe finanziata dall’iniziativa privata.

Torniamo all’interrogativo precedente: é possibile un finanziamento privato dell’Università? Come ottenere i mezzi economici perché l’insegnamento universitario non dipenda dallo Stato? La società dispone di mezzi sufficienti?
Se lo Stato ricava i mezzi economici dalla società attraverso le imposte, e queste venissero eliminate, é chiaro che i mezzi esisterebbero, in misura anche maggiore, con lo scomparire dell’attività di intermediazione dello Stato. Allora, il finanziamento si otterrebbe, attraverso le tasse d'iscrizione (diritti di scolarità).
Invece, quando la gratuità è imposta obbligatoriamente, si costringe l’uomo, gli si impedisce di impiegare liberamente i propri mezzi economici per l’insegnamento ai figli o a se stesso. Potrà usarli per altre cose, ma non per l’insegnamento.

Il fatto è che, con la gratuità, lo Stato si assicura il monopolio e la direzione e formazione dei suoi sudditi.

D’altra parte, perché sarebbero ingiusti i diritti di scolarità nell’Università? Perché meravigliarsi se si devono pagare diverse migliaia di pesetas l’anno per questo problema? Alla fine dell'anno, non si spende molto di più in elettrodomestici, automobili, appartamento estivo o vacanze? Non é forse molto più importante la libertà, che con l’insegnamento statale viene meno? Secondariamente, i mezzi economici per l’Università si ottengono anche attraverso l’apporto dei corpi intermedi, interessati alla preparazione dei futuri laureati. L’apporto può provenire sia perché sono partecipi nella direzione dell’Università o che perché sono beneficiari dell'opera della stessa.
In terzo luogo da donazioni, da fondazioni, associazioni, ex alunni, ecc., dal capitale della stessa Università e, anche, da contratti con lo Stato per promuovere attività come quelle di ricerca (7).

E’ evidente che non tutte le famiglie, né tutti gli alunni, potranno pagarsi l’insegnamento universitario. Ma il buon ordine sociale permette che tale insufficienza sia supplita dalla società attraverso borse di studio, che possono essere concesse dalla stessa Università, da associazioni private, da imprese, da corporazioni professionali ed anche da borse di studio statali. Borse di studio che devono essere concesse a chi le merita per le sue qualità.
Infine, é anche possibile che l’alunno faccia fronte alle spese per la propria carriera col prodotto del suo lavoro, compatibile con essa, impegnandosi a restituire il denaro all’Università al termine degli studi, in un arco di tempo concordato.

Come si vede i mezzi sono molteplici e attraverso ciascuno di essi é possibile raggiungere l’autonomia universitaria dal punto di vista economico.
L’autonomia universitaria implica la libera creazione degli atenei e l’autosufficienza economica, ma con ciò non si é ancora raggiunta l’autonomia: é necessario, ancora, che le Università possano definire i piani di studio e che lo Stato riconosca i titoli di studio che rilasciano, o, per meglio dire, che questi abbiano validità sociale indipendentemente dal parere dello Stato: ciò vale anche nel caso in cui quest'indipendenza comporta una semplice approvazione da parte dello Stato o se la validità dei titoli dovesse dipendere da quell’approvazione.
Attualmente il sistema d'insegnamento é tale che qualunque titolo venga concesso ad uno studente deve essere riconosciuto dallo Stato; nella stragrande maggioranza é lo Stato stesso che dà la laurea.
Su questo problema, Maurras (8) segnalava il comportamento arbitrario dello Stato francese, scrivendo: "...Lo Stato non si accontenta di stabilire i piani di studio, ma si riserva il diritto di certificare questo insegnamento. Esige, per rilasciare un titolo, che il candidato giustifichi che non é soltanto istruito, ma che sa quello che lo Stato vuole che sappia e nel modo in cui vuole che lo sappia o che lo creda. Così si obbligano le istituzioni private ad adattarsi ai programmi ufficiali, e siccome questi sono straordinariamente densi, non é possibile arricchirli ancora di più, introducendo quel che non prevedono". Evidentemente, se si crede che l’insegnamento debba essere monopolio statale, le parole di Maurras sono superflue. Ma il monopolio é la maniera più semplice per farla finita con la libertà dell’uomo (9).

Senza dubbio, anche ammettendo l’indipendenza dallo Stato o nonostante le controindicazioni che ciò implica, sorge l’obiezione secondo la quale si ritiene che il conferimento dei diplomi spetti allo Stato: si dice che l’interesse sociale esige la garanzia che il titolo certifichi alcune conoscenze, richieste per poter esercitare la professione relativa, e si aggiunge che solo lo Stato, o lo Stato meglio di chiunque, é il garante delle conoscenze che approva o concede. Tuttavia, vista la formazione ogni giorno più deficiente, é un argomento che oggi é perlomeno discutibile anche solo dal punto di vista della garanzia costituita dall’approvazione statale dei titoli. D’altra parte, abituati allo statalismo, non si sa fare altro che esigere tutto da esso.

Ma lo Stato non é la società, ed è a questa che spetta la missione di vegliare sulla garanzia dei titoli universitari.
In primo luogo, la concorrenza fra Università private - e lo stesso prestigio di queste -, farebbe sì che il livello dell’insegnamento aumentasse e che esse fossero interessate a che coloro che conseguono un titolo siano sufficientemente competenti.
Secondariamente, anche i corpi intermedi eserciterebbero sui diplomi il controllo oggi esercitato dallo Stato, perché attraverso la collaborazione con le Università, gli stessi ordini professionali veglierebbero perché i diplomi riflettessero realmente le conoscenze richieste. Sia le Università, che i collegi professionali, sono più competenti dello Stato ad esercitare tale controllo.

