CAP. IX
Alcune innovazioni della pedagogia moderna

 

Legata alle questioni segnalate dell’educazione permanente, dell’insegnamento egualitario e dell’introduzione della psicologia, s’incontrano altre innovazioni di tipo pedagogico, o pretestuosamente tali, come: il favorire la creatività dell’alunno, l’autodidattica e lo studio o la formazione di gruppo.

9.1 Pedagogia e "innovazioni pedagogiche"

Le innovazioni pedagogiche, oggi numerose, non possono essere imposte "perchè sì", perchè sono "nuove", "moderne" o "diverse" rispetto al passato. Benchè la loro causa principale sia l’inserimento nel "corso della storia", non si può ammettere razionalmente tale indiscussa accettazione: devono obbedire ad una ragione, o, perlomeno, ad un motivo, che non sia irrazionale come l’indiscutibile mito del "corso della storia".

Le innovazioni della pedagogia non possono essere imposte basandosi sulla tecnica o su considerazioni "scientifiche". La scienza e la tecnica, in quanto tali, non esigono innovazioni pedagogiche, queste o quelle misure, perchè la pedagogia - che è l’arte di insegnare e educare i bambini - non possono dipendere in alcun modo dagli strumenti (scienza o tecnica) che devono essere utilizzati per raggiungere il fine che si ricerca (insegnamento e educazione). Le nuove tecniche oggi disponibili per il servizio all’uomo, non possono imporre innovazioni pedagogiche senza addurre altre argomentazioni; sarà piuttosto la pedagogia ad utilizzare tali tecniche d’accordo col concetto che si ha dell'educazione e dell’insegnamento.

La pedagogia, quest’arte di educare ed insegnare, dipenderà non dalla tecnica o dalle esperienze che si ritengono scientifiche, ma dal concetto che si ha dell’educazione: quell’arte dipenderà da questo concetto.

Per chi crede nel fine soprannaturale dell’uomo, nell’inviolabilità dell’intimità personale, l’educazione avrà come fine principale il mettere in condizione di raggiungere quel fine, alla qual cosa si applicherà la pedagogia. Per chi, al contrario, crede che non vi sia un fine trascendente, o che l’uomo possa essere manipolato come qualunque altro oggetto, l’insegnamento corrisponderà a tale concezione e la pedagogia sarà applicata a quel compito, manipolando la mente umana e formando uomini "nuovi".

La pedagogia non destituisce l’educazione e l’insegnamento; nel suo nome non si possono introdurre "innovazioni", e meno ancora lo si può fare in nome della tecnica o della scienza. Solo in nome della finalità educativa e della concezione che se ne ha (concetto, in definitiva, della vita stessa), si possono stabilire determinate misure pedagogiche corrispondenti, certe maniere di realizzare l’arte dell’educazione e dell’insegnamento.

E’ un qualcosa che ha segnalato D. de Reckenthal con lo scrivere: "La pedagogia è sempre secondaria rispetto ad una dottrina dell’Educazione, della quale non è altro che una conseguenza metodologica, e la stessa dottrina dell’Educazione è secondaria rispetto ad una filosofia" (1).

Le innovazioni pedagogiche che si vogliono introdurre e si stanno introducendo, delle quali ci occuperemo di seguito, benchè da molti operate per il "gusto di rinnovare", obbediscono a tutta una filosofia (se di questa si può parlare), che non altro che la rivoluzione stessa, la distruzione dell’ordine della natura.

Dietro a tali innovazioni esiste un concetto dell’educazione totalmente opposto e contrario a quello esposto nel corso di queste pagine, indicatoci dal senso comune e dall’osservazione della natura. Tale concetto occultato e poco visibile, è il concetto rivoluzionario dell’educazione (2).

D’altra parte, di fronte alle obiezioni sollevate verso alcune innovazioni pedagogiche per i considerevoli pregiudizi che comportano verso il bambino (e per l’alunno non più bambino), per il suo sviluppo mentale, etico, morale o sociale, si tenta di contro argomentare assicurando che la pedagogia è neutra, che non prende nessun partito, che è totalmente asettica e si riferisce esclusivamente a tecniche che facilitano ed aiutano la comprensione dell’alunno. Da questo punto di vista, le misure pedagogiche potrebbero essere utilizzate indistintamente in qualsiasi genere d’insegnamento e educazione, indipendentemente dal concetto che di esse si abbia quando fossero applicate. In altre parole, non ci sarebbe nessun motivo per guardare con sfiducia a pretese innovazioni pedagogiche fatte in nome dell’insegnamento.

Ma ciò è totalmente erroneo. Dal momento in cui l’uomo adopera oggetti e tecniche, esse già dipendono dalla concezione che l’uomo ha della realtà cui le applica. Senza aggiungere che la pedagogia non è una semplice tecnica, ma piuttosto un’arte che opera sulle persone.

La pedagogia, dal momento che obbedisce ad un’educazione e questa, a sua volta, ad una filosofia, non è neutrale, nè può esserla. "Non c’è pedagogia neutrale - scrive Reckenthal -, giacchè non c’è dottrina dell’Educazione che sia neutra, poichè tutta la filosofia è, in un certo senso, un impegno" (3).

Il mito della pedagogia e delle sue esigenze innovatrici, inquadrato nel mito assoluto del "movimento della storia", si alza contro ogni ragionamento ed ogni criterio che lo possa mettere in discussione. E’ pertanto necessario procedere alla sua de-mitizzazione, de-mitizzazione di segno contrario alla de-mitizzazione "moderna".

"Una de-mitizzazione della pedagogia cosiddetta "scientifica" - scrive Reckenthal - è indispensabile. Anche il famoso criterio dell’adattamento è soggetto ad essere posto in discussione. A cosa si vuole adattare il discente o chi viene educato? Si è sufficientemente rinfacciato alla psicanalisi l’aver considerato un malato "guarito" come un malato "adattato" al suo ambiente! Chi non si droga in una società dove tutti lo fanno, deve essere considerato un "malato"? Adattare gli studenti a compiti imbecilli è pedagogicamente accettabile, ma non lo è filosoficamente" (4).

Sono parole da meditare attentamente; indicano con chiarezza i pericoli che ci insidiano con le innovazioni della pedagogia. Le misure di cui si parla, infatti, vengono giustificate (assieme ad una pretesa migliore formazione e ed insegnamento), almeno per gran parte, con l’essere destinate ad adattare il bambino (e, nell’ottica dell’educazione permanente, a tutto l’uomo, perennemente alunno): adattarlo ad un mondo in perenne cambiamento, dove anch’egli è cambiamento perpetuo, essendo l’unica realtà il cambiamento stesso che fa evolvere il tutto secondo un continuo conflitto dialettico di forze.

Innovazioni pedagogiche per adattare il bambino. Ma adattarlo a cosa? Il bambino, infatti, è di norma perfettamente adattato, essendo il suo adattamento connaturale allo sviluppo. E’ adattato al suo ambiente e alle cose che lo circondano, che - fondamentalmente attraverso la famiglia e le altre società minori vicine ad essa - fanno parte di lui. Solo se il bambino è un disadattato, si renderà necessario adattarlo al suo ambiente: orbene, tale disadattamento ha luogo solo quando la sua cornice di vita è stata rotta. L’adattamento, pertanto, si rende necessario soltanto quando il bambino è privato della sua cornice vitale o quando - caso eccezionale - la famiglia è corruttrice. In tutti gli altri casi, ogni pedagogia che pretendesse di adattare il bambino, sarebbe contro di lui o eccessiva.

"Il giudizio di valore sulla pedagogia - continua Reckenthal - non può prescindere dalla valutazione dei principi e dei fini ricercati, in mancanza della quale non sfuggirà ad un pragmatismo a breve termine, sempre discutibile. L’ordine logico passa, pertanto, dalla messa all’ordine del giorno dei principi fondamentali, dei fini perseguiti; solo in seguito sarà possibile trattare dei mezzi adeguati" (5).

