SECONDA PARTE
LA RIFORMA DELL'INSEGNAMENTO: SOVVERSIONE E RIVOLUZIONE NELL'INSEGNAMENTO

 

 

CAP. V - La statalizzazione dell'insegnamento

La rivoluzione e la sovversione stanno attualmente compiendo rapidissime catastrofi nella società. L'insegnamento é uno dei campi nei quali ciò si manifesta nel modo più allarmante e crescente. La cosa é totalmente comprensibile, dato che dall'educazione degli uomini, dalla loro formazione, dipenderà tutta la vita sociale. Se si educa e s'insegna la rivoluzione si arriverà, forzatamente, alla rivoluzione nella società: l'ordine sociale sarà distrutto perché, essendo basato sui pilastri dell'ordine naturale e della dottrina cattolica, radicalmente contrari alla rivoluzione, sarà totalmente sradicato da questa.
Il pericolo maggiore, o uno dei principali, é costituito dall'idea secondo cui le riforme dell'insegnamento che vengono proposte e si stanno realizzando, non sembrano altro - ad uno sguardo superficiale - che il metodo, il modo razionale ed efficace di avere un insegnamento adeguato.
Per questo motivo tratteremo svariati punti che, sotto l'apparenza di riforme necessarie (come sono costantemente qualificate da parte di chi le propone e dai mezzi di comunicazione), mirano ad eliminare la libertà dell'uomo.

5.1 La statalizzazione dell'insegnamento: un’inversione di valori.

La prima e fondamentale di queste riforme cerca e pretende di porre ogni insegnamento, in tutti i suoi ambiti e livelli, alle esclusive dipendenze dello Stato. Le misure per raggiungere quest'obiettivo sono molteplici e possono svolgersi in modo diretto o indiretto.
Abbiamo visto in precedenza (1) quale sia la competenza dello Stato in materia educativa: segnaliamo ora l'assoluta necessità della separazione del potere politico dal potere culturale.
In altro luogo (2) abbiamo detto che senza tale separazione la schiavitù dell'uomo diverrà completa, perché "il suddito scolarizzato assimilerà nel periodo della sua formazione e apprendistato tutto ciò di cui lo Stato vuole nutrirlo, trasformandosi in suo fedele seguace e docile strumento per quanto gli verrà comandato in qualunque campo: la schiavizzazione dell’uomo sarà completa e ottenuta col suo consenso, dato che con le nuove tecniche neppure la sua intimità personale resterà al di fuori del potere dello Stato. Una schiavitù mai sognata - continuavamo -, che rende le precedenti un gioco da bambini. L’uomo potrà forse avere un alto livello di vita, disporre di grandi risorse materiali (cosa che é pure discutibile), ma potrà usarle solo per ciò che lo Stato permetterà, nel modo e luogo che questo vorrà. Ma la sua capacità di discernimento resterà mutilata, se non completamente annullata, essendo deformata dalla legislazione statale ed esercitata nell’ambito definito dallo Stato e nella direzione da questo stimata conveniente: con ciò perderà l’esercizio reale di ciò che lo caratterizza e lo distingue in quanto essere razionale".
Segnalavamo, ancora, come l'unione del potere politico e di quello culturale - che altro non é che la statalizzazione dell'insegnamento - avrebbe posto fine alla civiltà.
Prima di vedere quali siano le strade per cui si giungerà alla schiavitù più completa e alla rovina della civiltà, è necessario segnalare la totale inversione di valori verificatasi in merito al soggetto e alla funzione dell'insegnamento, al punto che lo stesso termine "insegnamento" non può essere adoperato per entrambi i presupposti, giacché indica due cose totalmente diverse.

Si giunge alla rivoluzione e alla sovversione nell'insegnamento per due strade che, se partono dallo stesso concetto rivoluzionario della vita, si manifestano in modo differente e a volte (apparentemente) contrapposto. Di una di queste manifestazione é difficile, senza un'analisi dei suoi orientamenti, avvertire il significato sovversivo e rivoluzionario, essendo perciò quella più pericolosa.
La prima di queste manifestazioni, quella più chiara e facile da avvertire, é la sovversione illegale, che si manifesta col combattere il sistema politico del mondo occidentale e la sua organizzazione sociale, fondata (sebbene molte volte sia quasi impossibile riconoscerlo) sulla civiltà cristiana. E' la sovversione studentesca, riscontrabile da un lato nelle turbolenze degli studenti e, dall'altro, nell'insegnamento di molti professori. Questi ultimi, contrariamente a quanto ci si sarebbe potuto aspettare, sono lasciati sulle loro cattedre dal potere politico che combattono, mentre mira alla conservazione un ordine sociale (più o meno perfetto) che quei professori vogliono corrompere dalle loro cattedre.

Tuttavia, c'è un'altra manifestazione di questa sovversione e rivoluzione nell'insegnamento, sostanzialmente identica, che combatte la medesima concezione cristiana e naturale dell'uomo, dell'ordine sociale e politico.
Questa manifestazione della rivoluzione (che abbiamo detto essere difficile da individuare senza un'analisi dei suoi orientamenti), si svolge, si sta realizzando legalmente, con l'acquiescenza incosciente o cosciente del potere politico. E' quella che viene realizzata in molti paesi attraverso le riforme educative che, tutte, vengono elaborate sulla base delle direttive dell'UNESCO: é una cosa nota a tutti, specialmente nella nostra Patria, dato che lo stesso potere politico lo proclama apertamente ed orgogliosamente. Esse, a causa della inversione e sovversione di valori che implicano, costituiscono una vera rivoluzione, nel senso che al termine Rivoluzione ha dato Albert de Mun (3).
Nel 1972, l'UNESCO ha pubblicato un libro che porta come titolo nella sua edizione francese quello di Apprendre à être (4) - la cui traduzione significa "imparare ad essere" -, che il nostro ministro Villar Palasì ha recensito in un articolo nel quale segnala che l'educazione e l'insegnamento hanno come fine che l'uomo "impari ad essere", concernono "l'imparare ad essere". Diversamente, l'insegnamento e l'educazione non sono altro che un mezzo per raggiungere determinati fini, in cima ai quali s'innalza quello fondamentale ed eccelso della salvezza eterna, e non, come si sostiene, quello di imparare ad essere. Siamo di fronte ad una concezione secondo cui l'uomo non é, vale a dire, non costituisce un essere con dei fini: ecco quel che, in definitiva, tale espressione comporta. L'uomo non é; egli diviene continuamente e costantemente (educazione permanente) senza che mai sia, il che non é altro che la concezione marxista di tutto il reale. Il reale, per il marxismo, non é, ma diviene: é sempre in evoluzione e varia, permanentemente. Da questo continuo cambiamento, da questo farsi permanente dell'uomo, sorge l'assenza di fini concreti, immutabili e soprannaturali da raggiungere: é questa la concezione dell'uomo per l'UNESCO. Nonostante l'accettazione di questo concetto sia difficile, per tale concezione l'uomo non esiste (se ci si riferisce al concetto aristotelico tomista di esistenza ed essere), dato che deve continuamente farsi, imparare ad essere.

Tutto questo ha un'enorme importanza: il significato di quel continuo farsi dell'uomo, di quel cambiamento permanente, altro non é che la negazione della sua condizione di essere razionale e libero. Ciò implica la negazione della sua individualità e personalità, d'ogni fine trascendente e spirituale: l'uomo diventa uno strumento. Ed uno strumento maneggiato e diretto, in un compito costante e non mai finito, da coloro che elaborano i piani stabiliti dall'UNESCO o dai poteri che accettano tale concezione legandosi ad essi.
In questa concezione e condizione, quanto abbiamo detto dell'insegnamento (5) non ha alcun significato, ma é solo il frutto di un passato che, in "un mondo in cambiamento", "un mondo in divenire", spiazza e che cerca di imporsi autoritariamente. E', ancora una volta, il vento della storia al cui soffio ci si deve arrendere e, prigionieri di esso, con la cui permanente trasformazione occorre collaborare. E' il materialismo marxista che si é impadronito, coscientemente o incoscientemente, delle linee guida dell'insegnamento. L'uomo diviene uno strumento in mano al potere politico - nazionale o sovranazionale - che per mezzo dell'insegnamento ed unito al potere, sarà maneggiato a piacimento e bisogno.
Con questa rivoluzione, questa sovversione del concetto dell'insegnamento e dell'uomo, non c'è più alcun valore stabile, immutabile, permanente.
E' chiaro che la statalizzazione dell'insegnamento é una tappa necessaria ad ottenere quel cambiamento permanente, quel farsi continuo, quell'imparare ad essere.

5.2 Dottrina cattolica e socializzazione

Innanzi tutto, sembra conveniente segnalare - per lo speciale valore vincolante nei confronti dei cattolici - la dottrina di Santa Madre Chiesa sulla socializzazione.

Il socialismo, soprattutto a partire da Leone XIII (6), é stato condannato ripetute volte, come é ammesso e riconosciuto da tutti. Le divergenze sorgono - a causa di una mancanza di autorità ed infiltrazione d'idee - nei periodi dei pontificati di Giovanni XXIII, il Concilio Vaticano II e Paolo VI.
Tuttavia, anche essi hanno condannato il socialismo, sia direttamente che per riferimento a documenti precedenti o tornando a proporre il principio di sussidiarietà. E', comunque, necessario segnalare che:
a) quanto é stato condannato come incompatibile con la dottrina cattolica e la natura umana, non può essere diventato compatibile oggi, posto che la dottrina cattolica é immutabile e la natura umana resta sostanzialmente sempre identica;
b) la condanna del socialismo appartiene al Magistero ordinario della Chiesa e che molte questioni sostenute dal socialismo sono incompatibili col Magistero perenne e straordinario;
c) tanto il Magistero ordinario quanto quello solenne sono vincolanti per i cattolici. Pertanto non si può né si potrà giammai cooperare col socialismo;
d) é d’obbligo per tutti gli uomini, e specialmente per i cattolici, il procurare l’ordine sociale, il che é incompatibile col socialismo;
e) pertanto, in materia di educazione ed insegnamento, é obbligatorio per i cattolici il resistere alla leggi e disposizioni che contrastano con la dottrina cattolica, perché si deve obbedire a Dio prima che agli uomini.