Anche l’elaborazione dei programmi é facoltà inerente la stessa Università. L’autonomia universitaria implica, infatti, l’indipendenza dallo Stato nella stesura dei piani di studio da svolgere: é essa che conosce per ogni materia cosa l’alunno deve ed é tenuto ad apprendere, non lo Stato. Perché lo Stato deve elaborare i programmi se non é medico, architetto, avvocato, né svolge qualunque altro mestiere?
Senza questa libertà gli alunni impareranno ciò che lo Stato vuole che sappiano e nel modo in cui vuole che lo sappiano: imposizione arbitraria dello Stato, che, d’altro canto, non pare sappia molto bene come debbano essere i programmi, stanti i continui cambiamenti dei medesimi.

A quanto detto si potrà obiettare che, anche se é vero, é senza dubbio impossibile da mettere in pratica; che questo é l’ideale, ma che bisogna arrendersi all’evidenza della realtà, posto che davanti al disinteresse e all’assenza dell’iniziativa privata non c’è altro rimedio che lo Stato si occupi dell’insegnamento universitario.
Il che ci conduce ad interrogarci sulla questione più importante di tutte: é possibile, dal punto di vista pratico, che l’iniziativa privata si occupi dell’autonomia universitaria? Come lo si potrebbe ottenere?
In primo luogo si deve osservare che se l’attuale Università é statale, secondo lo stampo napoleonico, é in conseguenza di una concezione statalistica che non ha smesso di aumentare dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione francese. Se il potere politico impedisce l’iniziativa privata, é evidente che le Università autonome, l’autonomia universitaria, non potranno mai esistere. D’altra parte, l’insegnamento statale non é sorto per deficienze del privato, ma contro di esso. Il primo ha eliminato il secondo; invece di cercare di stimolarlo, lo ha combattuto accanitamente e finché continua ad ostacolarlo é chiaro che non potrà esistere.
Inoltre, non solo le Università nel passato non furono statali, ma anche oggi esistono dei paesi in cui quelle private sono in maggioranza rispetto alle statali. Invece di propaganda (spesso puramente demagogica), e delle attuali direttive (tendenti apertamente a statalizzare sempre più l’insegnamento accorciando ogni giorno di più le possibilità dell’iniziativa privata), é necessario fare marcia indietro e l’iniziativa privata sia stimolata dallo stesso potere politico.
Se la società rinuncia a che le facoltà siano private e applaude ogni volta che la loro libertà decresce, é impossibile pensare all’autonomia universitaria, ad Università indipendenti dallo Stato.
La centralizzazione della società é l’opposto della libertà concreta: ogni volta estenua maggiormente il corpo sociale, uccidendo la vita naturale dei corpi intermedi e rendendo impossibile qualunque realizzazione sociale, veramente comunitaria, frutto dei doveri e responsabilità di quei corpi.
Solo se c’è vera società, solo se fra l’uomo e lo Stato esistono molteplici e diversi raggruppamenti naturali, é possibile l’esistenza di Università che non siano statali.
La rivitalizzazione dei corpi intermedi é attività preventiva perché attraverso il normale funzionamento dell’organizzazione naturale, le Università possano esistere.
Le Università possono nascere dall’azione congiunta dei corpi intermedi, delle imprese, dei collegi professionali, delle associazioni di genitori, delle fondazioni e della Chiesa: solo così potranno nuovamente sorgere vere Università. Ma per ottenere questo risultato é necessario non solo che non sia impedito, ma che venga stimolato da una politica che faciliti il compito, invece che opporsi ad esso.
Per giunta, i collegi professionali, le imprese, le associazioni dei genitori, la Chiesa o, in generale, chiunque partecipi alla gestione più o meno direttamente, avrà anche più interesse nel loro funzionamento, nel loro finanziamento.

Ma per tutto ciò é necessario un lavoro formativo: le idee muovono i popoli. Serve un’azione di formazione di élites che si preoccupino di conoscere, difendere, propagare e mettere in pratica; serve la retromarcia della politica statale in quest'ambito, decentralizzando, animando e fomentando l’iniziativa privata.

Una prova potrebbe consistere nel consegnare qualche Università ad un patronato o comitato di governo, il quale, disponendo di un capitale proprio, provvedesse da sé alle risorse economiche, cominciando dai diritti di scolarità. A questo scopo sarebbe necessario che l’Università statale cessasse d'essere gratuita, perché in caso contrario non si potrebbe competere con essa sotto questo aspetto. Ciò potrebbe essere realizzato per mezzo di buoni per studenti (per i quali lo Stato restituirebbe alle famiglie il denaro ottenuto per mezzo delle imposte per l’insegnamento), da consegnarsi all’Università, per essere poi convertiti in denaro dallo Stato (10).
Il tutto porterebbe anche ad arrestare il processo di massificazione qualitativa e quantitativa di cui oggi soffre l’insegnamento universitario e il cui panorama é ogni giorno più nero: se quanto abbiamo indicato può sembrare troppo audace, si permetta almeno la creazione di vere Università private, autonome. La prima conseguenza sarebbe l’innalzamento nelle stesse del livello degli studi e l'attirare alunni, i quali generalmente costaterebbero, alla fine degli studi, una migliore preparazione che nelle Università statali. Le stesse imprese e i corpi intermedi in generale, pertanto, cercherebbero in esse il personale necessario, posto che grazie alla competenza sarebbero più preparati, e così facendo aiuterebbero anche la stessa Università, attraverso sovvenzioni, borse di studio, contratti o partecipazioni alla sua gestione (11).