Cosa che è certamente stata fatta dagli "innovatori" col cercare i mezzi pedagogici che rendessero possibile il fine perseguito con tale adattamento: la sovversione dell’educazione.

D’altra parte, quanti sono quelli che le innovazioni pedagogiche senza riflettere e per il solo fatto di essere, semplicemente, nuove? Quanti accettano l’innovazione perchè quello sembra essere il "senso della storia"? Quanti l’accettano senza fermarsi ad analizzarla e senza considerare le sue conseguenze ed i suoi presupposti?

Per questo, analizzeremo quanto c’è di conveniente e necessario in ciascuna delle innovazioni pedagogiche oggi proposte come ineludibili, soffermandoci su quel che implicitamente suppongono o presuppongono e sulle conseguenze cui danno luogo.

 

9.2 La "creatività" dell'alunno

Secondo le esigenze "moderne", la scuola e l’educazione devono dedicarsi alla formazione dell’uomo completo, integrale (come se finora avessero formato mezzi uomini o uomini incompleti!), sicchè devono favorire sin dall’infanzia lo spirito creativo del bambino, la sua "creatività", cosa per cui si deve sopprimere ogni dogmatismo scolastico e nell’educazione.

Ricordiamo che insegnamento ed educazione devono dare una formazione con la quale si impari a pensare, a ragionare in modo logico e, al contempo, stare a contatto con la natura delle cose imparando a leggere nella natura stessa. Ricordiamo pure che a ciò si deve aggiungere l’immaginazione: è questa che fa sorgere il genio in qualunque attività. Ricordiamo, infine, che "pensare non è creare nè ricreare il mondo: è penetrare profondamente nella natura delle cose e vedere le relazioni che sfuggono agli occhi, mettere in relazione tra loro i fatti osservati" (6).

Insomma, non c'è nulla di più lontano dall’insegnamento di un formalismo rigido o della negazione e rifiuto dell'immaginazione, dell’induzione, dell’ispirazione e dell’intuizione.

Se ciò che si propone la nuova pedagogia col favorire la "creatività" dell’alunno è non rinchiuderlo in un insegnamento puramente formale, anche se non ci piace il termine usato, non avremmo altro da obiettare a ciò. Ma la realtà è molto diversa.

Quel che si propone è l’impulso dell’immaginazione perchè egli possa "creare"... con assoluta indipendenza da ogni norma, da ogni regola, da ogni dogmatismo, non solo in relazione al ragionamento e alla logica, bensì alla stessa realtà (il che darà luogo ad utopie, ad irrealtà, a fallimenti e disastri senza numero...).

L’immaginazione e l’ispirazione con cui uno vede subito chiaramente quello che per tutti era oscuro, abbisogna di una disciplina intellettuale ed un insegnamento a contatto con la realtà, per saper percepire e conoscere la natura delle cose, senza le quali ogni immaginazione sarà malsana e quell’ispirazione geniale non ci sarà mai.

L’immaginazione e l’intuizione presuppongono delle idee, delle conoscenze. Senza di esse la "creatività" è ridotta a fantasia irrealizzabile e, una volta messa in pratica, a fallimento e distruzione. Ma per avere le idee che la rendono possibile ci vuole una disciplina, la disciplina imposta dalla verità, alla quale deve assoggettarsi l’opera creatrice. Come segnalava Ortega, e su questo aveva ogni ragione, "l’idea è uno scacco alla verità. Chi vuole avere idee deve prima disporsi a volere la verità e ad accettare le regole del gioco che essa impone" (7).

Per conoscere e volere la verità è necessario sottomettersi ad alcune norme durante l’insegnamento, a delle regole imposte dalla verità, senza le quali non è possibile conoscerla e, per ciò stesso, ogni educazione o insegnamento che le ignori è evidentemente destinato a rendere l’uomo deforme.

Questa ricerca della verità non può essere lasciata all’arbitrio del bambino, ma deve essere guidata, e non solo dal proprio maestro, professore o genitore, ma anche dal cammino delimitato dalla verità e dai dogmi, se l’ambito è dogmatico e vero. Perciò, eliminare dogmi, principi e verità, col pretesto di favorire la creatività dell’alunno, è incompatibile con la natura dell’uomo, la quale richiede che le siano segnalati ed insegnati per potere, davvero, svilupparsi come uomo.

Nella stessa prospettiva sta la relazione tra maestro e alunno, che è relazione di subordinazione, in cui il maestro è obbligato ad insegnare e far comprendere, per quanto possibile, la verità all’alunno. Non è una ricerca da fare assieme, giacchè così si perderebbe in autorità (che è il motivo per il quale impariamo e crediamo come certe gran parte delle cose) e perchè, inoltre, non c’è niente da cercare in comune, posto che l’alunno non deve iniziare ad imparare e a dedurre conoscenze e verità come se partisse da zero, perchè se così fosse sarebbero in pochi a giungere a cose che oggi ci sembrano evidenti. Si dovrebbe riscoprire costantemente la teoria della relatività? Il principio di indeterminazione di Heisenberg? La teoria del quanti? La distinzione tra materia e forma? Tra potenza ed atto?

Quanti Aristotele, Einstein, Newton, Pitagora... uscirebbero dalle scuole?

Perchè non prescindere, allora, anche dalla scrittura per vedere se qualcuno inventa l’alfabeto?

E’ indubbio che in tali circostanze non solo si fermerebbe il progresso, ma che in capo a tre generazioni torneremmo all’Età della Pietra.

La "creatività" - pur nell’inesattezza del termine - che sarebbe conveniente cambiare con qualcos’altro, può essere accettabile solo se con essa si intendono l’ispirazione e l’intuizione delle quali parla Balmes, o l’immaginazione indicata da Charlier, ma per esse è necessario, se non si vuole cadere nell’assurdo, che l’uomo acquisisca sin dalla fanciullezza dei punti di riferimento basilari e fermi, inamovibili, e che sappia pensare.

La "creatività" dell’alunno che si vuole introdurre, facendo appello ad una tremenda demagogia consistente nel far credere ai genitori ed agli alunni che saranno dei futuri geni (come se tutti potessero diventarlo, cosa evidentemente falsa), non otterrà altro che impedire l’effettiva messa in luce di chi è effettivamente tale. Se la civiltà e la società sono progredite, è perchè quelle intuizioni, aspirazioni, immaginazioni (che illumina d’improvviso la mente di pochi, in modo che dove prima c’erano solo tenebre fa sorgere una luce radiosa, dapprima per quei pochi e quindi per tutti), avevano dei principi inamovibili, delle verità informatrici, e perchè, inoltre, sapevano pensare ed osservare la realtà, penetrando nella natura delle cose. Negare ciò è negare il progresso umano. Se la formazione dell’uomo non avesse dei modelli e dei sentieri da percorrere, non solo l’invenzione della ruota ed altre invenzioni altrettanto rilevanti sarebbero impossibili - e lo sarebbero state -, ma neppure un Mozart e un Pascal avrebbero potuto essere dei geni sin dall’infanzia. Infatti, è innanzi tutto necessario sapere che la verità esiste; poi, che è conoscibile e che si deve conoscere come cercarla e conoscerla; quindi, che la volontà deve operare secondo la verità proposta dall’intelligenza.

Se manca questa base, la "creatività" si trasforma in "stupidità", per quanto la si voglia presentare come "genialità".

La ricerca della verità, la conoscenza delle cose e della natura, che sono l’aspetto primario e fondamentale dell’educazione e dell’insegnamento, giacchè senza essi non c’è formazione dell’uomo, necessitano di alcune regole e di un'autorità; non possono essere lasciati all’arbitrio del bambino o dell’alunno come se non esistessero, oppure perchè vengano rinvenute da soli o in "collaborazione" col professore. Diversamente, la deformazione sarà completa, permanente ed ereditaria e, trasmettendosi da una generazione all’altra, porterà così alla scomparsa della civiltà nel giro di alcuni decenni. Solo dimenticando queste cose e mettendo in pratica quelle contrario è possibile affermare che nell’educazione non ci debbano essere dogmi, regole, norme o autorità, col pretesto che le stesse limitano ed impediscono la "libera creatività" dell’alunno o del bambino, come sostiene l’odierna corrente "made in Unesco".