5.3 Strade che conducono alla statalizzazione dell'insegnamento

5.3.1 L’insegnamento obbligatorio

Non seguiremo l’ordine storico e cronologico della crescente statalizzazione dell’insegnamento; pertanto, non faremo riferimento ai suoi inizi con le intromissioni assolutiste dello Stato nell’insegnamento che - da secoli - veniva impartito dalla Chiesa: tratteremo di quelle che oggi ci sembrano più importanti e pericolose.
"L’aberrazione socialista e l’interesse pratico - scriveva Enrique Gil y Robles - dai quali procede l’erroneo principio dello Stato docente, contrario all’autarchia individuale, familiare e sociale in quest’ordine della vita e del Diritto, hanno generato anche il moderno "dogma" dell’insegnamento obbligatorio, il cui limite ed obiettivo non é ancora stato fissato dalla politica nuova, perché l’assurdo la porterebbe alle conseguenze logiche più estremistiche ed odiose.
"Dalla verità secondo cui lo Stato é interessato all’istruzione dei componenti la nazione, non pochi trattatisti e politici hanno tratto la conclusione che non solo lo Stato deve insegnare, ma pure che l’obbligo di apprendere si trasforma in un dovere giuridico, sanzionato dal potere civile con la coazione e le pene relative, supponendo, con un grossolano sofisma, che una persona deve fare tutto quanto é di suo interesse e che lo Stato é chi meglio ed esclusivamente può fare quel che é d'interesse della società nazionale.
"La conseguenza di questa tesi sarebbe l’imposizione di tutti gli insegnamenti (non solo di quelli fondamentali e comuni), ma anche - sulla base delle attitudini - di quelli professionali, lo Stato scatenandosi nelle occupazioni e le stravaganti minuziose organizzazioni in cui va a finire il socialismo radicale. Perciò, quando lo Stato si ferma alla soluzione socialista più attenuata e dottrinale, si limita a dichiarare obbligatorio il primo insegnamento elementare, costringendo i genitori, per mezzo di alcune sanzioni, a che i figli la ricevano.
"Anche se l’esistenza di una situazione così forzata (nella quale lo Stato - con i genitori che dimenticano il loro dovere - fosse nella situazione di imporre tale obbligo per ragioni formali non diverse da quelle dell’alimentazione corporale) non ripugna, non é tuttavia possibile stabilire nella pratica la necessità di trasformare in dovere giuridico - e di giurisprudenza statale - un dovere puramente etico. Infatti, si deve tenere conto che l’insegnamento strettamente indispensabile al compimento delle finalità umane (e di conseguenza quello di supremo interesse individuale e nazionale) é quello che non deborda dall’educazione sulla totalità dei doveri dell’uomo nei confronti di Dio, di sé stesso e dei suoi simili. Quest'insegnamento (che per avere senso etico é necessario che abbia pure il fondamento e lo spirito religioso dell’unica vera religione), è fornito dalla Chiesa attraverso svariate vie ed organi di catechesi, con un’attrattiva e delle sanzioni che hanno un’efficacia maggiore persino di quella dello Stato" (7).

Che si neghi, in pieno XX secolo, il "dogma" dell’obbligatorietà dell’insegnamento, sembrerà a molti una cosa aberrante, segno di pazzia, classismo o mentalità reazionaria. Tuttavia, la questione merita una riflessione più ampia.

L’insegnamento e l’educazione - lo ripetiamo ancora - non sono la stessa cosa. L’educazione si acquisisce fondamentalmente nell’ambiente familiare e, per l’aspetto religioso, nella catechesi della Chiesa (8). Quest'educazione, normalmente, é quella sufficiente a che l’uomo conosca i doveri che ha "verso Dio, se stesso e i suoi simili", in quanto uomo.
L’insegnamento - sia quello elementare, secondario e medio - acquisito nelle scuole e nei collegi, é accessorio al compimento di quei doveri. Se l’educazione fallisce, difficilmente potrà essere sostituita dall’insegnamento. E’ certo che l’insegnamento può perfezionare lo svolgimento di quei doveri dell’uomo e contribuire al migliore sviluppo dello stesso, ma può anche corromperlo. In questo caso, sostenere l’obbligatorietà dell’insegnamento, é la strada più facile e sicura per distruggere l’uomo e la società.
La questione verte sulla possibilità - in conformità al diritto - da parte dello Stato di stabilire l’obbligatorietà coattiva dell’insegnamento. Se si risponde in modo affermativo, la bontà o perniciosità dell’insegnamento diviene un fatto secondario. Se é un dovere giuridico esigibile dallo Stato, lo é indipendentemente dalla qualità dell’insegnamento: la funzione di esso passa in secondo piano davanti al primato del dovere giuridico esigibile, all’obbligatorietà dell’insegnamento.
Così, lo stretto obbligo dei genitori dovrebbe fermarsi all’educazione: il di più non può essere loro richiesto dallo Stato; e questo sia per non avere titolo per poterlo esigere che per le perniciose conseguenze che derivano da tale principio.

In primo luogo lo Stato - non avendo potere docente -, manca del titolo necessario per imporre l’obbligatorietà dell’insegnamento, indipendentemente dal fatto che esso sia o non sia statale. Lo Stato é incaricato del bene comune temporale: può esigere quell’obbligatorietà? Se il diritto sull’insegnamento dei figli spetta ai genitori, esso è eliminato alla radice con l’obbligatorietà dell’insegnamento, che é esigibile indipendentemente dallo stesso. Ma se ci si riferisce al concetto di base del bene comune tale principio non può essere sostenuto. Inoltre, se lo si porta alle sue ultime e logiche conseguenze, lo Stato potrebbe imporre alle persone lo studio di una specializzazione (la società ha bisogno di uomini specializzati), il che é assolutamente impensabile, perché è possibile un’imposizione fisica ma non quella intellettuale: allo stesso modo tale istruzione, per quanto benefica per la società, non può essere imposta coattivamente.

Secondariamente, per le conseguenze che derivano dall’obbligatorietà. Se lo Stato può coattivamente esigere la frequenza ai centri d'insegnamento, cioé rendere l’insegnamento obbligatorio, essa si trasforma in fine, mentre, in realtà, non é fine a sé stessa ma é solo un mezzo. In altre parole, la funzione svolta dall’insegnamento (l’istruire nella verità - in qualsiasi campo - avendo come fine la perfezione umana e sociale) viene annullata e resa secondaria: tanto il suo oggetto quanto il suo fine risultano indifferenti se paragonati al primato che si concede al dover frequentare i centri d’insegnamento, di qualunque tipo siano e indipendentemente dal genere di insegnamento impartito. L’insegnamento può così trasformarsi nella più potente macchina di corruzione. Non stiamo stravolgendo le cose, né esagerando le conseguenze dell’obbligatorietà dell’insegnamento: a parte il fatto che non é possibile negare quella trasformazione e conversione da mezzo a fine, dal punto di vista storico, l’apparizione del "dogma" dell’obbligatorietà dell’insegnamento fu congiunta al liberalismo e al socialismo, con la conseguente corruzione religiosa, morale e sociale del bambino.
L’obbligatorietà dell’insegnamento non significherebbe nulla se, nel caso d'inosservanza, lo Stato non mettesse in movimento il suo apparato coercitivo. Ciò é indubitabile: i genitori che rifiutassero di mandare i figli nei centri d’insegnamento verrebbero, in un modo o nell’altro, privati della patria potestà.
Argomentare che l'obbligo va a favore dei figli, oppure che è imposto perché i genitori sono degli irresponsabili, é totalmente sofistico. E’ proprio per la responsabilità che i genitori hanno verso i figli, che essi hanno tutto il diritto - e a volte l’obbligo - di impedire che i figli frequentino detti centri. Sono proprio l’amore e la responsabilità a stabilire l’impossibilità dell'obbligatorietà: cosa accadrebbe se l’insegnamento dovesse corrompere i figli? E, in questo caso, si potrebbe esigere dai genitori che mandassero i figli in istituti dove verranno corrotti?
Quando la scuola é nociva, i genitori hanno l’obbligo di sospendere la frequenza dei figli, cosa ricordata da Pio XI ai cattolici messicani: "A tutti i cattolici messicani s’impongono due gravi precetti: l’uno negativo, che é di tenere quanto é possibile lontani i fanciulli dalla scuola empia e corruttrice" (9); e nella Divini illius Magistri, ove segnala la proibizione per i cattolici della frequenza alla scuola laica (10).
La messa in pratica del "dogma" dell’obbligatorietà dell’insegnamento può corrompere ma, quand'anche questa non fosse corruttrice in sé, può avere altre conseguenze, come la morte della vita familiare (come avviene con l’imposizione obbligatoria delle concentrazioni di scolari e degli asili nido), conseguenza dell’errore di dare priorità all’istruzione rispetto alla famiglia o all’integrità morale, senza le quali l’istruzione non significa nulla e perde di senso.
L’obbligatorietà dell’insegnamento non é solo nociva quando produce effetti perniciosi, ma é lo stesso principio che ne permette l’istituzione a renderla tale.
L’obbligatorietà dell’insegnamento si é sviluppata contestualmente alla scuola neutra o laica in Francia, passando quindi in Spagna. L’obbligatorietà é un modo per ottenere - con la statalizzazione dell’insegnamento - che i sudditi, posti sin dalla più tenera età scolare nelle mani dello Stato, divengano quel che esso vuole.
Non si deve dimenticare che l’obbligatorietà dell’insegnamento é strettamente connessa - almeno in Francia e Spagna - alla statalizzazione dello stesso. Quello che oggi si ritorna a pretendere é che l’insegnamento obbligatorio sia anche laico, gratuito e si svolga in scuole pubbliche o statali. Qualunque sia la denominazione che si dà a questo tipo di scuola o insegnamento (sia prima che attualmente), quel che si vuole é che, forzatamente e obbligatoriamente, i bambini vadano ad una scuola pubblica o statale, in cui tutti riceveranno un insegnamento uniforme e laico.
Come indica Guy Avanzini (11) "agli occhi dei leader politici che la imposero, del partito repubblicano che la sosteneva, e di diversi settori dell’opinione pubblica che la approvavano, la scolarità obbligatoria costituì un elemento decisivo della politica "sinistrorsa" che si voleva instaurare, evidenziata dall’introduzione - da parte di Jules Ferry nel 1882 - tra gli altri aspetti, del positivismo di Comte, col quale avrebbero avuto termine "per evaporazione le tracce della mentalità teologica o metafisica" " (12).

Ciò nonostante, si potrebbe obiettare che se lo Stato esigesse solo l’obbligatorietà dell’insegnamento (senza aggiungere l’obbligo di frequentare le scuole statali e lasciando la libertà di frequentare quelle private), non ci sarebbe violazione di alcun diritto, ma solo l’esigenza che i suoi sudditi ottenessero un determinato grado d’istruzione, necessario al bene comune e della persona.