Per concludere, vediamo quali sarebbero i principali altri frutti dell’autonomia universitaria.
In primo luogo, quello attualmente più importante di tutti: l’arrestarsi del processo di massificazione di cui l’Università attualmente é parte. Oggi va all’Università un numero molto più alto di alunni di quelli necessari per svolgere le professioni e occupazioni per le quali l’Università prepara. E inoltre, cosa molto più grave, molti alunni che non hanno né la sufficiente capacità né la sufficiente preparazione per ottenere un titolo universitario. La massificazione quantitativa e la mancanza di preparazione con cui si entra nell’Università fanno calare la qualità del suo insegnamento perché bisogna mettersi al livello dei più (cioè i meno preparati) e si devono assegnare nuovi professori, a loro volta più impreparati. E’ un circolo vizioso che fa degradare l’insegnamento sempre più. La cosa sarebbe evitata nelle Università non statali, principalmente per l'interesse delle stesse: non solo per motivi di concorrenza con le altre, ma anche per la partecipazione dei corpi intermedi e la responsabilità ed interesse degli addetti della sua gestione.
In secondo luogo, una relazione fra professori e alunni e fra questi e l’Università (per la quale si sentono parte di essa), la creazione di legami certi, per i quali l’alunno non si sente un numero o una tessera fra molte altre, e il radicamento dell’alunno nell’Università.
In terzo luogo, la incomparabilmente maggiore difficoltà per la sovversione universitaria che, per gran parte, potrebbe addirittura riuscire impossibile. Non solo perché non ci sarebbe massificazione e per l’esistenza del legame citato, ma perché, inoltre, le misure punitive sarebbero molto più spedite ed efficaci di quelle oggi messe in pratica.

Non mancherà chi sosterrà che se l’Università non é statale, allora dalle cattedre si potrà insegnare il marxismo, il socialismo o il liberalismo. Abbiamo già segnalato l’incompatibilità con il bene comune di questo tipo d'insegnamenti. Ma, pur senza contare le altre Università in cui ciò non accadrebbe, la possibilità di un'Università privata marxista congiunta all’esistenza di altre che non lo siano, la contropartita sarebbe migliore della situazione attuale, in cui dei professori stipendiati dallo Stato fomentano e difendono dalle cattedre quanto é teoricamente combattuto dallo Stato.

Il problema si riduce alla concezione che si ha dell’uomo e della società. Per la concezione cristiana, basata sulla natura, lo Stato é caratterizzato da un ruolo sussidiario, dal compito di stimolo e aiuto alla società organica, naturalmente costituita dai corpi intermedi; perciò, come diceva Enrique Gil y Robles (12), "in tesi, e in generale, la docenza dello Stato é una indebita intromissione assolutista". L’autonomia universitaria non é un diritto, una facoltà della società che può essere esercitata o meno, ma è un vero obbligo, un dovere al quale non può rinunciare: se lo Stato la assume per sé, pretendendo di essere l’ente a cui spetta, violenta il bene comune e ne impedisce la realizzazione (13).

4.2 Limiti della libertà d'insegnamento

Limiti e libertà. Due parole che, a prima vista, sembrano esprimere concetti contrapposti ed escludersi reciprocamente. Ma, senza dubbio, non é così: la libertà d'insegnamento, come ogni libertà concreta, é circoscritta in limiti certi (ha un campo d'applicazione specifico), determinati dalla natura del suo oggetto.
Sono limiti che, più che proibizioni o limitazioni stabiliti come qualcosa di estraneo all’insegnamento, sono il canale naturale - inerente la natura stessa della libertà d'insegnamento - per il quale esso scorre.
L’uomo non cessa d'essere libero perché non può uscire per strada e picchiare i passanti che incontra sul suo cammino o appiccare il fuoco alla casa del vicino: la sua libertà é limitata o, più propriamente, é ordinata ad un fine, dal quale tali atti sono esclusi. Egli deve raggiungere tale fine attraverso l’armonia delle relazioni del corpo sociale, le quali, d’altra parte, rendono possibile la sua stessa libertà: diversamente, l’anarchia e il totalitarismo lo renderebbero irraggiungibile, rompendo quell’armonia e quell’ordine.
In modo analogo, la libertà d'insegnamento é ordinata ad un fine proprio e specifico che ha per oggetto la trasmissione, acquisizione, indagine e conservazione della verità.
La natura dell’insegnamento, che ha come oggetto proprio la verità e suppone un esercizio senza pastoie né limitazioni d'alcun genere; il suo fine può essere ottenuto solo quando non si stabiliscono limitazioni, monopoli o proibizioni, ossia con la libertà d'insegnamento.
E’ necessario insistere su questo: l’insegnamento ha per oggetto la verità; di conseguenza non si può stabilire alcun tipo di limitazione ad esso. Senza libertà, senza libertà d'insegnamento, é impossibile ottenere l’oggetto dell’insegnamento; la verità non può essere ritagliata e mutilata perché le sue deformazioni portano a considerare il falso come vero e, in fin dei conti, qualunque progresso in qualsiasi campo sarà impossibile, con conseguente distruzione dello stesso.

Allora, come si può parlare di limiti alla libertà d'insegnamento? Non é una contraddizione con quanto si é appena finito di dire?