Forse che un Fidia, un Michelangelo o un Velàzquez mancavano di "creatività" o videro la loro "libera creatività" frustrata? Un Dante, un Omero, un Lope, appartennero alla categoria dei "mezzi uomini" per esser loro mancata un’educazione "creativa", che oggi si vuole impiantare come indispensabile per la formazione di "uomini completi", "integrali"?

Non si creda che quanto abbiamo detto di quest’innovazione pedagogica sia esagerato o immaginario: l’Unesco illustra compiutamente la correttezza di quanto veniamo scrivendo. Si ricordi quel che abbiamo detto dell’educazione permanente, e si osservino le relazioni coi seguenti brani della Commissione dell’Unesco: "Una scuola democratica è possibile solo se libera dai dogmi della pedagogia tradizionale" (8). Quali sono o in cosa consistono tali dogmi? L’Unesco ce lo spiega in una nota: "Nella pedagogia tradizionale domina la nozione di modello, cioè di un tipo d’uomo esemplare" (9).

Tralasciando il fatto che l’innovazione pedagogica venga imposta per ottenere la democratizzazione, è chiaro che essa non è neutrale, ma è diretta all’eliminazione d’ogni tipo d’uomo che possa servire da modello, da riferimento. In questo caso, come sarà possibile educare ed insegnare? In fondo, quella eliminazione di modello non è altro che la rinuncia alla natura umana, l’eliminazione dell’uomo stesso in quanto essere razionale, libero e concreto. Per il contrasto col senso comune la tesi sembra assurda, ma non la è affatto nei piani dell’Unesco: se non c’è un tipo d’uomo che serva da riferimento, un modello per l’uomo, non possiamo sapere a cosa condurre l’uomo - educere -, negando, così, ogni finalità nell’uomo. Ciò significa misconoscere cos’è l’uomo. La conclusione logica sarebbe rinunciare ad ogni genere d’educazione che risulta essere un di più. Tuttavia, non accade così: l’uomo diviene, invece, uno strumento nelle mani della pianificazione, del pedagogista, dello Stato o del super Stato.

Il rifiuto dei "dogmi della pedagogia tradizionale", che inizialmente poteva sembrare innocuo, venendo sostituito da un’altra pedagogia più adatta alla nostra società (ma basata su un diverso concetto d’uomo), non significa nient’altro che la riduzione dell’uomo a robot. E non si creda che questa sia una valutazione ingiustificata: nel libro dell’Unesco non c’è una sola definizione o concezione dell’uomo - neanche approssimativa - che possa essere ritenuta valida, posto che non lo si considera mai un essere con delle finalità.

D’altra parte, in un libro dedicato all’insegnamento, si può leggere - non senza perplessità - che "una domanda resta nel corso della storia. Suona così: cos’è l’uomo? La domanda non ha avuto una risposta soddisfacente" (10). La perplessità aumenta proseguendo nella lettura: partendo da tale premessa, si parla d’educazione, di metodi e piani, ma si rinuncia a rispondere alla domanda nelle restanti pagine. Davvero, pretendere di educare ed affermare che non c’è risposta soddisfacente alla prima domanda, sembra uno sproposito senza limiti (11).

Non c’è un tipo d’uomo, un modello conformemente al quale lo si deve educare: resta soltanto il cambiamento, del quale egli deve essere agente. A questo scopo si cancella ogni verità, ogni regola cui il bambino deve assoggettarsi per conoscere ed imparare, lasciando che l’alunno si formi a modo suo e ricerchi (ma cosa, se non c’è verità?) a proprio gusto, come se la verità non esistesse o esistesse in quanto captabile dalla di lui capacità creativa, facendo della creatività e dell’autodidattica i pilastri dell’insegnamento: ma si tratta di pilastri piantati sulle sabbie mobili.

Si deve introdurre "nell’atto educativo un libero e permanente dialogo - dice la Commissione dell’Unesco - che stimoli il processo individuale di consapevolezza dell’esistenza e orienti sempre l’allievo verso l’autodidattica [...] La scuola è democratica solo se assume il carattere di un’ascensione liberamente desiderata, di una conquista, di una creazione , cessando di essere una cosa offerta come un dono o imposta come un freno" (12). Quel che si propone è il traviamento totale. A cosa porterà l’abbandono dell’alunno alle sue sole forze? Se non ci sono vie nè modelli: a cosa, perchè e come educare?

Anche la relazione maestro-alunno è oggetto di cambiamento; è una delle condizioni stabilite dall’Unesco per il futuro della società. "Il rapporto maestro-scolaro, pietra angolare della scuola tradizionale, può e deve essere riconsiderato ab ovo, soprattutto quando stabilisce una relazione da dominatore a dominato [...]. Nel rapporto maestro-scolaro si collocano da una parte i vantaggi dell’età, della maggiore conoscenza e dell’autorità indiscussa, dall’altra un atteggiamento di inferiorità e di sottomissione" (13).

Tale situazione deve essere distrutta. Cosa si propone al suo posto? L’insegnante, "Nell’ottica dell’educazione permanente [...] è chiamato a diventare [...] qualcuno che aiuta a cercare in comune gli argomenti a favore e quelli contrari piuttosto che porgere una verità bella e fatta" (14). "Senza una tale evoluzione di rapporti tra docenti e discenti non ci potrà essere un’autentica democrazia nella scuola" (15). E’ chiaro: secondo questa innovazione, l’educazione e l’insegnamento non devono insegnare cose certe, non devono essere fondati sulla verità, il maestro non insegnare all’alunno nè questi credergli, ma sono libera ricerca, creazione, che si realizza con la ricerca in comune di argomenti contraddittori.

La verità è stata sostituita dalla contraddizione: è quest’ultima l’oggetto dello studio, dell’educazione e dell’insegnamento. E’ una tesi tutta marxista, che si contrappone completamente alla realtà: la dialettica marxista è stata assimilata perfettamente (16).

Dunque, avvertita o inavvertita, la meta dell’innovazione pedagogica a motivo della quale si introduce la spinta alla "creatività" dell’alunno, all’autodidattica e al lavoro di gruppo, non è altra che la rivoluzione permanente. E, in quanto chiaramente marxiste, hanno le loro contraddizioni interne: quella "creatività" e quell’autodidattica sono fin dal principio inquadrate in un dirigismo e pianificazione assoluti.

In tale prospettiva, inoltre, il maestro non dovrebbe influire in alcun modo sull’alunno, ma, tuttavia, la realtà è ben diversa: "L’istruttore cerca di porsi come induttore di mutamento, come fa il psicologo con il suo cliente, mentre i membri del gruppo assumono la responsabilità delle ricerche iscritte nel programma di studio e delle soluzioni da apportare ai problemi quotidiani della vita" (17).

Giunti a questo punto è conveniente porsi la domanda: cos’è l’educazione per l’Unesco? Per l’Unesco, tra le molte considerazioni che potrebbero farsi, essa risponde "all’idea che la scuola può e deve essere uno strumento di libertà" (18), e nella nota a piè pagina ci si rimanda ad una citazione di Paulo Freire per farci capire in cosa consista quell’educazione liberatrice: "L’educazione per la liberazione, che è utopistica, profetica ed ottimistica, è un atto di conoscenza che, contrariamente a quel che accade nella scuola per l’addomesticamento, consente di trasformare la realtà. Nella vecchia scuola non si poteva parlare di oggetto da conoscere ma solo di una conoscenza completa che l’educatore possiede e trasmette all’allievo; nella scuola per la liberazione non esiste alcuna conoscenza completa di cui l’educatore sia in possesso, ma solo un oggetto conoscibile che istituisce un rapporto tra educatore ed educando come soggetti attivi di un processo euristico. Mentre nella pedagogia dell’addomesticamento il maestro è sempre maestro, nella prassi liberatrice il maestro scompare come tale per rinascere come allievo del suo allievo. Analogamente egli deve proporre all’allievo di scomparire come tale per rinascere come maestro del suo maestro. E’ in questo perpetuo andare e tornare quel movimento umile e creatore che li coinvolge entrambi" (P. Freire, Quelques idées insolites sur l’éducation, Paris 1971, p. 7).