Ma cosa succederebbe se le scuole private non funzionassero o esistessero, ovvero se non fossero sufficienti per soddisfare la domanda dei genitori? E se a giudizio dei genitori queste scuole non possedessero le condizioni necessarie per l’educazione dei figli? La scuola, infatti, non può limitarsi all’istruzione, ma deve collaborare nell’opera educativa; non può limitarsi ad istruire ed ancor meno può essere fonte di corruzione. E se in quest’ultimo caso i genitori non fossero in condizione di aprire scuole private perché i figli venissero formati in accordo coi loro desideri? Come verrebbero rispettati in questo caso i diritti delle famiglie?
Che l’insegnamento sia statale o meno, la sua obbligatorietà non può essere imposta, in quanto non dipende da questo aspetto. Il fatto che allo Stato sia interessato ad una maggiore istruzione dei suoi sudditi, non significa che possa imporla coattivamente. Tutto quel che porta benefici alla società e all'uomo é d'interesse dello Stato, ma ciò non costituisce un titolo sufficiente perché lo imponga ed esiga coattivamente.
D'altra parte, tutto il corpo sociale é interessato all'istruzione dei propri membri: il buon funzionamento della società é la migliore e maggiore garanzia dell'insegnamento, cosa che però sembra essere dimenticata quando si ritiene che lo Stato (in una concezione onnisciente e onnipotente dello stesso, che porta alla morte sociale e personale) sia l'unico a conoscere quel che é buono per la società e per l'uomo.
Inoltre, la scuola non é l'unica modalità con cui le persone si educano ed istruiscono (13), né vi é motivo per stabilire un'età scolare minima uguale per tutti.

Negli Stati Uniti, la resistenza alle disposizioni delle leggi che stabiliscono l'obbligatorietà della frequenza scolastica é stata portata in tribunale. Secondo quanto riferisce Good "i tribunali hanno affermato il diritto dello Stato nell'approvazione ed imposizione del compimento del disposto di queste leggi. In un caso presentatosi nell'Ohio, nel 1877, il tribunale affermò che, sebbene i genitori avessero dei diritti sui figli, la loro autorità non era esclusiva. Dichiarò che "il consenso dei minori" é di "importanza primordiale", e che lo Stato può interferire nella libertà dei genitori nell'interesse del bambino" (14). Orbene, con questo criterio scompare la patria potestà e i diritti e doveri inerenti alla paternità: se é lo Stato o i tribunali che definiscono in cosa consiste il "consenso del minore", s'intromettono nella più intima e sacra di tutte le istituzioni sociali, che é proprio la famiglia.
Per sviluppo logico del principio, di quel principio, si arriverebbe alla conseguenza verificatasi nell'Unione Sovietica, in cui, come dice Octavi Fullat, secondo l'articolo 41 del codice del 1927, i genitori divengono rappresentanti dello Stato all'interno della famiglia, posto che "i figli appartengono allo Stato prima che alla famiglia" (15).
Il fatto é che, sebbene sia certo che lo Stato - attraverso i tribunali ed in casi molto concreti - può provvedere al benessere del minore di fronte a una condotta nociva dei genitori, giungendo anche a privarli della patria potestà, é certo che non si può generalizzare per tutte le famiglie quanto è possibile solo per casi singoli e particolari. Non si può pretendere che, nell'interesse dei figli, si possano imporre prescrizioni ai padri di famiglia (che, di fatto, annullano il concetto stesso di paternità), posto che quest'ultima non si riferisce solo alla generazione, ma anche al sostentamento e all'educazione. Quel che, invece, non é certo, é che lo Stato debba vegliare in modo sistematico e generalizzato sul benessere dei minori, perché i loro genitori non sanno (o non conoscono bene quanto lo Stato) quel che é meglio per loro. In questo modo lo Stato è considerato come soggetto di diritti e doveri sui minori con priorità su quelli dei genitori, col che la famiglia cessa di esistere.

E' certo che le leggi dei diversi paesi degli Stati Uniti lasciano libertà di frequentare scuole pubbliche o private, purché ciò avvenga per tutta la durata stabilita dalla legge statale (16). Orbene - senza negare che in questo modo è permessa una certa libertà rispetto alla frequenza obbligatoria in una scuola unica -, il problema consiste nella liceità dell'imposizione da parte dello Stato, indipendentemente dal tipo d'istituto scolastico frequentato. Crediamo di aver addotto sufficienti argomenti per dar fondamento ad una risposta negativa, messa in risalto anche da un'altra angolazione: sempre negli Stati Uniti si é verificato un altro caso relativo a questo tema.
Nel 1922, nello Stato dell'Oregon, venne promulgata una legge che sopprimeva tutte le scuole primarie private, costringendo, di conseguenza, i bambini a frequentare le scuole statali. Come indica Good, "nel cosiddetto caso Oregon, la Corte Suprema ha negato a qualunque Stato il diritto di sopprimere le scuole private per il solo fatto d'essere tali, ovvero di esigere che tutti i bambini frequentino le scuole pubbliche" (17) "Nel 1925 la Corte Suprema, in riferimento al caso Meyer versus Nebraska (1923), ha dichiarato che "la legge del 1922 interferisce senza motivo con la libertà che hanno i genitori e i tutori per dirigere l'educazione dei bambini posti sotto il loro controllo"... Il bambino non é una creatura dello Stato" (18).
"Solo quando una legge dello Stato o un atto dei suoi tribunali sembra contrario alla legge federale, è portato davanti alla Suprema Corte degli Stati Uniti. Nei casi citati, quest'alto tribunale ha sentenziato che le autorità scolastiche, i genitori e gli alunni hanno attribuzioni e diritti che lo Stato non può violare" (19).
Vale a dire che, se i genitori e tutori hanno la libertà di "dirigere l'educazione dei bambini posti sotto il loro controllo", se "Il bambino non é una creatura dello Stato", se "i genitori hanno attribuzioni e diritti che lo Stato non può violare", si deve di conseguenza concludere che lo Stato non può imporre coattivamente la scolarità obbligatoria, cosa indirettamente riconosciuta dalla sentenza relativa al caso Oregon: l'insegnamento obbligatorio, viola quei diritti inviolabili.
Se ai genitori competono diritti e doveri - prioritari rispetto a quelli dello Stato - relativi all'educazione dei figli, in un dato momento essi possono ritenere nocivo non solo l'insegnamento nelle scuole statali, ma anche quello delle private, cui potrebbero mandare i figli. Possono anche reputare che sia meglio mandarli a scuola più tardi, oppure decidere per una frequenza di durata inferiore, educandoli ed insegnando loro direttamente od affidando l'incarico ad altre persone da loro incaricate.
In definitiva, la sentenza del caso Oregon riconosce che il diritto dei genitori nell'educazione dei figli é fondato sull'ordine naturale; é un Diritto Naturale che stabilisce la priorità di diritti della famiglia sullo Stato, perché è l'unico modo di intendere, eccettuati i sarcasmi, la frase secondo cui "i genitori hanno attribuzioni e diritti che lo Stato non può violare". Ed il Diritto Naturale scompare se al posto dei genitori si sostituisce lo Stato e s'impone ai bambini l'obbligo di andare a scuola, in contrapposizione alla volontà meditata e ragionevole dei loro genitori.

5.3.2 La gratuità dell’insegnamento

Come frutto dell'utopico ideale socialista e dei suoi perniciosi principi, si sta insinuando, tanto nelle menti degli uomini che nelle loro realizzazioni pratiche, un nuovo "dogma", che impone d'autorità una tesi, presentata come fosse un principio inviolabile: quella secondo cui si ritiene che l'insegnamento debba essere gratuito. E' un principio che, se applicato, porta inevitabilmente - lo si voglia o meno - al trasferimento dell'insegnamento allo Stato.

Tra le conseguenze più visibili della gratuità dell'insegnamento (20), si possono enumerare quelle di seguito esposte.

5.3.2.1 La proibizione di usare i mezzi economici della famiglia per l'insegnamento.

Essendo obbligatoriamente gratuito, é chiaro che l'insegnamento sarà indipendente dai mezzi economici di cui dispongono i genitori: nell'opera educativa essi si troveranno privati della possibilità di disporre dei propri mezzi economici per educare i loro figli.

5.3.2.2 La soppressione della libertà di scelta dei genitori nell'educazione.

Nonostante la gratuità sia frequentemente sbandierata come "l'unica forma con cui realizzare il diritto di tutti i genitori a scegliere l'istituto scolastico per i figli" (21), la sua conseguenza é esattamente contraria: la gratuità elimina quella libertà di scelta.
Come sarebbe regolamentata l'iscrizione ai centri d'insegnamento? Supponendo che il numero dei posti per studenti fosse sufficiente, chi deciderebbe quali alunni andranno nelle diverse scuole? La sollecitudine paterna? Se così fosse, avremmo indubbiamente alcuni istituti con molte più richieste dei posti effettivamente disponibili, ed altri con molte meno di quelle che potrebbero accogliere. Per rendere effettiva tale libertà - portata come argomento a favore della gratuità -, i centri d'insegnamento dovrebbero essere di natura tale che tutti i loro elementi fossero - in ogni momento, automaticamente e perfettamente - adattabili alla domanda. Cosa che, inutile dirlo, é impossibile.
Ma, allora, quale sarà il criterio? Qualunque criterio venga adottato, andrà contro la libertà, posto che l'adattamento é impossibile per incompatibilità.
Perché, allora, invocare quel pretesto per impiantare la gratuità, se essa é impossibile e irrealizzabile? Tutti i criteri di selezione saranno autoritari, estranei alla volontà dei genitori e, pertanto, contrari a quella libertà. Se é lo Stato che, in definitiva, decide per ogni bambino la scuola da frequentare, perché parlare di libertà di scelta? I criteri, qualsivoglia siano, saranno d'imposizione statale. E tra tutti i criteri che si possono scegliere, ce ne é uno particolarmente odioso: quello della selezione intellettuale. A parte il fatto che i genitori - qualora i figli ricadessero in tale gruppo - potrebbero non volere la frequentazione dei centri per intelligenti (e, senza espressa manifestazione, non si può presumere volontà favorevole a quella selezione e frequenza), ne deriva che questo sistema creerebbe due classi di esseri umani, di uomini, che saranno inconciliabili per sempre: quella degli intelligenti e quella "degli altri". Diseguaglianza questa, in verità, davvero perniciosa. E' stato affermato che l'intelligenza é così ben ripartita che nessuno si lamenta di quella che ha: tuttavia, in un sistema che sin da piccoli segnala gli uni come trionfatori o intelligenti e come falliti "gli altri" (cosa che avviene con la selezione paventata), la vita sarà realmente impossibile, per quanti intelligenti vi siano.

La gratuità dell'insegnamento non é altro che la messa in pratica dell'errore funesto, prodotto dall'invidia e dall'egualitarismo, secondo il quale quel che non tutti possono avere, non deve essere di nessuno. Al contrario, abbiamo visto come un buon sistema d'insegnamento, all'interno del buon funzionamento sociale, non solo è garanzia della libertà di scelta, ma anche di tutti i diritti che i genitori hanno in materia educativa.

5.3.2.3 La dipendenza assoluta degli istituti scolastici dallo Stato.

Essendo l'insegnamento gratuito, tutte le scuole saranno tenute in vita dallo Stato, finendo col porre nelle mani di questo - e ovunque si estenda la gratuità - ogni l'insegnamento. Le scuole saranno costrette a seguire le direttive perché, altrimenti, smetteranno di ricevere il denaro statale e di conseguenza dovranno chiudere: per sopravvivere dovranno eseguire solo ciò che lo Stato comanda.
La gratuità è, pertanto, un mezzo con cui si sopprime l'insegnamento privato. Ogni insegnamento sarà identico: ma identicamente statale. Imponendo la gratuità (e quindi il dovere di eseguire le disposizioni statali, qualsiasi esse siano), le scuole d'ogni genere non si differenzieranno sostanzialmente le une dalle altre, e chi non applicherà le norme sarà costretto a chiudere.