L’oggetto dell’insegnamento é la verità: nessun uomo sano di mente può pretendere che sia l’errore, la falsità o la menzogna. Perciò, la natura stessa oggetto dell’insegnamento, la natura stessa della verità e, pertanto e di conseguenza, la stessa libertà d'insegnamento, implicano l’esclusione di un insegnamento falso o erroneo. Questi sono i limiti della libertà d'insegnamento. Limiti che non sono altro se non l’esclusione di ciò che non costituisce il suo oggetto. Perciò non esiste una libertà d'insegnamento per insegnare qualsiasi cosa, ma la natura del suo oggetto suppone proprio l’esclusione dell’errore. I limiti alla libertà d'insegnamento consistono esclusivamente in questo.
Pertanto, parlando dei limiti alla libertà d'insegnamento (che consistono nell’escludere da essa la diffusione dell’errore sotto il pretesto della libertà), non la si sta coartando né imponendo proibizioni che le sono estranee, ma, al contrario si stabilisce la sua natura, la quale esclude la diffusione dell’errore che, lungi dall’essere condizione della libertà d'insegnamento, é il suo più accanito nemico dato che impedisce la diffusione, acquisizione, indagine, ricerca e conservazione della verità, oggetto dell’insegnamento.
Allora, ciò non pone alcun problema: tutto il mondo conviene che si debba insegnare la verità e non l’errore. Ciò non significa che s'ignori l’errore, o che si insegni la verità come se l’errore non esistesse; significa soltanto che, propriamente, si può solo parlare di insegnare la verità, e se si "insegna" l’errore lo si fa per non cadere in esso o per mettere in maggiore risalto la verità, ma con la consapevolezza che é un errore.

Il problema sorge nel momento in cui si deve determinare chi é il giudice - colui che definisce, l’arbitro, che senza sbagliare delimita cosa é o non é vero - e chi impedisca o proibisca l’insegnamento di quanto é erroneo.

Un problema previo a quello di stabilire a chi spetta di proibire un insegnamento che oltrepassi i propri limiti, é quello di cercare chi conosca la verità, dato che solo chi la conosce potrà proibire che s'insegni l’errore; verificare chi é in condizione di dire di essere infallibile, posto che su questo terreno é necessario che la delimitazione tra verità ed errore sia fatta senza alcun genere di dubbio, senza alcuna possibilità di equivoco. Se ci fosse un dubbio - per quanto piccolo -, se fossimo nel campo della possibilità o se non ci fosse certezza, quella delimitazione sarebbe soggetta ad errore. Questo potrebbe essere accertato, ma si potrebbe anche cadere nell’equivoco.
Ciò nasconde due grandi pericoli: il primo che s'insegni l’erroneo come fosse vero; il secondo (molto più grave, poiché il primo potrebbe essere modificato successivamente se ci fosse libertà), che s'impedisca l’insegnamento di quanto é realmente vero.
E’ pertanto necessario che tale delimitazione sia infallibile, che non sia soggetta ad errore. Al contrario, non esistendo certezza e se si proibisse senza sicurezza, si causerebbero mali maggiori di quelli che si vogliono evitare.
Se non fosse possibile giungere all’infallibilità, alla certezza, sarebbe necessario non stabilire alcuna proibizione, posto che questa si basa sui limiti che la natura dell’insegnamento richiede: non sapendo se sia verità o meno la materia di cui si tratta, non si possono stabilire dei limiti che dipendono, precisamente, da ciò che é verità e da ciò che é errore. Se si stabilisce un divieto, potrebbe succedere che venissero insegnati errori come se fossero verità, e impedita l’indagine, trasmissione e acquisizione di verità per averle considerate errori, o tutte e due le cose assieme. Col che, alla fine, il danno sarebbe immenso, avendolo compiuto, per giunta, nel nome della verità che si pretende di salvaguardare.
Perciò, quando non c’è infallibilità, quando non c’è certezza, non si può vincolare la libertà d'insegnamento. E’ certo che con ciò a volte s'insegnerà l’errore (che, d’altra parte, resterà spesso limitato in quanto formulato come ipotesi probabile ma non certa, soggetto a una possibile revisione o a una maggiore conoscenza che lo modifichi o purifichi), ma non essendo limitata la libertà d'insegnamento, non si correrà il pericolo che venga impedito l’insegnamento della verità e, in definitiva, che si migliori la situazione.