Assieme all’educazione liberatrice di Paulo Freire (19), ricordiamoci quanto si è detto sull’educazione permanente e sulla psicologia: il maestro diviene il manipolatore della coscienza dell’uomo (come accade anche con l’educazione liberatrice), e questi non potrà che seguirlo giacchè, essendo stato soppresso il saper pensare, non sarà capace di rifiutare quanto è contrario alla verità, al Diritto e alla legge naturale o al senso comune. Il positivismo più assoluto, radicalmente disumano, s’instaura in ogni ambito della vita dell’uomo, al punto che neppure la sua mente può sfuggirgli.

 

9.3 L'autodidattica

L’autodidattica, come regola generale, non è buona nè conveniente: essa presuppone il rifiutare ogni insegnamento istituzionalizzato che, invece, si propone proprio che l’uomo non devii nel cammino della conoscenza della verità e della sua pratica.

Sino a poco tempo fa, l’autodidatta aveva una formazione per gran parte acquisita dall’insegnamento dell’ambiente che lo circondava. Una formazione almeno familiare, religiosa e morale, che gli dava delle basi solide da cui poter partire, quando non un insegnamento acquisito in scuole e collegi.

L’autodidattica oggi proposta come un obiettivo fondamentale e necessario che si deve raggiungere, invece, è l’autoformazione sin dall’infanzia (si ricordi che si vogliono togliere i bambini dalle loro famiglie, dal loro ambiente vitale), strettamente legata alla "creatività".

Orbene, l’autodidattica non si riferisce alla ricerca della verità in sè stessa (il che è già di per sè mostruoso quando applicato alla formazione del bambino e dell’adolescente), ma ad una formazione indipendente dalla verità, per la quale verrà convenientemente orientato (20); infatti - ed ecco una nuova contraddizione delle numerose in cui incorre il sistema proposto -, ci si propone "di orientarla sin dall’inizio, e poi di fase in fase, nella vera prospettiva di ogni educazione: apprendimento personale, autodidattica e autoinformazione" (21). "L’etica nuova dell’educazione (si crea tutta un’etica, che non può essere altro che il rifiuto d’ogni etica!) tende a trasformare l’individuo in protagonista del proprio progresso culturale. L’autoapprendimento, in particolare quello guidato, ha un ruolo insostituibile in ogni sistema educativo" (22).

L’autodidattica è generalmente instaurata facendo appello alla libertà dell’uomo, alla sua indipendenza ed in stretta relazione con la creatività (23); pertanto, non deve esistere nessuna imposizione ed ancor meno "dogmatismi" che l’alunno debba seguire nella sua formazione: è lui e soltanto lui - si ripete ad ogni occasione - che deve liberamente formare sè medesimo, ed è chiaro che tale libertà esiste solo in quanto è "assistito" e "orientato".

Questa concezione, opposta all’educazione, ha come conseguenza il relativismo più assoluto, poi l’inserimento nella lotta rivoluzionaria, il "compromesso storico" e, infine, il totalitarismo rivoluzionario.

9.4 La dinamica o tecnica dei gruppi

Un’altra delle innovazioni che si vogliono imporre concerne la dinamica o tecnica dei gruppi, il cui sviluppo può essere rilevato nello sviluppo teorico di Paulo Freire (24), che non fa riferimento solo all’insegnamento impartito a gruppi di alunni, nelle aule, ma ad una radicale innovazione dello stesso: ha un "senso pedagogico rivoluzionario" (25), marxista, nonostante provenga dagli Stati Uniti, ed è raccomandata dall’Unesco (26) come una delle "acquisizioni nuove" (27).

Roger Mucchielli, in un libro non sospettabile di ostilità verso la dinamica dei gruppo, la definisce come "campo di conoscenze o di realtà" che "comprende due grandi insiemi differenti, che costituiscono due grandi parti:
"l’insieme dei fenomeni psicosociali - come delle leggi naturali che li reggono - che si verificano nei piccoli gruppi;
"l’insieme dei metodi che permettono di agire sulla personalità per mezzo dei gruppi, così come quelli che permettono ai piccoli gruppi di operare su organizzazioni sociali più estese" (28).

Di conseguenza, la dinamica dei gruppi è tanto un fattore di cambiamento sociale come di cambiamento della personalità (29).

In base a quel che segnala Mucchielli, alcune delle teorie più importanti sono dovute ad uno dei padri della dinamica dei gruppi, Jacob Lev Moreno. "La dimensione sociale è l’essenza della personalità. L’essenza non è un’interiorità nascosta e separata dagli altri, ma un insieme di ruoli sociali, la possibilità di rappresentarli e la possibilità di cambiarli.
"Ogni gruppo umano ha una struttura affettiva informale che determina il comportamento degli individui del gruppo, gli uni verso gli altri" (30).

Creuzet osserva che ciò significa:
"- che la persona non è che per e nel gruppo, come conseguenza del ruolo che svolge;
"- che il gruppo non è soltanto un fattore di sviluppo della personalità, ma ne è la causa determinante;
"- che l’individuo non può cambiare di ruolo facendo riferimento a una qualche verità oggettiva o finalità esteriori al gruppo;
"- che la terapia utilizza soltanto le interazioni psicologiche dell’individuo e del gruppo" (31).

Nella dinamica dei gruppi, non bisogna cercare la verità, di giungere alla conoscenza del reale così com’è, ma di raccogliere le opinioni dei partecipanti, l’opinione del gruppo (non già di questo o quel partecipante), che, alla fine, è imposta come verità. Come indica Creuzet, "l’opinione del gruppo va ad occupare il posto della verità (peraltro previsionale e suscettibile di revisione)" (32). Il gruppo, infatti, "è l’espressione libera dei partecipanti riuniti in gruppo informale, cioè liberati dalle imposizioni della realtà: lavoro, ambiente sociale abituale, modi di vedere, educazione, eccetera [...]. Ciascuno dei partecipanti deve prescindere dalla sua situazione familiare, dalla sua posizione nella gerarchia professionale, non deve mai evocare ricordi personali, non trattare alcun tema storico, filosofico o teologico. Sin dall’inizio si compie quel che i marxisti chiamato "disalienazione": l’uomo è tagliato dalle radici che lo legano alla vita sociale, familiare e nazionale, separato dalla sua finalità e dal fine della sua vita" (33).

E’ il "qui e ora" l’unica cosa che interessa al gruppo che è al lavoro. Di conseguenza, si prescinde da ogni conoscenza della personalità dell’individuo, che si procura di vuotare e lasciare in bianco, per poi cambiarla. L’unica cosa che conta è quel che accade nel gruppo, che verrà occultamente imposto dall’opinione di esso o da quella dell’animatore.

Come indica Mucchielli, "concentrarsi sul ‘qui e ora’ (hic et nunc) è costringere i partecipanti a riflettere sui loro effettivi comportamenti nel quadro della loro comune esperienza attuale... Il contento dell’intera riunione deve essere in relazione con quanto accade nel gruppo e nei partecipanti, al loro attuale livello" (34).

"(Le) caratteristiche (35) dell’incentrarsi sull’hic et nunc hanno risonanza immediata sulla formazione ed i metodi generali d’apprendimento. Col rompere tutti i concetti precedenti, obbligandoci così a tornare al reale scoperto personalmente...; con l’interdire le convinzioni individuali su sè stesso, sugli altri, sulla realtà...; in questo senso, raggiunge il suo senso rivoluzionario..." (36).