5.3.2.4 La scomparsa della libertà d'insegnamento.

Dove si stabilisce la gratuità d'insegnamento, si porta il monopolio statale. E' l'usurpazione della funzione docente da parte dello Stato, l'asservimento dell'uomo per mezzo dell'insegnamento. La gratuità non é altro che un sofisma con cui si cerca di conquistare le masse, ma col quale s'instaura il monopolio statale che annienta la libertà.

Un caso a parte é quello che estende la gratuità solo a quanti la desiderano ma permette, a coloro che sono contrari, di inviare i propri figli in centri privati: si sostiene che, così facendo, la gratuità é un provvedimento magnifico. A parte la considerazione fondamentale, cosa che é stata già trattata e secondo cui allo Stato non compete in alcun modo la funzione docente, anche questa "innocua" proposizione é foriera di conseguenze molto pregiudizievoli.
La prima: chi opta per la possibilità di mandare i propri figli in una scuola privata, ossia non gratuita, non statale, dovrà pagare due volte l'istruzione dei suoi figli: dapprima attraverso le imposte (che sono il modo con cui lo Stato finanzia l'opera docente che ha usurpato), quindi con le rette del centro privato. Questa é una situazione ingiusta per due motivi: in primo luogo perché, essendo un legittimo diritto (e non una concessione dello Stato) il poter mandare i figli nell'istituto che si ritiene opportuno, la detrazione d'un importo per un insegnamento che i suoi figli non riceveranno é un'odiosa coazione. In secondo luogo, perché solo le persone che possiedano adeguati mezzi economici potranno mandare i figli in quei centri: è una discriminazione che va a scapito del più debole economicamente, di chi non potrà pagare due volte la scuola dei figli, ma che, invece - se non pagasse imposte per questa libertà -, potrebbe farlo.
La seconda: con l'esistenza dell'insegnamento gratuito per tutti quelli che lo desiderano, si fa concorrenza sleale all'insegnamento non statale, al quale invece compete tale missione. Lo Stato ha una tale posizione di forza che, entrando in concorrenza, può distruggere ogni insegnamento privato o lasciarlo per i soli "super - ricchi". La gratuità instaurata in modo generalizzato (non facciamo riferimento ora alle borse di studio individuali che lo Stato può dare, né alla sua missione sussidiaria) é incompatibile con l'insegnamento privato (22). In definitiva, la gratuità dell'insegnamento, anche quando si tenta di renderla compatibile con l'insegnamento privato, finisce col condurre alla statalizzazione completa, al monopolio statale.

5.3.3 I nuclei di concentrazione scolastica

Un'altra tendenza che si manifesta attualmente, é quella della creazione di centri d'insegnamento per concentrarvi gli alunni di villaggi e luoghi diversi.
Si suole dire che, senza tale concentrazione, ci sarebbero molti bambini che resterebbero senza insegnamento e, dunque, tali centri vengono imposti per il loro bene. Si ricorre, poi, ad argomenti economici, sostenendo che solo con tali concentrazioni é possibile disporre di mezzi adeguati per l'insegnamento che il mondo d'oggi richiede. Così, una sofistica argomentazione d'ordine economico distrugge la vita familiare, produce lo sradicamento e tutta una serie di danni, che sarebbero evitabili se si seguisse il sistema d'organizzazione per corpi intermedi, il quale non prevede tali concentrazioni scolastiche. Per il bambino, infatti, la cornice naturale nella quale si sviluppa la sua vita é molto più importante di tutti i progressi tecnici che tale concentrazione può fornire.
"La supposizione che l’insegnamento e la cultura - scrive Rafael Gambra - siano realizzabili o raggiungibili soltanto a scuola, studiando determinati contenuti e programmi su libri o seguendo lezioni, é frutto di una restrizione concettuale provocata dalla mentalità razionalistica [...]. Nei casi normali questi elementi che l’uomo riceve dall’ambiente familiare, circostante e vitale saranno - nell’insieme della sua cultura e della sua educazione - molto più profondi e decisivi di quanto possa in seguito ricevere da libri e centri di insegnamento" (23).
La creazione delle concentrazioni scolastiche costituisce una vera e propria deportazione, con cui i bambini sono allontanati dai propri genitori; una misura brutale e perniciosa, esercitata arbitrariamente dallo Stato e già praticata in Unione Sovietica e nella Cina di Mao. Mandarlo nelle concentrazioni, come segnala Gambra, "significa privarlo di qualcosa molto più importante per lui di quello che si pretende di dargli: significa frustrare in lui i suoi punti di riferimento basilari, la sua fede e le sue convinzioni profonde, il calore del focolare, e trasformarlo - in molti casi - in un uomo spiritualmente tarato" (24).
Tali concentrazioni scolastiche, contrarie al Diritto Naturale, sono frutto del concepire lo Stato come un ente docente o quantomeno supremo, onnisciente e onnipotente, di fronte al quale non c’è nulla - neppure l’uomo - che meriti di essere tenuto in considerazione. I nuclei di concentramento scolastico conducono alla statalizzazione dell’insegnamento perché nella loro stessa impostazione c’è un principio statalistico, ma soprattutto perché annientano la vita familiare e ambientale, trasformando l’uomo nel ricettore di quanto lo Stato vuole insegnargli: essendo l’infanzia la tappa più importante della formazione umana, l’uomo diviene uno strumento in mano allo Stato e viene da esso reso schiavo. I centri d’insegnamento - che in una società sana vengono creati dallo stesso corpo sociale -, devono essere costruiti dove sono i bambini, ossia dove sono necessari, invece di mandare i bambini di villaggi diversi allo stesso centro.
D’altra parte, oggi che l’eguaglianza sembra essere un ideale, le concentrazioni scolastiche sono totalmente anti egualitarie: i bambini del luogo in cui viene costruito il centro non dovranno essere portati in un altro villaggio, con un evidente vantaggio di questi sugli altri.

5.3.4 La rivoluzione e la sovversione, conseguenze della statalizzazione

In altro luogo abbiamo segnalato "l’errore di quanti credono che la concentrazione del potere fermi la Rivoluzione, o di coloro che credono, peggio, che sia il miglior mezzo per arrestarla. In un momento determinato - continuavamo -, specifico, può contenerla, farla rallentare: se però nello stesso tempo non si ricompone il tessuto sociale, non si é fatto altro che ritardarla, se non farla precipitare" (25). E’ quel che accade quando lo Stato si occupa dell’insegnamento come di cosa propria, contribuendo - direttamente ed indirettamente - alla sovversione e alla Rivoluzione. Questo accade per due ragioni: in primo luogo perché considerando l’insegnamento come un servizio che deve essere fornito dallo Stato, e quindi rendendolo statale, si adottano dei principi rivoluzionari. Secondariamente, perché con tale attività si danno motivi all’opera della sovversione, permettendole che la usi come base della contestazione.

Il fatto é che, come abbiamo detto in altro luogo (26), il fenomeno della sovversione universitaria (anche quando per ampiezza rivesta un carattere mondiale), non costituisce una caratteristica della gioventù studentesca d'oggi.
La sovversione é provocata dal comunismo e dagli agenti della Rivoluzione utilizzando, come slogan e pretesto su cui basare la loro azione, una serie di fatti che provocano disagio nell’attuale sistema universitario.
Uno di tali slogan, il quale in realtà non è usato che per dare forza all’azione rivoluzionaria, ma, invece é tutt’altro che auspicato, é costituito dalle libertà universitarie, dalle autonomie dell’Università (27).
E’ facile suscitare disordini partendo dalla richiesta di alcune libertà e di un’autonomia universitaria che non esiste: lo studente non ha legami che lo uniscono all’Università perché essi sono ridotti a rapporti amministrativi e burocratici con lo Stato. E, per lo Stato, egli non é altro che un numero fra gli altri, nell’insieme costituito dagli studenti universitari. Così, per la Rivoluzione, é facile attirare gli studenti assumendo come bandiera quella dell’autonomia: nella maggioranza di loro, da un lato, non ci si preoccupa dei veri problemi dell’educazione e dell’insegnamento, e, dall’altro, non si sente legati ed uniti ad un’Università amorfa e burocratica. In un’Università davvero autonoma, la Rivoluzione non riuscirebbe ad utilizzare la bandiera della lotta per la libertà e, d’altra parte, lo studente avrebbe dei legami - che oggi non esistono più - d’unione con l’Università; inoltre, egli sarebbe un’individualità peculiare e diversa dal resto dei suoi compagni, col conseguente arenarsi del processo di massificazione e una gestione dell’educazione svolta dai corpi intermedi e dalle famiglie, a ciò deputate dalla loro stessa natura. La Rivoluzione troverebbe il nemico più accanito in una società nella quale ogni individuo, famiglia e associazione, avessero le libertà ed i diritti loro spettanti: il suo progredire è, infatti, dovuto alla diffusione - nei suoi seguaci e nella società -, di una serie di idee e concetti erronei che dissolvono la società stessa e che, grazie a tale progressiva dissoluzione, fa avanzare e consolidare la sovversione e la Rivoluzione.

5.3.5 Obbligatorietà e gratuità: esigenze del Diritto Naturale?

Non manca chi, in modo più o meno velato, fonda l’insegnamento gratuito ed obbligatorio sul Diritto Naturale; chi afferma che tanto l’obbligo - imposto coattivamente dallo Stato - di recarsi nei centri d'insegnamento, quanto la gratuità - anch’essa data dallo Stato o da altri enti come il municipio o la regione -, sono conseguenze del Diritto Naturale; chi sostiene, insomma, che sia la gratuità e obbligatorietà dell’insegnamento, sono un Diritto Naturale.
Così, per esempio, per Dìaz Gonzaléz, "la dimensione sociale del diritto all’educazione della persona" é plasmata nel "dovere di educarsi" che é "esigito dalla legge e dal Diritto Naturale" (28), ed "un modo in cui questo dovere si concretizza nell’ordinamento giuridico statale é col dar corso alla scolarità obbligatoria degli Stati moderni" (29), essendo "principi di garanzia del diritto all’educazione [...] l’obbligatorietà e gratuità dell’insegnamento" (30). L'obbligatorietà per il fatto che "il diritto all’educazione implicava l’esigenza da parte della società, posto che non presupponeva solo un dovere individuale, ma un dovere sociale. E’ facoltà non mediata degli ordinamenti statali l’esigere questo dovere" (31); la gratuità perché "se si esige l’obbligatorietà e l’universalità, si dovrà dar corso ad eguali opportunità anche in campo economico [...] il principio della gratuità non deve proiettarsi unicamente nel sistema delle scuole statali ma anche, per il criterio della sussidiarietà e della giustizia (32), nelle scuole fondate da altre società, entità private o sociali, ed in questo modo conseguire l’uguaglianza d'opportunità per tutti gli alunni" (33).
Da un’altra prospettiva, si afferma che il diritto dei genitori nell’educazione dei figli "é un diritto inviolabile, ma non dispotico; lo si deduce dal dovere che i genitori hanno di educare i figli e rispettare l’ordine morale e la verità oggettiva. Una prova del carattere non assoluto di tale diritto la troviamo nell'obbligatorietà e gratuità dell’insegnamento, protette dalla legge positiva" (34).
Opinioni d'altri autori potrebbero essere citate come esempi di questa tesi, ma ciò esorbiterebbe dai limiti di questo studio; d’altronde quanto riportato é sufficiente per illustrare la posizione secondo cui, considerando il diritto all’educazione un Diritto Naturale, si vuole fondare la gratuità e obbligatorietà nel Diritto Naturale. E’ evidente che il Diritto Naturale non implica l’obbligatorietà né la gratuità; al contrario queste sono contrarie a quel diritto.