Ma l’infallibilità é possibile o no? Si può giungere alla certezza? Se la risposta é negativa occorre concludere che si può insegnare tutto, il che suppone, in definitiva, di concludere che la verità e l’errore non esistono, oppure che se esistono é impossibile conoscerli, o che - ancora - é possibile stabilirli con un atto della volontà. In ogni caso, si presuppone comunque il rifiuto della ragione per conoscere la verità.
Questa posizione é senza dubbio insostenibile. Ammessa la ragione, ne deriva come conseguenza che é possibile la conoscenza della verità e, pertanto, é anche possibile la sua distinzione dall’errore.
Orbene, ci sono due classi di verità: alcune soprannaturali e altre naturali.
Il problema, come si é detto anteriormente, si basa sul trovare chi definisca infallibilmente la verità. Chi é costui? Unicamente, e solo in materia di fede e morale, la Chiesa Cattolica.
Spetta alla Chiesa - e non allo Stato (14) - il controllo finalizzato a che nelle materie di cui sopra non s'insegni l’errore e le verità soprannaturali non soffrano menomazioni. Lo Stato deve riconoscere i poteri della Chiesa, per cui siamo di fronte a un controllo ecclesiale e non statale (15). Tuttavia, in quei casi in cui la Chiesa non può reprimere gli abusi, lo Stato può farlo su sua sollecitazione (16): sebbene lo Stato in una determinata situazione di fatto possa impedire un insegnamento contrario a tali verità, la facoltà per fare questo non gli compete per diritto proprio, ma, se si tratta di uno Stato cattolico, tale facoltà é subordinata al diritto esclusivo e primario della Chiesa (17).
Ciò non significa che si debba aspettare che la Chiesa parli per ogni caso concreto, condannando le dottrine erronee. La Chiesa ha già parlato, e il suo Magistero esiste. Perciò, quando si verificasse il caso di un insegnamento erroneo, sarebbe lo stesso corpo sociale, cominciando dai genitori, quello che dovrebbe porre in atto i mezzi opportuni per impedire tale insegnamento.
D’altra parte non significa neppure che quel controllo, quel dire se un insegnamento é erroneo o meno, debba essere fatto per ogni caso da uomini di chiesa, preti o vescovi, né che, qualora lo facciano, abbiano senz’altro ragione e ci si debba sottomettere ad essi per il solo fatto che sono preti o vescovi. La Dottrina della Chiesa, il Magistero della Chiesa, così come la sua difesa, é vincolante per tutti i cattolici, e se si verifica il caso - come avviene disgraziatamente oggi con molta più gravità che in passato -, che preti o vescovi rifiutino pubblicamente tale Magistero, una società cattolica é obbligata a non far loro caso, posto che la loro autorità in materia dottrinale non é vincolante se non - e solo - quando é in accordo con la Dottrina della Chiesa.
Così, non si può dire che col controllo della Chiesa l’insegnamento venga legato mani e piedi al progressismo cosiddetto cattolico o all’eresia, poiché chi controlla non sono le persone in quanto tali, ma in quanto sono in comunione con la Dottrina cattolica: qualora se ne allontanino, i cattolici devono allontanarsi da loro.
Tale é la dottrina della Chiesa (18) (nei paesi cattolici), la quale, nonostante sia quella che pone meno limitazioni all’insegnamento - in realtà non fa che circoscriverlo alla sua natura propria -, é stata accanitamente combattuta per porre al suo posto l’insegnamento laico, di cui parleremo più avanti, in cui lo Stato é il definitore inappellabile della verità.
In realtà, come segnalava Enrique Gil y Robles, al di fuori delle limitazioni determinate dai dogmi, il resto, anche se é un errore, entra nel dominio di quel che Dio ha lasciato in consegna alle dispute degli uomini: in dubiis libertas (19).

Ciò implica che per quanto concerne le verità naturali si può insegnare qualsiasi cosa? Che a quanto non é dogma non si può porre nessuna limitazione?
Leone XIII ricordava che "Le verità naturali, quali sono i primi principi e le prossime conseguenze che ne trae la ragione, formano nell’ordine delle idee il patrimonio comune del genere umano: e poiché su quei veri riposano, come su fondamento saldissimo, morale, giustizia, religione, lo stesso umano consorzio, sarebbe la cosa più empia del mondo e più stolidamente disumana permettere che questo sacro retaggio sia impunemente dilapidato" (20).
Come dunque determinare chi debba essere il giudice della verità? Potrà esserlo lo Stato? Se venisse considerato come primo e unico giudice, la cosa non sarebbe ammissibile perché condurrebbe al totalitarismo. Chi, dunque? Se il potere culturale spetta alla società é ad essa che spetta determinare i limiti della libertà d'insegnamento. In che modo? Mediante la sua partecipazione autentica, attraverso i corpi intermedi, nei compiti specifici propri di ciascuno di loro.
A questa tesi si obbietterà con l'esporre quel che potrebbe accadere nel caso in cui esistesse una degradazione sociale tale da confondere la verità e l’errore. Tuttavia, in quel caso, non esiste altra soluzione che la rigenerazione della società stessa. Rigenerazione sociale che sarà possibile solo con una riforma morale personale. Se le persone, se il corpo sociale, sono giunte ad una tale situazione non resta che lavorare alla sua riforma e rigenerazione.
Ciò nonostante, é necessario fare alcune precisazioni. E’ certo, in linea generale, che i popoli sono come li vuole il loro governo. Il che é vero non certo perché esso annienta la personalità dei propri sudditi (i quali docilmente si sottomettono ai suoi ordini e sono buoni nella misura in cui esso lo è), il che sarebbe un totalitarismo inammissibile, bensì per il fruttuoso esempio di un governo che fomenta nei cittadini tutte le buone qualità, mentre riconosce e rispetta le sue libertà concrete.
Se a ciò si aggiunge una nazione organizzata in modo naturale (cioè in accordo col ruolo autentico dei corpi intermedi, che funzionano realmente ed efficacemente e rendono lo Stato come la piramide sociale di tale nazione), si potrà dire che lo Stato può indicare, in modo sussidiario e per impedire quelli perniciosi, i limiti dell’insegnamento. Lo Stato ha, infatti, il dovere di vegliare per il bene comune temporale, che é la sua missione specifica, e, in questo senso, ha il dovere di proibire ogni insegnamento nocivo.
D’altra parte non é meno certo che lo Stato, oggi come oggi, non é il vertice di quella piramide sociale in cui ciascuno ha le proprie funzioni. E’ per questo che abbiamo detto lo Stato non essere l’ente che deve segnalare i limiti dell’insegnamento. Ancora, non é meno certo che é necessario porre freno a ciò, specialmente quando in una società si é persa la direzione della perfezione e si marcia verso la degradazione, si confonde la verità e l’errore e si proibisce persino l’una a favore dell’altro.
Se non c’è soluzione migliore, é allora necessaria la dittatura, nel senso in cui la intendeva Donoso Cortès (21), ossia in modo transitorio e per il tempo necessario alla nuova restaurazione dell’ordine sociale, senza dimenticare che, in definitiva, questo dipende da una riforma morale personale. Tale dittatura potrebbe sì indicare i limiti dell’insegnamento, ma sempre tenendo conto che essi non sono altri che quelli necessari al bene comune.