"La norma della verità - segnala Creuzet - è l’unanimità del gruppo imposta tramite la persuasione o la coazione" (37).

Infatti, uno degli elementi essenziali per arrivare alla "decisione" (38) del gruppo è costituito dalla pressione di conformità svolta dallo stesso (39), che è motivata dalla necessità di approvazione e di certezza (40) ed influisce grazie alla pressione normativa (comportamento concorde al gruppo) e dalla pressione informativa, che tende a far accettare come certa (sicura, degna di fiducia), quando manchi un altro criterio oggettivo, un’informazione considerata vera dal gruppo (41).

Tutto ciò provoca che "quando un individuo emette una ‘idea’ nuova, originale o insolita all’interno di un gruppo di lavoro, si imbatte nella pressione di conformità, nella forma di resistenza del gruppo, che demoralizza completamente l’innovatore, oppure nella forma di freno, che gli impedisce di esporre le sue tesi per timore di essere rifiutato o umiliato dal gruppo" (42). Così, a chi la pensa in modo diverso dalla "opinione" formatasi nel gruppo, sottilmente diretto dall’animatore, non resta che integrarsi nello stesso (con tutte le rinunce che ciò comporta), venire espulso dallo stesso ovvero venire messo da parte, subendo previamente il timore e la pressione psicologica relativi (43).

Il gruppo funziona per mezzo di un coordinatore o animatore (44), che può scegliere i temi da trattare e imporli, sebbene debba farlo in modo discreto: "La direzione di gruppi - scrive Mucchielli - è un’azione, a volta aperta, altre segreta, di un organizzatore o sperimentatore, volta ad orientare l’opinione, la decisione o il comportamento di un gruppo sottoposto alla sua influenza" (45).

Perchè, allora, non applicare la dinamica di gruppi come un metodo, in sè innocuo, che conduca ad una miglior formazione dell’uomo?

Mary A. Bany e Lois V. Johnson, in un libro intitolato La dinamica dei gruppi nell’educazione (46), e che ha per sottotitolo Il comportamento collettivo nelle classi d’istruzione primaria e secondaria, sono favorevoli allo studio ed all’applicazione della dinamica dei gruppi nella scuola. Così, nel libro citato, "si sottolinea la reazione del gruppo come un tutto" (47); invece di mirare a che ciascuno dei bambini che compongono la classe venga educato, quel che interessa è il comportamento del gruppo (48): in questo modo si perde di vista che il fine dell’educazione è ciascun uomo concreto e non il gruppo, che va a sostituire gli individui che lo compongono. "Si insiste specialmente... sui mezzi coi quali tale comportamento (del gruppo) può essere guidato o modificato" (49).

Anche la pressione di conformità (50) e la pressione normativa (51) sono caratteristiche del gruppo classe. Si giunge così a cambiare i comportamenti ed il modo di pensare dei componenti in modo conforme a quelli del gruppo, "purchè si sappia che gli altri del gruppo hanno la stessa opinione" (52), e si verifica il processo di identificazione, il quale "fa sì che l’individuo pensi, senta ed operi come percepisce o crede che il gruppo o la persona con cui si identifica pensa, sente ed opera" (53).

Bany e Johnson segnalano alcune delle critiche fatte all’applicazione della dinamica di gruppi alla scuola, come quella per cui "gli individui sacrificano la fiducia in sè stessi per motivi di tranquillità", ovvero che "il gruppo della classe diventa rifugio della più forte mitezza intellettuale, perchè in esso le comodità trovano albergo e non si sviluppa nè l’iniziativa nè l’individualità" (54).

Ma la maggiore obiezione, che non si risolve e che invalida il procedimento sin qui descritto, è che detta applicazione costituisce un procedimento immorale di cambiamento della personalità dell’individuo, e che fa scomparire l’individuo nel gruppo, che è quanto interessa nella dinamica di gruppi.

I citati Bany e Johnson pretendono di risolvere alcuni problemi etici posti dall’applicazione della dinamica di gruppi, come ad esempio: "Che diritto ha il maestro di modificare le attività, le opinioni ed i comportamenti dei bambini?"; "è giustificato in una società democratica che i maestri usino delle tecniche psicologiche per modificare le attività ed i comportamenti?" (55). Sono difficoltà che non vengono risolte, perchè se è vero che i maestri devono influire sul bambino per modificarne i cattivi comportamenti, ciò deve avvenire d’accordo con un criterio oggettivo di bene, in modo che sia la volontà del soggetto quella che vuole il bene previamente scoperto dall’intelligenza, e non accadere per mezzo di pressioni (come quella di conformità o di normativa della dinamica di gruppi) che non fanno riferimento nè alla verità nè al bene oggettivamente considerati, e neppure all’intelligenza che deve scoprirli affinchè la volontà li persegua.
Quanto al secondo interrogativo, non lo si risolve dicendo che mediante questo sistema si modificano dei comportamenti indesiderabili, nè dicendo che tali comportamenti devono essere modificati (56): la questione non è risolta perchè non viene fatto il minimo riferimento al procedimento utilizzato, che è quanto deve essere rifiutato.

Ne deriva che, a parte le considerazioni fatte in precedenza, la dinamica di gruppi non è un metodo che possa essere applicato ai fini dell’educazione; essa deve formare l’uomo in modo che la sua volontà operi in accordo con la sua intelligenza, non già in modo che la sua condotta sia modificata in qualunque senso o direzione da pressioni psicologiche, pressioni che agiscono indipendentemente dalla razionalità o dalla bontà, ma d’accordo con le opinioni ed i comportamenti del gruppo, per conformarsi ad esso.

Di conseguenza, la dinamica o tecnica di gruppi non può essere adottata nell’insegnamento perchè annienta la persona, che viene trasformata in un membro gregario di un mondo futuro diretto dagli "eletti".
Le conseguenze del suo utilizzo, avverte Creuzet, sono "l’instaurarsi di una mentalità collettivista; il provocare delle reazioni totalitarie in risposta, od anche pilotate dal potere; il produrre disordine con l’allontanare dalla ragione, che in realtà è soppressa, col confondere e sostituire la verità con l’opinione" (57).

Per questo, non è strano che Mao abbia utilizzato tale tecnica nei procedimenti miranti al "lavaggio del cervello": come lo stesso Mucchielli indica (58) "è evidente che la conversione e la sovversione sono applicazioni della tecnica di gruppi" (59).

9.5 La scuola nuova

Prima di concludere è conveniente far riferimento, ancorchè in modo sommario, alla "Scuola Nuova", per la diffusione che nella nostra Patria stanno avendo le opere di tutti quei pedagogisti (Decroly, Dewey, Freinet, ecc.) che, in misura maggiore o minore, vanno a comporne la denominazione.

La Scuola Nuova, benchè manchi di una perfetta uniformità sia nella filosofia che la anima (che spazia dal più aperto individualismo al più acceso socialismo, anche totalitario), che nei metodi utilizzati e preconizzati dai suoi rappresentanti, ha, tuttavia, importanti tratti comuni. Per quel che qua interessa, faremmo principalmente riferimento alla sua filosofia.

Nicolàs Gavirìa, pur riconoscendo i meriti didattici apportati dalla Scuola Nuova, osserva: "Ma oltre a questo, essa costituì una reazione radicale contro il passato. Disprezzò certi principi essenziali dell’educazione che la scuola tradizionale aveva conservato con rispetto, e che essendo insostituibili non si possono amputare o deformare senza che l’educazione soffra un trauma mortale"; perchè, aggiunge, "la scuola deve evolvere in quanto è contingente, d’accordo con i movimenti sociali, politici e scientifici, ma non può essere soggetta a tutte le scosse in principi che sono al di sopra delle ‘fluttuazioni del giorno’" (60).