E’ certo che il diritto all’educazione é un Diritto Naturale della persona. Ciò vuol dire che ogni persona ha diritto ad essere educata, a ricevere un’educazione. Si tratta di un Diritto Naturale soggettivo, di una facoltà che appartiene all’uomo in quanto tale, di un diritto appartenente all’uomo per natura. Si avverta che se dal punto di vista della persona si tratta d'un diritto soggettivo, tuttavia, il fondamento di quel Diritto Naturale ha carattere totalmente oggettivo, cioé appartiene immediatamente all’uomo, come ha osservato Victor Cathrein: "a causa del Diritto Naturale oggettivo e delle relazioni costituite dalla stessa natura" (35). Il che vuol dire che, sebbene il diritto all’educazione sia un diritto fondamentale della persona, lo é indipendentemente dalle dichiarazioni positive che sono fatte al riguardo, siano esse dello Stato o Dichiarazioni o Trattati Internazionali. Quando le leggi positive stabiliscono o dichiarano il diritto della persona all’educazione, non fanno altro che recepire, riconoscendone l’esistenza previa, il Diritto Naturale all’educazione.
Orbene, la legge umana positiva riconosce e raccoglie il Diritto Naturale nel suo disposto con due modalità o forme: come conclusioni e come determinazioni. Le prime sono conclusioni necessarie dei principi primi del Diritto Naturale. Le seconde, invece, non contengono conclusioni necessitate dai principi primi, ma precetti che derivano da essi; sono precetti che non sono giusti o ingiusti di per sé, ma lo sono perché vengono determinati dalla legge (36): é la legge positiva che determina che deve essere fatto così, ma potrebbe anche essere fatto in modo diverso. Non avviene così per le leggi determinate nel primo modo (conclusioni necessarie), le quali non possono fare altro che raccogliere e plasmare quanto ha un modo determinato dalla natura.
Il diritto all’educazione, plasmato nelle leggi positive, deriva come conclusione dai principi primi del Diritto Naturale, mentre non si può alcun modo supporre che la stessa derivazione per l’obbligatorietà e la gratuità. Ma anche supponendo che queste ultime derivassero dal Diritto Naturale, potrebbero esserlo come determinazioni, giacché, ad esempio, il Diritto Naturale non dice se la scolarità debba durare dai sei ai quattordici anni, dai sette ai diciotto o qualunque altra età.
Ebbene, non dobbiamo dimenticare che stiamo facendo riferimento al diritto all’educazione come un Diritto Naturale della persona, cioè relativo al soggetto che ha diritto all’educazione. Tenendo presente questo, l’obbligatorietà e la gratuità sono in qualche modo di Diritto Naturale, nonostante l’apparente contraddizione con quanto escluso nei precedenti paragrafi. Il bambino è, infatti, soggetto alla patria potestà (lo stesso bambino che ha il Diritto Naturale ad essere educato, all’educazione) ed ha l’obbligo di sottomettersi alle prescrizioni che gli sono imposte per essere educato, tanto nel seno del focolare domestico che nel centro d’insegnamento. Per lui, essa é davvero obbligatoria e gratuita: non avendo propri mezzi di sostentamento, né la capacità di procurarseli ed essendo soggetto alla patria potestà, l’educazione e l’insegnamento gli devono essere impartiti gratuitamente.
Ma qui ci si ferma. Il Diritto Naturale non dice se l’educazione scolastica deve durare un numero determinato d'anni, né se deve essere sostenuta dallo Stato, dal municipio o dalla regione: sono invece questi gli aspetti cui si fa riferimento nelle odierne leggi positive relative alla gratuità ed obbligatorietà. L’obbligatorietà e gratuità, così come sono concepite dalle leggi positive attuali, se proprio fossero di Diritto Naturale, lo sarebbero come determinazioni, ma mai come conclusioni. E’ per questo che i periodi e gli ambiti della gratuità cambiano nelle diverse legislazioni.
Tuttavia, non si può parlare di diritti naturali neppure in quest’ultimo senso, perché il Diritto Naturale non é solo un insieme di norme, ma piuttosto e fondamentalmente un metodo. E’ un metodo in cui si discerne ciò che é giusto facendo attenzione a quanto é giusto per natura e a quanto é giusto perché di diritto positivo. Quanto é giusto per natura é attinente la natura della cosa stessa; quanto invece é d'origine positiva proviene dalla volontà del singolo, dalla volontà pubblica o dagli ordini del principe. Ed una cosa può essere naturalmente giusta in tutti e due i modi, sia considerandola assolutamente per se stessa che in relazione alle sue conseguenze (37).

Abbiamo già visto le conseguenze della gratuità e dell’obbligatorietà, il che ci porta a concludere che, in relazione alle sue conseguenze, non sono giuste, né sono un diritto, sia l’obbligatorietà che la gratuità.
Ma nonostante tutto, esiste un modo conforme al diritto in cui potrebbero essere imposte dallo Stato? In altre parole: quando lo Stato le impone, deborda o no dai suoi confini?

Se si guarda alla realtà sociale, al bene comune (non solo di questo momento ma anche dei successivi, delle future generazioni), al diritto dei genitori ad educare i propri figli, alla funzione di favorire lo sviluppo che ha lo Stato e al suo carattere sussidiario, la gratuità e l’obbligatorietà sono pregiudizievoli. Il bene che oggi si vuole ottenere finisce col produrre degli effetti peggiori di quelli che si cercano di evitare, impedendo beni maggiori (38). Con l’obbligatorietà e la gratuità si pretende di garantire l’accesso di tutti ai beni della cultura, salvaguardando il diritto d'ogni persona all’educazione. Ma questa visione risulta errata a causa della confusione consistente nell’identificare la giustizia ed il diritto con l’eguaglianza.
Che l’insegnamento non sia gratuito non vuol dire che chi manca di mezzi economici non ha accesso all’insegnamento. Un buon sistema d'organizzazione sociale, realizza in modo sussidiario e suppletivo quel che la gratuità pretende di ottenere in modo generale ed egualitario, con la tremenda differenza che non impedisce l’esercizio legittimo dei diritti impediti dalla gratuità e non cade negli effetti gravemente dannosi che essa comporta.
Che non si stabiliscano età obbligatorie d'insegnamento scolare non significa che gli abitanti della nazione rimarranno lontani dall’educazione e dall’insegnamento. Sono i genitori gli incaricati dell’educazione dei figli e lo Stato non può sostituirsi a loro, esigendo una scolarità obbligatoria che va a detrimento della patria potestà e che produce in modo più o meno evidente e rapido, secondo le circostanze, il trasferimento delle persone nell’orbita dello Stato totalitario, anche se nel suo aspetto esterno ed apparente sembra democratico. Se lo Stato ha il potere di chiedere la scolarità obbligatoria dai sei ai sedici anni, perché non dovrebbe averlo a cominciare dai due anni o persino per strapparli ai genitori dal momento della nascita? Non si dica che la prima scelta non implica la seconda, né che impossibile che ciò accada, perché non c’è ragione per supporre - ammesso il principio - che tale sviluppo non ci sarà; le attuali tendenze, inoltre, per lo stesso sviluppo logico delle idee che servono loro da base, portano a dar corso a scolarità obbligatorie che iniziano nei nidi (a due o tre anni) e, persino, a lasciare i bambini in istituti statali o comunali dopo pochi mesi dalla nascita.
Il Diritto Naturale all’educazione é un diritto concreto d'ogni persona, che in ogni caso si svolgerà in un modo determinato, con una regola specifica, a seconda del contesto concreto e caratteristico di ciascuno: in questo modo tutta la ricchezza della varietà della realtà sociale potrà intervenire nel processo educativo. Tale diritto si differenzia sostanzialmente da quello soggettivo (basato sulle moderne dichiarazioni di diritti che stabiliscono un diritto astratto, disincarnato dalla realtà sociale nella quale é inserita la persona), il quale mutila nel processo educativo tanto la varietà degli aspetti sociali, ambientali, familiari, intellettuali (e d'ogni altro genere concorrente a rendere più reale ed effettivo il processo educativo), quanto il diritto stesso della persona all’educazione.
L’obbligatorietà e la gratuità sono conseguenze del concepire tale diritto in modo astratto, del pretendere di renderlo identico ed uguale per tutti, e la cui giustificazione ultima si trova nell'ineludibile necessità di fare tutti eguali. Ma se il motivo ultimo degli atti umani o l’ultima e superiore giustificazione dell’attività dell’uomo consistesse nell’uguaglianza, non potremmo affatto lamentarci se in un domani ormai prossimo - e che é già possibile intravedere -, saremo riusciti a costruire un mondo disumano, un mondo di "uomini - massa", un mondo di robot in carne ed ossa: il "mondo nuovo" di Huxley o del "1984" di Orwell. Un mondo nel quale necessariamente la cultura e la civiltà scompariranno; nel quale non ci sarà più l’uomo. E tutto ciò soltanto per essersi l’uomo ribellato alla natura volutamente non scoperta e, senza dubbio, trasformata secondo idee fornite dalla sua intelligenza sradicata; intelligenza separata dalla natura per lo stupido intestardirsi nel credere di essere la misura di tutto e che le idee siano l’unica realtà. Una ribellione contro la natura e contro Dio, che lo precipita nell’abisso della sua stessa distruzione.