In definitiva, sostenendo che la Chiesa é l’unica ad avere l’autorità per stabilire i limiti della libertà d'insegnamento, non si salvaguardano solamente le verità soprannaturali ma anche quelle naturali. Queste, infatti, devono necessariamente essere in accordo con i dogmi e la morale - di cui la Chiesa é guardiana infallibile -, perché l’ordine naturale e quello soprannaturale non si contraddicono, non possono essere in opposizione, poiché entrambi procedono da Dio e fra loro esiste un’armonia perfetta.
Orbene, dove manca l’autorità della Chiesa (come ad esempio nei paesi non cattolici in cui essa non obbliga moralmente), allora i limiti alla libertà d'insegnamento dovranno essere stabiliti dal corpo sociale e, per ultimo, dallo Stato: l’ordine naturale é vincolante per tutti gli uomini, cattolici o non cattolici e, conformemente ad esso, deve essere proibito l’insegnamento dell’errore. Non é indispensabile essere cattolici per conoscere la Verità e l’errore nell’ordine naturale, ma, questo sì, occorre riconoscerne l’esistenza e cercare di avvicinarvisi.

In conclusione, la libertà d'insegnamento ed i suoi limiti sono perfettamente compatibili: in questo non c’è contraddizione alcuna, perché la libertà d'insegnamento si riferisce fondamentalmente al soggetto che insegna, mentre i limiti si riferiscono all’oggetto dell’insegnamento (22).

 

4.3 Libertà d'insegnamento e libertà di cattedra.

Si é frequentemente identificata la libertà di cattedra con quella d'insegnamento e, col reclamare il diritto alla libertà di cattedra, si é annientata la libertà d'insegnamento. Di fatto, coloro che rivendicano la libertà di cattedra non si preoccupano di sapere se l’insegnamento sia privato o statale; e, peggio ancora, desiderano un insegnamento statale, in cui la libertà del professore é assoluta.
La libertà di cattedra del liberalismo (cioè la libertà considerata come diritto del professore, alla cui docenza nessuno può obiettare alcunché poiché di essa risponde solo alla sua coscienza), non ammette in alcun modo i limiti di cui abbiamo appena finito di parlare. Essi supporrebbero, si afferma sofisticamente, il limitare la scienza, e questa non ha limiti. Ma, se non altro, questa obiezione identifica la scienza con la scienza del maestro, o con la sua opinione, che sono cose ben diverse. La libertà di cattedra così intesa, infatti, altro non é che la libertà di dire, dall’alto della cattedra, le peggiori barbarie, visto che le maggiori genialità non vengono impedite dalle limitazioni precedenti, limitazioni determinate dalla natura dell’oggetto dell’insegnamento. Per questo motivo, il professore non può dire quel che vuole dalla sua cattedra, e abbiamo appena finito di segnalarne il motivo e il modo di evitarlo.
Tuttavia, non mancano quelli che sostengono che se non c’è libertà di cattedra e da questa il professore non può dire quel che pensa, sente o crede, non c’è libertà: manca, effettivamente, non la libertà d'insegnamento, ma la libertà di diffusione dell’errore.
Inoltre, di quale libertà disporrebbero allora i genitori e gli alunni, per evitare un insegnamento erroneo? Solo di quella consistente nel non essere presenti in classe. Col che il così inteso diritto alla libertà di cattedra altro non é che l’eliminazione della libertà d'insegnamento, che invece si riferisce, innanzi tutto, alle famiglie e agli alunni. Il diritto di educare, che compete in primo luogo ai genitori, è così sostituito dal diritto del professore a dire quel che gli pare, senza alcun tipo di limitazione e senza che nessuno possa evitare gli insegnamenti perniciosi ed erronei, quando questi si verificassero.
E’ chiaro che non mancherà chi, nonostante tutto, consideri più importante del diritto del professore al diritto d'apprendere; il diritto del professore a dire qualunque cosa del diritto di imparare di alunni e genitori. Ma se al di sopra del diritto ad apprendere, a conoscere la verità, si pone il diritto del professore a dire quel che vuole, é superfluo accertare la sua preparazione: per apprendere occorre partire dal presupposto che l’insegnamento dell’errore si oppone al vero apprendimento. Il docente ha certamente un diritto, ma di insegnare quel che sa e quando ciò che sa é vero (ossia quando la sua conoscenza é veritiera perché si adegua alla realtà), non qualunque cosa.
In altre parole, se non esistessero quelle limitazioni segnalate, si cadrebbe nella "opiniomania", termine con cui Lucien Morin (23) designa "la mania (dell’uomo) di considerare le sue opinioni personali e soggettive come verità". Altrimenti, perché il professore avrebbe il diritto di dire ciò che vuole e non così qualunque altra persona? Perché il professore potrebbe credersi in possesso della verità (o professare il relativismo assoluto, che é cosa equivalente) e non anche qualunque altro essere umano? Con ciò é chiaro, e Lucien Morin ne ha segnalato le conseguenze sul piano sul piano della scienza e della cultura, scompaiono la cultura ed il sapere.
Si pensi anche al fatto che i limiti a cui abbiamo fatto riferimento sono assai ridotti, tanto pochi quanto lo richiede la natura stessa dell’oggetto dell’insegnamento. Al contrario, le opinioni, considerando che non hanno alcun genere di limitazioni, conducono all’uguaglianza tra l’errore e la verità e, quindi, a considerare tutte le opinioni ugualmente rispettabili e valide, a sopprimere questa in nome di quello.
Il fatto é che l’errore della libertà di cattedra di cui si parla, consiste nel dimenticare che il professore deve insegnare la verità: il diritto di insegnare non l’ha per il fatto di essere riuscito a diventare professore, ma perché si suppone che abbia acquisito un grado di sapere che lo abilita ad insegnare quel che é vero. In altre parole, non si conosce in quanto professore, ma si é professore perché si conosce. La scienza, il sapere, la verità, sono ciò che rendono professore e abilitano ad insegnare, non il contrario, come credono i partigiani della libertà di cattedra.