Come indica Dante Morando, "Purtroppo l’educazione moderna ha sostituito ai valori morali e religiosi dei palliativi, e crede che la piattaforma di partenza per un mondo migliore sia data soltanto dalle attività esteriori, e si limita per lo più a richiedere che la formazione di particolari abilità tecniche, a volere una educazione sociale che è solo un ‘comportamento’ riguardo agli altri […]; perciò ha creato anche metodi raffinati, ma ha dimenticato la sostanza vera e il fine vero dell’educazione. Questa è la sua malattia. Per questo essa offre un’educazione incompiuta agli individui e alla società, un’educazione unilaterale e frammentaria, con sviluppo eccessivo di finalità relative (e quindi secondarie per l’uomo), senza una sintesi unitaria superiore" (61).

Il fatto è che la pedagogia moderna, la Scuola Nuova, dal punto di vista della filosofia che la anima è puramente orizzontale, naturalistica, quando non apertamente laica e anticristiana (62).E’ per questo che Gavirìa annota nel passivo della Scuola Nuova, "la sua inefficacia nel formare la personalità morale a causa della sua povertà etica, del suo naturalismo, dell’incapacità di offrire un ideale elevato, della sua posizione neutra in campo religioso" (63).

Facendo riferimento all’attivismo, uno dei caratteri comuni delle Scuole Nuove, Dante Morando osserva che "l’attivismo […], dimentica quasi generalmente che l’uomo tende per natura a svilupparsi nella sua totalità, e non in qualche suo aspetto soltanto. Ora, tra gli elementi costitutivi dell’uomo c’è anche l’aspirazione a ideali morali superiori al concretismo materiale, e c’è anche l’aspirazione religiosa all’assoluto trascendentale […]. Escludere unilateralmente queste aspirazioni significa dimenticare tutto l’uomo, limitarlo a qualcuno dei suoi vari e molteplici elementi costitutivi, e precludersi la via alla formazione dell’uomo integrale" (64).

In definitiva, come scrive Aldo Agazzi, "Le nuove dottrine educative si caratterizzavano appunto negli indirizzi e negli ideali assunti dal pensiero contemporaneo […] La pedagogia ne uscì fratturata in concezioni e correnti […] per lo più staccate dal cristianesimo, conformemente a tutto un indirizzo del pensiero moderno di volere una concezione della vita senza dogmi, una morale senza religione, uno Stato senza Chiesa, una cultura senza Dio; ma sempre contrastate, col suo umanismo integrale e teocentrico, con il suo invitto personalismo, dalla pedagogia cristiana" (65).

Il fatto è che la perdita della percezione della totalità dell’uomo è uno dei difetti essenziali della pedagogia moderna, della Scuola Nuova. E ciò non fa riferimento solo alla filosofia da cui parte o che anima ciascuna delle sue componenti, ma pure ai metodi utilizzati dalle stesse: come osserva Aldo Agazzi (66), "Mai la letteratura pedagogica raggiunse tanta mole […]: essa denuncia tuttavia una deviazione quasi generale: l’esclusivismo unilaterale: pare perduto il senso dell’uomo totale e si risolve quasi sempre l’uomo in uno solo, o in una sola parte, dei suoi vari e molteplici caratteri costitutivi" (67).

Se, dunque, si deve rifiutare la filosofia della Scuola Nuova, occorre fare la stessa cosa con i metodi da essa utilizzati? La risposta è negativa: è opportuno utilizzare i metodi didattici della Scuola Nuova, ma avendo cura di rifiutare la concezione della vita e dell’educazione su cui si basano. Non si può dimenticare che esistono dei fini e dei mezzi per il loro conseguimento, e, in riferimento ad entrambi, Emile Planchard osserva che esiste una pedagogia teleologica ed una pedagogia tecnica, evidenziando la subordinazione di questa a quella (68).

I metodi didattici devono essere utilizzati subordinandoli sempre al fine dell’educazione; occorre fare sempre attenzione a non cadere nell’esclusivismo foriero di deformazioni dovute al considerare aspetti particolari come generali: sebbene il metodo applicato contenga dei principi veri, utilizzandoli unilateralmente si rendono falsi. Neppure si deve dimenticare, ricorda E. Planchard, che se "la pedagogia antica aveva delle indiscutibili debolezze, la pedagogia attuale accusa, forse, deviazioni innegabili ed esagerazioni manifeste" (69).

Di conseguenza, è opportuno adottare i metodi della Scuola Nuova, considerando che "si possono dissociare i sistemi e prendere da essi quel che quadra con la filosofia pratica che condividiamo" (70), ma sempre in modo ponderato, non unilaterale o esclusivo, come avviene quando ci si fissa solo su qualche metodo o su alcuni degli aspetti della persona umana, dimenticando gli altri.

Nicolàs Gavirìa ripete che "un’educazione tradizionale può e deve conciliare la Scuola Nuova con quella tradizionale, prendendo dall’una e dall’altra i contributi migliori. Conservando il prezioso tesoro su cui riposa la concezione cristiana della vita, che la scuola tradizionale ha preservato dalle mareggiate dei settarismi, l’educazione deve raccogliere i progressi che la scienza moderna ha portato nell’ordine della pedagogia naturale" (71).

Che non si dimentichi, ricorda Emile Planchard, che "la pedagogia è una scienza pratica...; avendo come oggetto l’essere umano, razionale e morale, essa si ispira necessariamente ad una morale" (72): non esiste vera pedagogia se si dimentica o si prescinde da un aspetto tanto fondamentale, che è invece l’errore in cui cade la Scuola Nuova. Di fronte ad essa s’innalza la pedagogia cattolica che, come indica Aldo Agazzi, "è quindi, innanzi tutto, basata su un concetto totale della realtà e dell’uomo; e, a differenza della filosofia e pedagogia moderne, che sono antropocentriche, essa, fondata com’è sul concetto di creazione (quindi di Dio principio assoluto), è teocentrica, e, in quanto constata l’uomo decaduto e redento, cristocentrica" (73). Il fatto è che, "mentre la scienza è teoria di ciò che è, la moralità è, invece, dottrina di ciò che deve essere: la morale è una scienza normativa. Ed è qui che il cristianesimo denuncia uno dei più gravi equivoci del naturalismo educativo: quello di sostenere che il fanciullo debba diventare ciò che è, quando, invece, egli deve essere sospinto a diventare ciò che deve essere. Il motto non può essere tanto: diventa ciò che sei, ma piuttosto: diventa quello che devi, poiché l’educazione è opera di superamento e di perfezione " (74).

Come indica E. Planchard, citando P. Foulquie, "sebbene l’educazione nuova segni grandi progressi nelle tecniche pedagogiche, in essa viene confermata una qualche incertezza nella concezione del fine in relazione al quale le tecniche più fortunate non sono altro che mezzi. La pedagogia non è sufficiente: ha bisogno d’essere fondata su una filosofia dell’uomo e del destino umano" (75).

Per concludere: è opportuno utilizzare le innovazioni tecniche, i metodi e le conquiste della Scuola Nuova e della sua didattica, ma tenendo conto del fine superiore dell’educazione e nella misura in cui sono compatibili con esso; ma non è in alcun modo accettabile la filosofia della Scuola Nuova (76).

9.6 I ciarlatani della nuova pedagogia

Non ci sembra conveniente concludere senza fare una breve riflessione sui "ciarlatani della nuova pedagogia", titolo di un libro di Lucien Morin (77), che merita d’essere letto e meditato da quanti si dedicano, in un modo o nell’altro, a questi argomenti.

I ciarlatani della nuova pedagogia sono tutti quelli che - "pedagogisti", "educatori", "professori", ecc. - infettati dalla malattia della "opinionite" o "opiniomania" (78), termini con cui Lucien Morin designa "la mania di considerare le proprie opinioni personali e soggettive come verità" (79).

L’uomo d’oggi, contagiato da quella malattia (volontariamente contratta), rifiutando ogni principio ed ogni indizio di senso comune, ha instaurato l’opiniomania, per la quale crede ciecamente nella "sua" opinione fino al punto che "la finzione e l’immaginazione divengono realtà, fino a che l’errore e la falsità divengono la verità" (80).