5.4 La perdita della libertà

5.4.1 L’argomento del bene comune

Nella difesa della statalizzazione dell’insegnamento, non é mancata la tesi secondo cui essa fosse da esigere in nome del bene comune, come ha segnalato Victor Pradera: "Lo Stato - si dice -, in quanto organo dell’autorità, deve dirigere gli uomini verso il bene comune e, di conseguenza, gli tocca d'insegnare a quanti devono essere diretti quel che devono conoscere in relazione a quel fine. Il sofisma su cui é sbadatamente fatta tale osservazione, non é tanto da profondo da non poter essere segnato a dito. E’ certo che l’autorità sociale dirige gli uomini verso il loro destino temporale, ma non indipendentemente dalla società, bensì come suo organo. Se l’autorità conosce il bene comune, non é perché lo scopre all’insaputa della società, ma perché ha ricevuto da essa tale conoscenza, così come riceve il potere necessario alla sua missione d’autorità. A quanto detto si deve aggiungere che, se l’Autorità dirige gli associati verso il conseguimento del bene comune, non sostituisce la società in tale conoscenza" (39).
Il fatto é che la tesi dell’insegnamento statale - che portata al limite logico conduce al monopolio statale - costituisce un totalitarismo completo, imposto niente meno che in nome del bene comune e - per dirla in termini più aggiornati e del sapore meno tomistico - del bene o dell’interesse sociale, prescindendo dalla società (che viene annientata) e mettendo al suo posto lo Stato. Perciò, la statalizzazione dell’insegnamento, come qualsiasi altra statalizzazione o socializzazione, annienta la libertà. Il suddito imparerà quel che lo Stato vuole che sappia e nel modo in cui vuole che lo sappia; ma lo Stato potrà inoltre dividere, classificare e dirigere gli uomini a determinati compiti, secondo il grado d'accettazione e di vincolo all’ideologia dello Stato. Così, costringerà gli alunni e le famiglie che non accetteranno la sua ideologia ad interrompere gli studi o a svolgere i compiti meno desiderati, mentre quelli che l’accetteranno godranno di privilegi. Questo accade non solo in Unione Sovietica (40) e negli altri paesi della Cortina di Ferro - come la Cecoslovacchia -, ma anche nel "diverso" paradiso socialista, che Cuba pretende d'essere. Così lo espone Donatella Zotta - in un libro (41) per nulla sospettabile di anticastrismo ma, anzi, ad esso favorevole -, quando segnala che "la valutazione dell’alunno si realizza [...] prestando una speciale attenzione alla sua posizione ideologica e morale in senso ampio, cioè alla sua coscienza e disponibilità rivoluzionaria"(42). La statalizzazione dell’insegnamento produce la perdita della libertà e, come chiusa, la scomparsa della libertà dell’uomo.
Lo sviluppo logico del principio dell’insegnamento statale, porta la totale soggezione allo Stato di tutto l’ambito della cultura, come segnalava Victor Pradera "se l’insegnamento orale - quello scolastico e dell’Università - é una funzione dello Stato e, pertanto, suo monopolio, non ci sarà alcuna ragione perché non lo sia anche quello scritto. E l’insegnamento scritto è costituito dalla stampa e dai libri. E’ inutile protestare per questa conclusione. E’ inutile che nel presentarla ai rivoluzionari, questi cerchino di snaturarla. La si trova in quella precedente come un’immagine nello specchio". (43). Di fatto, quella conseguenza si é già verificata in paesi come l’URSS o nelle autocritiche degli scrittori a Cuba (44). E non solo per quanto riguarda la cultura scritta, ma per ogni manifestazione culturale realizzata attraverso l’arte, la radio, il cinema o la televisione.
Perciò, é un’incoerenza il lamentarsi di altre socializzazioni o statalizzazioni - come quella della stampa (45), o della radio e televisione (46) - ed applaudire alla statalizzazione o socializzazione dell’insegnamento.

5.4.2 L’argomento del servizio pubblico

Per difendere la socializzazione dell’insegnamento - com'è accaduto per qualunque altra - si é sostenuto l’argomento secondo cui l’insegnamento costituisce un servizio pubblico, che in quanto tale deve essere soddisfatto dallo Stato. Ma quest'affermazione é un argomento sofistico, basata sul fatto che l'imprecisione nell'uso del linguaggio é una delle malattie di cui soffre la società attuale, così come veniva messo in risalto da un articolo pubblicato su El pensamiento Navarro (47).
La parola "socializzazione", nel suo senso più autentico, significa l'assorbimento da parte dello Stato delle funzioni proprie all'iniziativa privata o alle società infrasovrane o corpi intermedi. E' pertanto escluso quel significato che, impropriamente, la considera come intervento nella direzione o condivisione (con tutto il personale che interviene in una determinata attività) della gestione, il cui normale sviluppo si oppone a tale intervento o quantomeno non lo esige, in quanto inopportuno e non conveniente (così come quello che la considera come partecipazione nella dei destinatari o utenti di tale attività).
Si esclude anche l'altro significato, col quale a volte si confonde la socializzazione, ossia quello che la considera come svolgimento delle funzioni proprie dello Stato o della sua amministrazione, fatto dagli organi o funzionari ad esso propri (questa non é altro che la competenza in senso ampio, cioè l'operare nell'ambito delle proprie attribuzioni).

Anche il termine "servizio pubblico" deve essere precisato. Con esso s'intende, in primo luogo e nel suo senso più ampio e lato, ogni attività rivolta all'insieme della società; ogni attività il cui beneficiario é, o può essere, tutto il popolo, tutti gli individui indistintamente. Così, la difesa della nazione, la polizia, l'economia, l'insegnamento, la stampa, la sanità, l'agricoltura, l'alimentazione, l'esercizio della professione forense... ed in generale ogni attività "generalmente" considerata, in astratto, che si sviluppa nella società, ha, in quest'accezione, il carattere di servizio pubblico perché di essa beneficia generalmente il pubblico a cui viene diretta. In tale senso, all'interno del servizio pubblico vi sono attività esclusivamente statali come strettamente private, perché ciò che serve per caratterizzarle non é l'esercizio dell'attività (cioè il soggetto che le esercita), bensì il destinatario di essa.
In secondo luogo, più concretamente, quel che caratterizza il servizio pubblico, supponendo che venga destinato al pubblico, é l'esercizio dell'attività. Così, si é detto che sarà un servizio pubblico quello che, parlando in senso lato, é nelle mani dello Stato o di enti pubblici, vale a dire procede da essi. In questo senso, lo si é identificato con la totalità dell'opera amministrativa statale o, in un senso più ristretto, si é contrapposto il servizio pubblico alla funzione pubblica. Ma mentre il secondo si caratterizza per competere necessariamente allo Stato (come, ad esempio, la difesa della nazione), il primo, invece, può essere realizzato dai privati, e se lo assume lo Stato é per ragioni di convenienza o, più precisamente, d'utilità o sociali (ad esempio le ferrovie). In definitiva, quel che caratterizza il servizio pubblico, sarà il fatto di realizzare la pubblica utilità che soddisfa, nonché il fatto d'essere svolto dallo Stato, sia direttamente che per concessione o delega.
Vi sono, dunque, due significati sostanzialmente diversi di servizio pubblico: il primo, che abbraccia praticamente ogni attività sociale, ed il secondo, più tecnico e proprio, che lo circoscrive all'attività propria dello Stato, che serve il pubblico soddisfacendo pubbliche necessità.
Tornando al tema della socializzazione dei servizi pubblici, quel che s'intende con essa é precisamente l'assorbimento da parte dello Stato delle funzioni e attività che spettano alla società, che é diversa dallo Stato. Insomma, si usa il termine "servizio pubblico" - per entrambe le caratteristiche segnalate - nel primo significato esposto.

La socializzazione, che avanza di continuo, utilizza coscientemente l'equivocità del linguaggio. Da un lato si usa il termine "servizio pubblico" in senso stretto e ristretto e, di conseguenza, si dice giustamente che il suo esercizio spetta allo Stato; d'altro canto, si usa la parola socializzazione nel terzo dei sensi segnalati (come competenza dello Stato), e, di conseguenza, si dice che si devono socializzare i servizi pubblici (continuando ad usare il termine in senso stretto). Con questo (incongruenza terminologica a parte), se l'attività già compete allo Stato non si socializza nulla: si vuole solo indicare che le funzioni proprie dello Stato devono essere esercitate e svolte da esso.
Il fatto è che, partendo dalla base del significato di socializzazione dei servizi pubblici, si passa parlarne in un senso totalmente diverso. Così, si parla della socializzazione della sanità, dell'insegnamento... dopo aver sostenuto che è vero che l'esercizio del servizio pubblico in senso stretto spetta allo Stato, si comincia a dire che tutti i servizi pubblici (usando ora il termine in senso ampio) devono essere svolti dallo Stato e, di conseguenza, devono essere socializzati (in realtà, assorbiti da esso).
Questi sillogismi, peraltro tanto denigrati, sono quindi utilizzati in modo assolutamente erroneo e tendenzioso, trasformandosi, così, in sofismi. Come premessa maggiore, si dice: "l'esercizio del servizio pubblico é di competenza dello Stato"; come premessa minore: "la sanità, l'insegnamento, l'industria elettrica..., le attività sociali di qualsivoglia genere sono un servizio pubblico; e si conclude: "l'esercizio di tale attività (l'insegnamento, la sanità...) spetta allo Stato". E' un sillogismo che non é altro che un puro sofisma, perché invece di tre termini ce ne sono quattro: il significato di servizio pubblico nella premessa minore é molto più ampio di quello della premessa maggiore; in questa é considerato in senso stretto, in quella in senso lato. Questo é il sistema con cui spesso si argomenta a pro della socializzazione o statalizzazione delle attività sociali private e dei corpi intermedi, come avviene per l'insegnamento. Ed abbiamo visto che l'insegnamento non compete allo Stato, non é una sua funzione.
D'altra parte, per qualificare una determinata attività come servizio pubblico in senso stretto, non basta che sia esercitata dallo Stato, ma é necessaria una precisazione. Diversamente, ci troveremmo di fronte a un criterio positivista che supporrebbe il consegnare la società - completamente incatenata - al potere onnipervasivo dei politici che, pertanto, riunirebbero ogni potere: economico, culturale... L'unica società che metterebbe in mostra tale positivismo legalitario, sarebbe una "società" che ubbidisce, senza fare altro, a qualunque ordine o disposizione, in quanto dettato dallo Stato ed anche qualora fosse ingiusto.
Se il criterio del giusto lo determina solo il potere statale, l'ingiustizia sarà permanente. La legge non obbliga in ragione della sua forza, ma in forza della ragione (il che non implica che non la si possa imporre con la forza a quanti la violano). Di più, la legge, per essere tale, deve essere giusta, e non essere semplicemente potere o forza coattiva dello Stato.
Perciò, il criterio della giustizia non può risiedere nel potere dello Stato stesso, ma deve essere esterno e superiore ad esso. La Cristianità medievale fu caratterizzata dall'aver riconosciuto la superiorità del potere divino su quello umano, cercando (e riuscendovi in modo più o meno perfetto) di adeguare la volontà dell'uomo e del governante alla volontà di Dio. Oggi, al contrario, si rifiuta Dio e l'esistenza di una legge e di un ordine naturale da Lui creati, che devono essere osservati ed adempiuti. In cambio, e paradossalmente, pretendendo di liberare l'uomo lo si assoggetta al potere assoluto dello Stato: é lo Stato a definire - al di sopra di tutti unicamente - la giustizia.
Se un'attività é considerata un servizio pubblico perché viene esercitata dallo Stato, e se é esso - basandosi unicamente sul suo potere - a determinare quali sono le attività che deve svolgere, é chiaro che la libertà dell'uomo concreto, le libertà dei corpi intermedi, e, di conseguenza, la libertà della società, sono appese a un filo che lo Stato potrà tagliare o accorciare quando e come vorrà, sino a far sparire ogni libertà.
Al contrario, non c'è altro criterio all'infuori della giustizia e del bene comune per determinare quali siano le attività che lo Stato deve svolgere e che gli appartengono. Ma a questo fine é necessario osservare la natura, della quale l'uomo é parte, leggendo in essa e scoprendovi l'ordine naturale inscrittovi da Dio. Come ci ricorda Vallet de Goytisolo, si tratta di legiferare come legere e non come facere (48). E questa osservazione - che va dalla cosa all'idea e non da questa a quella - ci mostra che l'uomo é anteriore alla società, ed entrambi lo sono allo Stato. Fra l'uomo e lo Stato esistono una serie di corpi intermedi o società infrasovrane (con finalità proprie che a loro compete raggiungere e per le quali dispongono di facoltà proprie), che non sono una concessione dello Stato: al contrario, sotto l'imperativo del bene comune, lo Stato é obbligato a riconoscerle e a non frapporvi ostacoli, a favorirle e a sostenerle. L'osservazione della natura ci mostra l'esistenza del principio di sussidiarietà, il quale non é un'invenzione di Pio XI dato che egli, nel formularlo, non ha fatto altro che ricordare l'obbligatorietà di un principio che si stava violando e che veniva invece praticato da secoli.
Non é lecito allo Stato assorbire le funzioni proprie della società organicamente intesa, dell'unico modo in cui può intenderla, perché diversamente sarebbe ridotta ad una collettività come quella delle formiche o delle api. Il principio di sussidiarietà non é altro che il riconoscimento delle libertà concrete degli uomini e della società stessa. E' il maggior freno allo straripare del potere dello Stato, l'unico davvero efficace, la reale garanzia delle libertà.