 

NOTE

  1. Pio XI, Enciclica Quadragesimo anno, del 15-5-1931, n. 79; Giovanni XXIII, Enciclica Mater et magistra, del 15-5-1961, n. 53 e n. 152; Pio XII, Lettera Nous avons lu, n. 6; Paolo VI: Allocuzione ai dirigenti della Federazione delle Cooperative Italiane e delle Casse Rurali e Artigiane, del 10-11-1975, indirettamente, nel parlare della necessità de "i corpi intermedi". [Cfr. pure Giovanni Paolo II, Enciclica Centesimus annus del 1-5-1991, n. 48; Esortazione Apostolica Familiaris consortio, del 22-11-1981, n. 45; n.d.t.]
  2. Cfr. E. Cantero, ¿A quièn corresponde educar y enseñar?, in Verbo, n. 159-160, novembre-dicembre 1977.
  3. Ibidem.
  4. Cfr. infra: Autonomia universitaria.
  5. In questo capitolo si riassume, E. Cantero: L’autonomia universitaria, apparso in Verbo, n. 128-129, settembre-novembre 1974, pp. 1063-1074.
  6. Come segnala Pierre Gaxotte per la Francia: "Si può considerare che uno studente in una Facoltà Libera costi alla sua famiglia 2.000 franchi francesi e che uno studente in una Facoltà dello Stato costi 4.000 franchi francesi alla comunità" (intervista pubblicata nella rivista Université Libre, n. 4, marzo-aprile 1970, p.14).
  7. Come segnala Jean de Roberty relativamente all’autonomia universitaria negli Stati Uniti: "Attualmente l’autonomia delle Università é dovuta principalmente all’autonomia finanziaria. Le risorse delle Università private provengono: dal capitale delle Università (valori mobiliari e immobiliari); dai diritti di scolarità, abbastanza elevati: da 1.000 a 2.000 dollari per studente all’anno (costoro ricevono, malgrado, numerosi aiuti dal Governo, da fondazioni o dalla stessa Università, mentre molti hanno l’opportunità di lavorare contemporaneamente). Da donazioni di fondazioni e vecchi studenti. Da contratti con organismi governativi per finanziare la ricerca" (Jean de Roberty, L’enseignement supérieur aux Etats-Unis, in Université Libre, n. 7, ottobre-dicembre 1970, p. 19. Su questo stesso argomento, Pour rebatir l’Université, elaborato dal Comité Etudiant pour le Libertés Universitaires, CELU, La Table Ronde, Parigi, 1969, pp. 120 e succ.)
  8. Charles Maurras: Napoleon, avec la France ou contre la France, Flammarion, Parigi, 1932, cap. VII, cit. in Verbo, n. 73, p. 229.
  9. Cfr. E. Cantero: "Poder polìtico y poder cultural", in Verbo, n. 113, marzo 1973.
  10. Così funziona questo sistema negli U.S.A.: "Lo Stato devolve ai genitori una parte delle sue imposte in forma di buoni che permetterebbe loro di finanziare l’educazione scelta per i propri figli; i centri d'insegnamento devolveranno quei buoni allo Stato e verranno accreditati del loro valore" (Jean de Roberty: op. cit., p. 21).
  11. In Francia funzionano vere Facoltà libere, sin da quando, nel 1968, venne fondata la prima. Oggi ve ne sono almeno quattro: La Faculté libre autonome et cogerèe d’Economie et de Droit de Paris, la Faculté libre de Paris, la Facultée libre de Philosophie comparée e L’Universitée libre des Sciences de l’Homme. Tutte esse funzionano come Università private sulla base dei mezzi finanziari esposti, con crescenti risultati accademici. Cfr. Bernard Milhaud, Une expérience originale: les facultés libres, in Université Libre, n. 40, maggio-giugno 1976, p. 21 e succ.
  12. Enrique Gil y Robles: Tratado de Derecho Politico, Afrodisio Aguado, Madrid, 1961, tomo I, p. 239.
  13. Successivamente alla redazione di questo lavoro, ho letto la recente opera di Tania Dìaz Gonzàlez, Autonomìa universitaria, EUNSA, Pamplona, 1974. In essa, con gran ricchezza di dati, e attraverso uno studio dottrinale, storico e di Diritto comparato, si giunge alla necessità dell’autonomia universitaria, che é realmente un vero diritto naturale (pagina 77), essendo presupposti dell’autonomia la personalità giuridica (pp. 115 e succ.) e il potere statutario (pp. 129 e succ.); l’autonomia universitaria implicando quella amministrativa, quella finanziaria e quella ideologica.
  14. Cfr. Luigi Taparelli d'Azeglio: "Examen crìtico del Gobierno representativo en la sociedad moderna", Tipografia de El pensamiento Español, Madrid, 1866, tomo I, pp. 342-345. Cfr. Leone XIII: Libertas praestantissimum.