Così, il relativismo intellettuale si sparge ovunque (81) e la ragione, principio direttivo dell’educazione, è rifiutata (82): l’opiniomania pedagogica rigetta il sapere, ma crede sempre in ciò che essa dice; considera quel che crede, solo perchè lo crede, come vero, senza che importi l’oggetto del suo credo (83).

Il proclama di Mirabeau è divenuto realtà: "Ogni uomo ha diritto ad insegnare ciò che sa, ed anche quel che non sa" (84); alla sequela di Krishnamurti, s’insegna quanto si conosce - che è quantitativamente e qualitativamente minimo - e quel che si ignora, per cui l’intuizione "nostra unica vera guida nella vita", è una "intelligenza molto sveglia" (85). Così la finzione si è fatta realtà ed il sofisma si è impadronito della ragione: si impara tutto perchè tutto è insegnato, e si insegna tutto perchè si sa tutto (86).

La pedagogia moderna, contagiata dalla opiniomania, cade in un’autentica fede in sè stessa, una fede nell’opinione, essendo questa l’unico valore esistente, l’unica verità.

La pedagogia dell’essenza è stata sostituita da quella dell’esistenza; si deve abbandonare e sbarazzarsi d’ogni pregiudizio, d’ogni idea preconcetta, d’ogni concezione a priori, liberarsi per sempre dall’esecrabile "dover essere" (87). L’eccesso della pedagogia dell’esistenza ha generato il mostro dell’opiniomania pedagogica, che è il rifiuto del senso comune e della scienza, la negazione dell’evidenza e della realtà, la deificazione generale del soggettivismo, del relativismo, del pragmatismo e del naturalismo positivistico (88).

La critica di Lucien Morin è dura, ma la realtà è quella, anche quando non la si voglia vedere; l’opiniomania è un fatto, è la sua influenza nell’educazione e nell’insegnamento è terrificante: l’opinione di ciascuno - professore, pedagogista, alunno, studente - è eretta a norma del bene e del male; negando la realtà e sostituendola con le convinzioni soggettive, gli errori nell’educazione e nell’insegnamento si succedono gli uni agli altri, ed il mondo s’avvicina all’ignoranza totale.

Oggi, il sapere ed il conoscere, non sono cose importanti in sè stesse; l’importante è che professori ed alunni esprimano opinioni in merito a tutto ed a qualunque cosa, con spontaneità, franchezza e libertà: non si tratta di avvicinarsi alla realtà delle cose, ma di esprimersi ed operare in modo conforme. Siamo tutti uguali; pertanto, tutti abbiamo diritto di opinare su qualunque cosa, e qualunque opinione, di chicchessia, ha lo stesso valore: quel che vale è l’opinione considerata in sè stessa, il diritto ad opinare indipendentemente dal contenuto e dal confronto con la realtà: di conseguenza, tutti sappiamo le stesse cose, perchè, inoltre, abbiamo tutti diritto a saperle.

In ultima istanza, la massa (non il popolo) si erge sulle élite naturali (89), distruggendole coll’imporre il "diritto" a sapere le stesse cose su quelli che effettivamente qualcosa sanno: diversamente non ci sarebbe eguaglianza, ma oppressione di quanti sanno (poco o tanto) su coloro che non sanno o sanno meno.

La cultura di massa e l’educazione di massa instaurano il regno delle tenebre dell’ignoranza, nel quale i ciechi - gli uomini massa d’oggi -, opiniomaniatici, diretti ed incoraggiati dai ciarlatani della nuova pedagogia, pur sapendosi ciechi, vogliono imporre (e impongono) la "loro visione" a quanti ancora vedono, senza che gl’importi neppure del precipizio sul cui orlo si trovano.

 