Con la socializzazione e la statalizzazione dei servizi pubblici - intesi in senso ampio e lato -, e dell'insegnamento tra di essi, lo Stato restringe il campo della libertà man mano che assorbe ogni attività sociale, annientando la libertà concreta corrispondente. Per questo la statalizzazione dell'insegnamento distrugge la corrispondente libertà (49) e, per mezzo di ciò, nel giro di pochi anni, ogni libertà e indipendenza.

 

5.4.3 L’incongruenza liberale

Quando lo Stato monopolizza e statalizza l'insegnamento, e tale misura viene vista con compiacimento o persino applaudita, il lamentarsi della stampa in Perù o dei canoni artistici e culturali imposti dallo Stato in Unione Sovietica, é un controsenso ed un'incongruenza: tali fatti non sono altro che lo sviluppo logico, il punto terminale, cui porta il principio secondo il quale lo Stato é incaricato di fornire cultura e insegnamento.

E' un'incongruenza ed un controsenso - come avevano osservato i giuristi delle regioni forali (50) - reclamare delle libertà politiche ed assentire alla perdita delle libertà civili; offrire quelle negare od impedire queste. A che mi serve votare periodicamente una legge o un governante (cosa su cui spesso non avrò capacità a causa della complessità del problema) se non posso studiare che dove lo Stato mi comanda, o se i figli non possono ricevere l'insegnamento che i genitori desiderano per essi, o, infine, se non si può insegnare liberamente ed indipendentemente dallo Stato?
E' un'incongruenza ed un controsenso dire all'uomo: tu non sai cosa ti conviene imparare e tu non sai cosa é conveniente per i tuoi figli, ma nello stesso tempo dirgli: partecipa al governo della nazione, vota i tuoi governanti, vota le leggi.
E' un'incongruenza ed un controsenso reclamare la partecipazione e la decisione a livello nazionale, ma restare impassibili quando non si può apprendere ed insegnare liberamente; pretendere che l'uomo sia sovrano fuori dalla porta della sua casa e dominato dallo Stato dentro ad essa; dire che partecipa e decide dei compiti più alti del paese e al contempo impedirgli l'esercizio della libertà d'insegnamento; offrire ed esigere la Libertà (con la maiuscola) e negargli o rinunciare alle libertà (con la minuscola) concrete. Infine, é un'incongruenza ed un controsenso reclamare certe libertà ed assentire alla perdita di altre che portano con sé le prime, ovvero dare di spallucce perché a me ancora non é direttamente toccato di perderle.

 