  15. Cfr. L. Taparelli: op. cit. [Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica: "L'autorità del Magistero si estende anche ai precetti specifici della legge naturale, perché la loro osservanza, chiesta dal Creatore, è necessaria alla salvezza. Richiamando le prescrizioni della legge naturale, il Magistero della Chiesa esercita una parte essenziale della sua funzione profetica di annunziare agli uomini ciò che essi sono in verità e di ricordare loro ciò che devono essere davanti a Dio", n. 2036, n.d.t.).
  16. Ibidem.
  17. Come scrive Taparelli: "non spetta al potere politico definire le dottrine; ma quando la Chiesa le ha stabilite e definite, quando ha condannato e corretto l’errore, se al diritto della Chiesa resiste la prepotenza dei refrattari, nulla impedisce che, implorato da essa, venga in suo aiuto la forza pubblica, la forza che assiste ogni singolo cittadino, ogni privata associazione, per costringere chi ha dato la parola a mantenerla", op. cit., p. 355. Perché, come lo stesso Taparelli indicava al governante di un paese cattolico: "Se governate un paese cattolico, dove l’autorità civile, di per sé incompetente a definire la verità, trova nella Chiesa una maestra infallibile, riconosciuta sia dal prìncipe che dai sudditi, non c’é nulla di più giusto che affidarle la direzione dell’insegnamento pubblico in tutto quanto concerne le scienze morali e razionali, come la religione e i costumi" op. cit., p. 372. Questo non significa né vuol dire che la direzione dei collegi e delle scuole debba essere ecclesiastica (collegi di preti), ma solo che debba riferirvisi a quanto concerne la purezza della dottrina. E Taparelli continua, segnalando: "Cosa potrebbe replicare un suddito quando questa veneranda autorità gli impedisca di proferire una parola erronea o licenziosa? Dirà forse che non riconosce questo tribunale? Ma allora smetterebbe di essere cattolico. Dirà che la riconosce ma che non vuole ubbidirle? Violerebbe la parola data nel battesimo e i diritti degli altri cittadini che vogliono essere pubblicamente cattolici. Se, poi, il principe interviene per frenare la sua lingua, questi non farà altro che proteggere il vigente diritto della Chiesa e dei cittadini contro una fraglante violazione. Questa protezione non é solo un diritto, ma un dovere di ogni governante: non é mettersi a imporre dottrina, ma proteggere chi é riconosciuto come legittimo maestro di essa e coloro che volontariamente si sono costituiti suoi discepoli". [Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, "Primi responsabili dell'educazione dei figli, i genitori hanno il diritto di scegliere per loro una scuola rispondente alle proprie convinzioni. E', questo, un diritto fondamentale. […] I pubblici poteri hanno il dovere di garantire tale diritto dei genitori e di assicurare le condizioni concrete per poterlo esercitare" n. 2229, n.d.t.].
  18. Un compendio di insegnamenti pontifici sulla questione della libertà d'insegnamento può vedersi in Juliàn Gil de Sagredo: La libertad de enseñanza segùn ed Derecho natural y el Magisterio pontificio, in Verbo, nn. 115-116, maggio-luglio 1973.
  19. Enrique Gil y Robles, op. cit., p. 236.
  20. Leone XIII Enciclica Libertas praestantissimum, del 20-6-1888, in Tutte le encicliche, op. cit., p. 413. [Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, "Presente nel cuore di ogni uomo e stabilita dalla ragione, la legge naturale è universale nei suoi precetti e la sua autorità si estende a tutti gli uomini. Esprime la dignità della persona e pone la base dei suoi diritti e dei suoi doveri fondamentali: 'Certamente esiste una vera legge: è la retta ragione; essa è conforme alla natura, la si trova in tutti gli uomini; è immutabile ed eterna; i suoi precetti chiamano al dovere, i suoi divieti trattengono dall'errore... E' un delitto sostituirla con una legge contraria; è proibito non praticarne una sola disposizione; nessuno poi ha la possibilità di abrogarla completamente (Cicerone, La repubblica, 3, 22, 33)", n. 1956, n.d.t.].
  21. Cfr. Juan Donoso Cortés, "Discorso sulla dittatura" e "Discorso sulla situazione spagnola", in Obras completas, B.A.C., Madrid, 1970, tomo I. Cfr. Gabriel de Armas Medina, Donoso Cortés, su sentido trascendente de la vida, Editorial E.T., colecciòn Càlamo, Madrid, 1953, pp. 159 e succ. Eugenio Vegas Latapie: Carta pròlogo a un estudio de Gabriel de Armas sobre Donoso Cortés, nel volume precedente.
  22. Cfr. Juliàn Gil de Sagredo, "La libertad de enseñanza...", op. cit.
  23. Lucien Morin, "Les charlatans de la nouvelle pédagogie", Presses Universitaires de France, Vendôme, 1973, p. 9. Cfr. Capitolo X, ultima parte.