NOTE

  1. D. de Reckenthal, Mythes pédagogiques et philosophie de l’éducation, in Université libre, n. 4, marzo-aprile 1970, p. 20.
  2. Qui non si critica ogni riforma pedagogica, ma solo quelle basate su tale concetto dell’educazione, alcune delle quali saranno esaminate di seguito.
  3. D. de Reckenthal, op. cit., p. 20.
  4. Ibidem.
  5. Ibidem.
  6. Henri Charlier, Culture, école, métier, Nouvelles Editions Latines, Paris 1959, p. 40.
  7. José Ortega y Gasset, La rebeliòn de las masas, Espasa-Calpe, XIX ed., col. Austral, Madrid 1972, p. 78.
  8. Edgar Faure ed altri, Rapporto sulle strategie dell’educazione, Armando, Roma 1973, p. 148.
  9. Ibid., p. 156.
  10. José Marìa Sanabrìa, La educaciòn en la sociedad industrial, Universidad de Navarra, Instituto de Ciencias de la Educaciòn, Pamplona 1969, p. 10.
  11. L’educazione, secondo questo libro, è per il cambiamento (p. 81), e per essa sono superflue o non servono, tra altre cose, apprendere e conoscere "i dogmi, le parabole del vangelo" (p. 89).
  12. Rapporto sulle strategie dell’educazione, op. cit., p. 148.
  13. Ibid., p. 151.
  14. Ibidem.
  15. Ibid., p. 152.
  16. Così, Lenin, nelle sue Note al libro di Hegel Lecciones de historia de la filosofìa, aveva affermato che "la dialettica è lo studio della contraddizione dell’essenza stessa delle cose", concetto che Mao commenta col dire: "la legge della contraddizione nelle cose, cioè la legge dell’unità dei contrari, è la legge più fondamentale della dialettica materialista" (Sobre la contraddiciòn, in Obras escogidas, tomo I, Fundamentos, Madrid 1974, p. 333).
  17. Ibidem, p. 207-208.
  18. Ibid., p. 233-234.
  19. Cfr. E. Cantero, Paulo Freire y la educaciòn liberadora, Speiro, Madrid 1975.
  20. Cfr. E. Cantero, La educaciòn permanente, in Verbo, n. 169-170, novembre-dicembre 1978.
  21. Rapporto sulle strategie dell’educazione, op. cit., p. 295-296.
  22. Ibid., p. 326.
  23. In queste idee si possono avvertire concomitanze ed influenze dell’ottimismo naturalistico di Rousseau.
  24. Cfr. E. Cantero, Paulo Freire y la educaciòn liberadora, op. cit.
  25. Roger Mucchielli, La dinàmica de los grupos, Ibérico Europea de Ediciones, III ed., Madrid 1972, p. 142.
  26. Rapporto sulle strategie dell’educazione, op. cit., p. 206.
  27. Ibid., p. 189.
  28. R. Mucchielli, La dinàmica de los grupos, op. cit., p. 33.
  29. Ibid., p. 131 e succ.
  30. Ibid., p. 22.
  31. Michel Creuzet, Enseignement-Education, Montalza, Paris 1973, p. 251.
  32. Ibid., p. 254.
  33. Ibid., p. 253.
  34. Cfr. R. Mucchielli, op. cit., p. 141.
  35. Ibid., pp. 141 e succ.
  36. Ibid., p. 142.
  37. M. Creuzet, Enseignement-Education, op. cit., p. 254.
  38. Cfr. R. Mucchielli, op. cit., p. 128.
  39. Ibid., pp. 53 e successive.
  40. Ibid., p. 54.
  41. Ibidem.
  42. Ibid., p. 55.
  43. Ibid., p. 58-59.
  44. Ibid., p. 151 e succ.
  45. Ibid., p. 35.
  46. Mary A. Bany e Lois V. Johnson, La dinàmica de grupos en la educaciòn, Aguilar, Madrid 1973.
  47. Ibid., p. 5.
  48. Ibid., p. 31.
  49. Ibid., p. 7.
  50. Ibid., p. 140 e succ.
  51. Ibid., p. 122 e succ.
  52. Ibid., p. 318.
  53. Ibid., p. 141.
  54. Ibid., p. 21.
  55. Ibid., p. 23.
  56. Ibid., p. 25-26.
  57. M. Creuzet, Enseignement-Education, op. cit., p. 255 e successive.
  58. Ibid., p. 36.
  59. E’ impossibile fare riferimento a tutte le innovazioni pedagogiche, tuttavia, oltre a quelle citate, valga come esempio la riforma introdotta con la matematica moderna, con la precisazione che quanto segue non è un rifiuto della nuova matematica (che sarebbe assurdo), ma del cattivo utilizzo che della stessa si può fare, nonchè della finalità voluta da alcuni dei sostenitori della sua introduzione nelle riforme della scuola elementare e media. Nei confronti di questa riforma, l’accademico Julio Garrido ha osservato che si tratta di "una riforma che non si limita ad un semplice cambiamento di materie o di metodi, ma che, in fondo, non cerca nient’altro che di cambiare il modo di pensare che è stato di tutta l’umanità - dai greci sino ad oggi - ed inculcare alle nuove generazioni il disprezzo delle verità ricevute dall’insegnamento dei maestri, l’abbandono della memorizzazione ed il primato della creatività individuale sulla norma...; si tratta d’introdurre anche... un insegnamento sempre più astratto e staccato dal reale... Non si tratta più di analizzare e conoscere la realtà per mezzo delle qualità conoscitive, ma unicamente di creare edifici soggettivi originali, il cui unico carattere scientifico è dato dall’adeguatezza alle norme di una disciplina logica basata sulle nozioni matematiche di insiemi e strutture, essendo finalità della matematica moderna l’insegnare a adoperare queste nozioni generali come valide per tutte le cose e tutte le attività intellettuali" (Las matematicas modernas y la realidad, Speiro, Madrid 1972; anche in Verbo, n. 104, aprile 1972, pp. 393 e 395). Come indica Olivier de Blignières, la riforma "presuppone una concezione ermetica delle matematiche, che in tale ottica non riguarda più alcuna relazione col reale", ed implica "una opzione pedagogica nella quale viene data preminenza al formalismo logico, a detrimento dell’intuizione e del ragionamento induttivo" (Les mathématiques modernes au service de la subversion?, in Université Libre, n. 14, gennaio-febbraio 1972, p. 12). Si veda anche la critica fatta da Morris Kline, El fracaso de la matemàtica moderna, Siglo XXI, Madrid 1976.
  60. Nicolàs Gavirìa, Filosofia e historia de la educaciòn, Bedout, IV ed., Medellìn (Colombia) 1973, p. 217.
  61. Dante Morando, Pedagogia, Morcelliana, Brescia 1951, p. 388-389.
  62. Così, per esempio, per Dewey non esistono valori o fini assoluti (Cfr. Nicola Abbagnano - Aldo Visalberghi, Linee di storia della pedagogia, Paravia, Torino 1959-1981, vol. III, p. 278). Lorenzo Luzuriaga segnala che Dewey "nega alla fin fine i fini trascendenti della religione" (Cr. Lorenzo Luzuriaga, La educaciòn nueva, Losada, VII ed., Buenos Aires 1964, p. 40; oppure nel prologo a El niño y el programa escolar..., di Dewey, Losada, VI ed., Buenos Aires 1967, p. 15). Sul naturalismo di Dewey e l’assenza di formazione morale nella sua educazione, cfr. Dante Morando, op. cit., pp. 375 e successive; Aldo Agazzi, Problemi e maestri del pensiero e della educazione, La Scuola, VII ed., Brescia 1967, vol. III, p. 491-492; Nicolàs Gavirìa, op. cit., pp. 156 e successive.
    Sul laicismo, il naturalismo e l’ateismo nella pedagogia di Freinet, cfr. Georges Piaton, El pensamiento pedagògico de Celestin Freinet, Marsiega, Madrid 1975, p. 113, 161 e 176 e successive. Sul suo marxismo, cfr. Aldo Agazzi, op. cit., p. 531; Dante Morando, op. cit., p. 362 ed il libro di Georges Piaton già citato.
    Per la critica al naturalismo delle "necessità" di Decroly, cfr. Eugène Dévaud, Il sistema Décroly e la pedagogia cristiana, IX ed., La Scuola, Brescia 1969. Dévaud, nonostante rimanga affascinato dal sistema di Décroly, non manca di segnalare l’oblio delle necessità dell’anima, che gli ritenne suscettibili d’essere incorporati alle quattro necessità di Décroly. Cfr. ancora il senso identico delle già citate opere di Agazzi, Morando o Gavirìa.
    Per Durkheim, "Religione, morale, educazione, diritto, politica, costume e cultura […] non sono anch’esse che proiezioni e oggettivizzazioni della coscienza collettiva" (Abbagnano e Visalberghi, op. cit., p. 327); pertanto, "è la sociologia a fissare il fine dell’educazione" (Emile Planchard, La pedagogìa contemporànea, Rialp, VI ed., Madrid 1975, p. 79). Sul primato della società, davanti alla quale l’uomo, l’individuo, non è nulla, se non in sua funzione, cfr. Aldo Agazzi, op. cit., p. 496. Secondo Durkheim, "la società costituisce l’essenza e l’obiettivo di tutta la vita. Persino la vita morale nasce dalla vita in comune" (Juan Manuel Moreno G., Alfredo Poblador e Dionisio del Rìo, Historia de la educaciòn, Paraninfo BIE, Madrid 1974, p. 360). Quanto alla morale laica, razionalista ed anticristiana di Durkheim, si veda il suo La educaciòn moral, nel quale si stabilisce che nelle scuole si deve dare "unicamente un’educazione morale integralmente razionale, cioè che escluda tutti i principi ispirati dalle religioni rivelate" (nel volume di Durkheim, Educaciòn como socializaciòn, Sìgueme, Salamanca 1976, p. 185).
    Con analoghi risultati, si potrebbe continuare con altri esempi pedagogici, filosofici o sociologici, che integrano o hanno ispirato la filosofia della Scuola Nuova, ma ciò esulerebbe dai fini del presente lavoro.
  63. N. Gavirìa, op. cit., p. 221.
  64. D. Morando, op. cit., p. 380.
  65. A. Agazzi, op. cit., p. 467.
  66. Ibid., p. 467-468.
  67. Vedansi pure N. Gavirìa, op. cit., p. 218 e succ.; D. Morando, op. cit., p. 380 e successive.
  68. Emile Planchard, La pedagogìa contemporànea, Rialp, VI ed., Madrid 1975, pp. 44-45, 58 e successive.
  69. Ibid., p. 16.
  70. Ibid., p. 48.
  71. N. Gavirìa, op. cit., p. 221.
  72. E. Planchard, op. cit., p. 36.
  73. A. Agazzi, op. cit., p. 472.
  74. Ibidem., p. 472; Cfr. D. Morando, p. 384 e successive.
  75. E. Planchard, op. cit., p. 381.
  76. Questo è stato il senso dell’opera di Eugène Devaud, che scrisse un’opera intitolata Per una scuola attiva secondo l’ordine cristiano; su Devaud si veda A. Agazzi, op. cit., p. 540, o il prologo alla IX ed. italiana (La Scuola, Brescia 1969) della sua opera appena citata; J. M. Moreno, A. Poblador e D. del Rìo, op. cit., pp. 457-458.
  77. Lucien Morin, Les charlatans de la nouvelle pédagogie, Presses Universitaires de France, collection SUP, Vendôme 1973.
  78. Opinionite o opiniomanie.
  79. L. Morin, op. cit., p. 9.
  80. Ibid., p. 16.
  81. Ibid., p. 25.
  82. Ibid., p. 26 e successive.
  83. Ibid., p. 34.
  84. Ibid., p. 46.
  85. Ibid., p. 51.
  86. Ibid., p. 52.
  87. Ibid., p. 87.
  88. Ibid., p. 89.
  89. Su questo tema si possono consultare le pagine 91-116 del testo appena citato, Education de masse ou comment se débarrasser de l’élite.