NOTE

  1. Cfr. Estanislao Cantero Nuñez, A quién corresponde educar y enseñar, op. cit.; Capitolo II della presente opera.
  2. Cfr. E. Cantero, Poder politico y poder cultural, op. cit.; Introduzione alla presente opera.
  3. "La Rivoluzione é una dottrina che vuole fondare la società sulla volontà dell'uomo invece che sulla volontà di Dio", citato da Jean Ousset, Para que El reine, Speiro, Madrid 1961, p. 560.
  4. L'edizione italiana di quest'opera, é stata pubblicata nel 1973 da Armando, col titolo Edgar Faure, Rapporto sulle strategie dell’educazione.
  5. Cfr. E. Cantero, La finalidad de la educacòn, op. cit.; Capitolo I della presente opera.
  6. Cfr. Juan Vallet de Goytisolo, Datos y notas sobre el cambio de estructuras, Speiro, Madrid 1972, p. 57 e successive [cfr. Giovanni Paolo II, Enciclica Centesimus annus del 1-5-1991: "Papa Leone, infatti, previde le conseguenze negative sotto tutti gli aspetti, politico, sociale ed economico, di un ordinamento della società quale proponeva il "socialismo", che allora era allo stadio di filosofia sociale e di movimento più o meno strutturato. Qualcuno potrebbe meravigliarsi del fatto che il Papa cominciava dal "socialismo" la critica delle soluzioni che si davano della "questione operaia", quando esso non si presentava ancora — come poi accadde — sotto la forma di uno Stato forte e potente con tutte le risorse a disposizione. Tuttavia, egli valutò esattamente il pericolo che rappresentava per le masse l'attraente presentazione di una soluzione tanto semplice quanto radicale della questione operaia di allora. Ciò risulta tanto più vero, se vien considerato in relazione con la paurosa condizione di ingiustizia in cui giacevano le masse proletarie nelle Nazioni da poco industrializzate", n. 12, n.d.t.].
  7. Enrique Gil y Robles, Tratado de Derecho Polìtico, Afrodisio Aguado, Madrid 1968, II ed., vol. I, p. 232.
  8. Cfr. E. Cantero, Universalidad y pluralidad en la enseñanza, in Verbo, n. 161-162, gennaio-febbraio 1978; Capitolo III della presente opera. Pio XI, enciclica Divini illius Magistri, op. cit., p. 863: "Ad indebolire l’influenza dell’ambiente familiare si aggiunge oggi il fatto che, quasi dappertutto, si tende ad allontanare sempre più dalla famiglia la fanciullezza sin dai più teneri anni, sotto vari pretesti, siano economici, attinenti all’industria o al commercio, siano politici; e vi é un paese dove si strappano i fanciulli dal seno della famiglia, per formarli (o, per più veramente dire, per deformarli e depravarli), in associazioni e scuole senza Dio, all’irreligione e all’odio, secondo le estreme teorie socialiste, rinnovandosi una vera e più orrenda strage degli innocenti".
  9. Pio XI, enciclica Firmissimam constantiam, del 28-3-1937, in Insegnamenti pontifici. Volume IV. Il laicato, Edizioni Paoline, Roma 1958, p. 397 [Cfr. Giovanni Paolo II, Allocuzione all’associazione genitori delle Scuole Cattoliche, nn. 2 e 3, del 28/2/1987 "Non sembrano esistere, oggi, forme alternative che possano sostituire con efficacia la qualità di un’educazione orientata verso la pienezza della vita cristiana, quale offre una Scuola Cattolica autenticamente sollecita di tradurre in atto le proprie specifiche finalità. [...] Il Diritto Canonico ribadisce il dovere dei genitori cristiani di scegliere quei mezzi e quelle istituzioni attraverso i quali possano provvedere nel modo più appropriato all’educazione cattolica dei figli (can. 793); e quindi di affidare i figli quando sia possibile, a quelle scuole nelle quali si provveda all’educazione cattolica (can. 798)", n.d.t.].
  10. Pio XI, enciclica Divini illius Magistri, op. cit., p. 864: "Da ciò appunto consegue, essere contraria ai principi fondamentali dell’educazione la scuola così detta neutra o laica, dalla quale viene esclusa la religione".
  11. Guy Avanzini, De la escolarizaciòn a la descolarizaciòn, in La pedagogìa en el siglo XX, Narcea, Madrid 1977, p. 65.
  12. Ibidem, p. 66.
  13. Cfr. E. Cantero, Universalidad y pluralidad en la enseñanza, op. cit.
  14. H. G. Good, Historia de la educaciòn norteamericana, UTEHA, Mexico 1966, p. 406.
  15. Octavi Fullat, La educaciòn sovietica, Nova terra, Barcellona 1972, p. 156.
  16. H. G. Good, op. cit. p. 407.
  17. H. G. Good, op. cit. p. 157.
  18. H. G. Good, op. cit. p. 551.
  19. H. G. Good, op. cit. p. 630.
  20. Cfr. E. Cantero, La libertad de enseñanza, in Verbo, n. 164-164, marzo-aprile 1978. Cfr. il capitolo IV della presente opera.
  21. Così si afferma in una nota di risposta del Ministerio de Educaciòn y Ciencia (Fuerza Nueva, n. 177, 30-5-1970) nell'articolo La educaciòn, ±monopolio del Estado?, apparso nel numero 174 di Fuerza Nueva (4-5-1970).
  22. Su quel che in determinate circostanze può e deve essere gratuito, cfr. E. Cantero, La libertad de enseñanza, op. cit., ed il capitolo IV della presente opera.
  23. Rafael Gambra Ciudad, Il tema dell’insegnamento e la "rivoluzione culturale", in Cristianità, n. 5, maggio-giugno 1974.
  24. Idem.
  25. E. Cantero, Fortaleza y violencia, in Verbo, n. 114, aprile 1973, pp. 374-375; raccolto in Contemplaciòn y acciòn, Speiro, Madrid 1975, pp. 168-169.
  26. E. Cantero, El derecho a educar, in Verbo, n. 95-96, maggio-luglio 1971, p. 571 e successive.
  27. Che ai veri rivoluzionari non interessi in alcun modo il miglioramento dell’Università, né l’autentica autonomia universitaria, é aspetto messo in risalto da loro stessi. Kai Hermann segnala gli obiettivi delle loro manifestazioni con queste parole: "Quel che chiedono i maoisti di Dutschke [é] la prosecuzione all’infinito della rivoluzione in tutti i campi della società, perché é una falsa interpretazione di Marx quella che afferma che la società senza classi costituisce lo stato definitivo della storia" (Kai Hermann, Los estudiantes en rebeldìa, Rialp, Madrid 1968, p. 102). Secondo Mario Savio "E’ giunto il momento in cui il funzionamento della "macchina" si é reso tanto odioso e ripugnante, che non si può più collaborare con essa, neppure a fini tattici. Dobbiamo lanciarci sugli ingranaggi, le ruote, le leve e tutti i meccanismi della macchina, e fare in modo che si fermi. E siamo obbligati a dire alla gente che la fa muovere che, se vogliamo essere liberi, dobbiamo impedire che la macchina continui a funzionare" (citato da Kai Hermann, op. cit., p. 110-111). Si veda pure il libro di Alejandro Nieto, La ideologia revolucionaria de los estudiantes europeos (Ariel, Barcellona 1971), il cui titolo e contenuto corrispondono alla realtà. In merito ai successi del maggio francese del 1968, si può leggere il libro elaborato dal CELU, Pour rebatir l’Université (La Table Ronde, Parigi 1969, p. 27 e successive), in cui si dimostra chiaramente che l’autonomia universitaria é servita come bandiera della lotta rivoluzionaria ed è stata utile a coinvolgere quanti davvero credevano che si stesse combattendo per le autonomie universitarie, mentre, in realtà, l’autonomia universitaria era voluta solo perché garanzia volta a non far arrestare il processo rivoluzionario da parte dello Stato; il che, d’altra parte, é confermato dal non aver mai messo seriamente in discussione il monopolio statale sull’Università (Ibid. p. 40). In direzione analoga va il libro di Antonio Da Cruz Rodrigues, Joaquim Maria Marques e Jose Maria Marques (Dossier Coimbra, San Pedro, Lisbona 1970), sugli avvenimenti dell’Università di Coimbra nel 1969, recensito in Verbo, n. 93 del marzo 1971, alla pagina 305 e successive.
  28. Tania Dìaz Gonzàlez, El derecho a la educaciòn, EUNSA, Pamplona 1973, p. 35.
  29. Ibid. p. 37.
  30. Ibid. p. 74-75.
  31. Ibid. p. 82.
  32. E’ uno strano criterio di sussidiarietà quello in base al quale si trasferisce direttamente e permanentemente il finanziamento dell’insegnamento allo Stato. Ed é anche uno strano criterio di giustizia che, quantomeno, proibisce l’uso legittimo di un diritto eliminandolo. Non basta affermare che una cosa si deve fare sulla base dei principi di sussidiarietà e giustizia, se i concetti espressi da tali parole sono diversi e contrari da quelli comunemente in uso: non é legittimo usarli nella nuova accezione senza aver prima avvertito il lettore.
  33. T. Dìaz Gonzàlez, op. cit., p. 87.
  34. Ibid. p. 163.
  35. Victor Cathrein, Filosofia del Derecho. El Derecho natural y el positivo, Reus, Madrid 1926, II ed., p. 204. Juan Vallet de Goytisolo, Perfiles juridicos del Derecho natural en Santo Tomàs de Aquino, in Estudios juridicos en Homenaje al profesor Federico de Castro, Madrid 1976, pp. 705-804; IDEM, La ley natural segùn Santo Tomàs de Aquino, p. 652 e successive, in Verbo, n. 135-136, maggio-luglio 1975 oppure Santo Tomàs de Aquino hoy, Speiro, Madrid 1976.
  36. Ibid., p. 200.
  37. Sul Diritto Naturale come metodo per trovare quel che é giusto, cfr. Juan vallet de Goytisolo, Perfiles juridicos del Derecho natural en Santo Tomàs de Aquino, op. cit., p. 787 e successive.
  38. Su questo argomento, cfr. J. Vallet de Goytisolo, De la virtud de la justicia a lo justo jurìdico, in En torno al Derecho natural, Sala, Madrid 1973.
  39. Victor Pradera, El Estado nuevo, Cultura Española, Madrid 1941, III ed., p. 257.
  40. "Il fattore dominante in tutto lo sviluppo educativo dell’Unione Sovietica é l’ideologia comunista. La relazione tra l’individuo e lo Stato, differisce assai poco dalle relazioni che esistevano tra gli individui ed il Governo nell’Italia fascista o nella Germania nazista. La meta dell’educazione, in Unione Sovietica, é quella di far avanzare e perpetuare la filosofia comunista, formando a questo fine una generazione d'entusiasti combattenti per il regime. Si tratta di uno strumento di indottrinamento e propaganda che non si limita all’istruzione formale nelle scuole, ma che impregna tutti gli aspetti della vita di ogni individuo, durante le ventiquattro ore del giorno [...] Tutti i mezzi della comunicazione di massa, controllati dalla élite relativamente piccola del Partito Comunista, vengono usati per guidare l’intera popolazione. Nei giornali, radio, televisione, teatro e cinematografo, conferenze e comunicati, si ripetono incessantemente gli stessi punti di vista ortodossi. Non si permettono o tollerano opinioni divergenti su nessun aspetto della vita: quanti le sostengono sono bollati come deviazionisti e spietatamente soppressi [...]. Un’elevata posizione economica e sociale, buone abitazioni ed alimenti, piacevoli vacanze e la garanzia di opportunità per i figli: tutto ciò é alla portata della élite che segue la corretta linea d’azione e pensiero" (Cramer & Browne, Educaciòn contemporanea, UTEHA, Messico 1967, pp. 171-173). "L’élite comunista attuale gode di privilegi che sono paragonabili a quelli delle classi dirigenti sotto gli zar" (p. 468). Sulle finalità dell’educazione in Unione Sovietica, comuni a tutta l’educazione marxista, cfr. pure Octavi Fullat, La educaciòn soviética, Nova Terra, Barcelona 1972.
  41. Donatella Zotta, Experiencias pedagògicas en Cuba, Athenas, Madrid 1975, p. 46.
  42. Qualcosa di simile avviene nella Cina comunista, come riferisce l’altrettanto insospettabile penna di Lucio del Cornò (Experiencias pedagògicas en China, Sìgueme, Salamanca 1977), nella quale, per poter entrare all’Università, fra altri requisiti, é necessario dimostrare di avere "le conoscenze e la capacità di applicazione creativa dei principi del marxismo-leninismo e del pensiero di Mao Tse-tung" (p. 50). Secondo le direttive stabilite in Cina, "in tutte le scuole deve essere impartita un’educazione politica e ideologica marxista-leninista per formare nei professori e negli alunni una concezione classista, propria della classe operaia [...], una mentalità collettiva e di massa [...], una concezione materialistico-dialettica [...]. Nel valutare i risultati degli studenti, si deve mettere in primo piano la loro coscienza politica e misurarne il grado col comportamento dello studente nella vita pratica" (p. 32). "Persino nelle facoltà é risultata più importante l’affidabilità politica che l’essere ben valutato nell’ambito accademico" (Cramer & Browne, op. cit., p. 550).
  43. Victor Pradera, op. cit., p. 262.
  44. Cfr. la testimonianza, non sospettabile di integrismo, di Jorge Edwards in Persona non grata, Barral, Barcelona 1974, II ed., p. 82 e successive.
  45. In quest'ottica, un editoriale del giornale ABC di Madrid del 21 settembre 1974, lamentava la statalizzazione dei più importanti quotidiani del Perù.
  46. Come osserva Olivier Feral, "ci sono abbastanza persone che protestano contro l’esistenza di un Ministero dell’Informazione e contro il monopolio dell’ORTF, gridando alla propaganda. Ma nessuno, al contrario, si preoccupa dell’esistenza di un Ministero dell’Educazione. Nessuno é indignato dal monopolio, di fatto, che esso esercita sull’avvenire della gioventù. I cittadini di Francia pagano il tributo allo Stato per finanziare istituti il cui orientamento è loro imposto successivamente, in un ambito tanto importante come quello dell’educazione dei loro figli. Pagano le tasse allo Stato perché esso li indottrini, se così gli piace" (El monopolio estatal de la enseñanza, in Verbo, n. 84, aprile 1970, p. 337 e nel supplemento ad Université Libre, settembre-ottobre 1969, p. 3, col titolo Les dangers de l’étatisme).
  47. E. Cantero, La socializaciòn de los servicios pùblicos y la pérdida de la libertad, in El pensamiento Navarro del 1-2-1975.
  48. Cfr. J. vallet de Goytisolo, Del legislar come legere al legislar come facere, in Verbo, n. 115-116, maggio-giugno 1973.
  49. Del fatto che "chi paga comanda" e delle pregiudizievoli conseguenze dell'ingerenza dello Stato (potere politico)nell'insegnamento, si sono resi conto gli Stati Uniti, nei quali si é procurata la massima indipendenza non solo dall'insegnamento della Federazione di Stati, ma anche da ogni Stato particolare; così, secondo quanto indicano Cramer e Browne (op. cit.), "una lunga lista di decisioni forensi hanno precisato che la responsabilità dell'educazione pubblica é una funzione statale e che questa responsabilità non può essere elusa con una delega dell'autorità. Tuttavia, quasi ogni Stato nordamericano ha delegato la maggior parte della sua autorità sociale alle organizzazioni scolastiche di distretto" (p. 46). "Si dice che il tradizionale rifiuto, da parte del popolo nordamericano, dell'idea di porre le proprie scuole sotto la direzione di un ente di governo municipale, derivi dal desiderio di mantenere l'educazione libera da ogni forma di politica di partito" (p. 47). "Il timore del controllo federale sull'educazione, con quello verso i suoi aiuti, sorge principalmente nell'ambito delle prescrizioni relative ai corsi di studio, alle norme relative all'istruzione e verso l'amministrazione statale delle scuole. Recenti disposizioni del Congresso, che hanno proposto un aiuto federale agli Stati, contenevano dei provvedimenti per cui il controllo, l'amministrazione e l'ispezione delle scuole e dei programmi educativi dovevano essere riservati agli Stati e venivano espressamente proibite alle agenzie federali. Persino l'espressione e definizione di quelle regole non hanno completamente soddisfatto i critici, i quali insistono sul fatto che quando arrivano i soldi immediatamente segue il controllo" (p. 54). "In una grande maggioranza degli Stati, gli istituti scolastici sono fiscalmente indipendenti, e la tendenza verso questa situazione sembra guadagnare terreno" (p. 55); il fatto é che, come indicava Willard Givens, già segretario dell'Associazione Nazionale dell'Educazione, "quanti controllano il preventivo dicono la parola decisiva in materia di politica educativa" (p. 56).
  50. Cfr, J. Vallet de Goytisolo, La libertad civil, in Verbo, n. 63, marzo 1968.