Diritto alla differenza e strategie educative verso l'interculturalità

di Daniele Novara

In un lontano regno viveva il re Trentatrè con la sua corte. Un giorno si svegliò di buon umore, chiamò il suo fido Buffone e gli annunciò che aveva deciso che tutti nel suo regno dovevano finalmente essere liberi, uguali e trattati allo stesso modo.
"Buona idea, Maestà" gli rispose il Buffone.
Il Re diede quindi vita al suo programma. Andò verso la voliera, l'aprì e lasciò libero il canarino che lo ringraziò volando via. Visto il buon esito dell'operazione, si portò presso la vasca dei pesci, acchiappò una trota e la mise in libertà. La poverella cadde per terra, si sbattè un poco e poi morì stecchita.
Il Re, profondamente amareggiato, chiamò il buffone per chiedergli spiegazioni dello strano comportamento della trota che, a dir poco, non aveva apprezzato il suo programma di liberare tutti.
"Ma i pesci hanno bisogno di acqua - Sire - di molta acqua" rispose il Buffone.
Detto, fatto! Il re tornò alla vasca, acchiappò una trota e la gettò nel ruscello vicino. La trota felice nuotò via rapida ringraziando il Sovrano che volle subito ripetere il positivo esperimento con il merlo chiuso nella voliera. Ma il merlo, quando si accorse che il Re voleva buttarlo nel ruscello iniziò ad implorare di non farlo. Il Re scocciato lo ficcò dentro senza tanti complimenti e il merlo annegò nell'acqua.
Trentatrè, sempre più esterrefatto, chiamò ancora il Buffone per ulteriori chiarimenti. "Do a tutti la libertà e ancora non sono contenti!" si lamentò.
Il Buffone si decise allora a parlare chiaro. "Sire, il pesce ha bisogno dell'acqua e l'uccello dell'aria libera... ognuno è diverso e i suoi bisogni sono diversi da quelli degli altri".

E' questa una felice metafora ideata da Claudio Imprudente e che presto troverà pure una versione in un testo per bambini.

La uso perchè segnala quali sono le profonde implicazioni che una seria cultura della differenza può offrire in una prospettiva di interculturalità, parola questa sempre più usata ed abusata nel panorama pedagogico e scolastico italiano.

I rischi di banalizzazione esistono e non sarà facile evitarli.

I bambini sono particolarmente permeabili all'assorbimento dei tanti pregiudizi sociali, dei tanti larvati razzismi che l'ambiente umano circostante offre loro a piene mani. Sotto l'influsso delle esperienze quotidiane e dell'azione dei media, i bambini sviluppano robuste immagini di tipi di personaggi e di personalità. Questi stereotipi possono essere positivi o "neutri" (la madre come persona affettuosa e sollecita del bene dei figli, il poliziotto come colui che offre protezione), ma possono anche contenere assunti fuorvianti (tutti i medici sono maschi, tutte le infermiere femmine) e generalizzazioni false o addirittura pericolose (tutti gli ebrei maschi sono furbi e disonesti, e tutti gli uomini di colore sono robusti e inclini alla violenza).

Per i più deboli ed insicuri, l'assorbimento e l'espressione di tali pregiudizi diventa anzi un motivo per sentirsi confermati socialmente, per sentirsi più vicino a quegli adulti che, nel bene o nel male, rappresentano tutta la loro vita.

Da un punto di vista psicologico combattere in modo diretto ed esplicito questi pregiudizi corrisponde per molti versi a combattere gli stessi bambini che finiscono col sentirsi minacciati da adulti troppo certi delle loro convinzioni (e purtroppo spesso si tratta proprio solo di convinzioni!), troppo missionari nella volontà di cambiarli a fin di bene.

La prima banalizzazione allora è proprio questa: prendere di mira i pregiudizi infantili e colpirli come tanti birilli attraverso programmi di interculturalità, educazione alla mondialità e alla fratellanza universale, contro la pena di morte, contro la tortura e contro il razzismo.

In tal modo la profonda sofferenza infantile di chi già di per sè ha dovuto subire un'educazione inadeguata, autoritaria, intrusiva e penalizzante si rafforza in un contesto scolastico in cui ci si dedica a rimuovere i soli sintomi del problema con una logica da chirurgia plastica.

L'apprendimento di contenuti razzisti, dell'intolleranza e della violenza partono da lontano e sono riferibili in larga misura a vissuti educativi trasmessi, quasi sempre inconsapevolmente, dai genitori e dall'ambiente familiare.

Nulla che riguardi un insegnamento diretto (che semmai è normalmente antirazzista), come dice bene C.G. Jung: "la poca educazione e l'incoscienza degli educatori stessi hanno effetti molto più intensi dei loro consigli più o meno buoni, dei loro ordini e delle loro intenzioni..."

Si tratta per altro di una posizione che trova significative coincidenze di orientamento tra psicologi sociali e psicanalisti. Dice infatti G. Allport: "Il pregiudizio insorge con più facilità nei bambini abituati all'obbedienza, ad inibire i loro impulsi ed educati in un regime rigido (...). Se questo tipo di educazione prepara il terreno al pregiudizio il tipo di educazione opposta porta alla tolleranza".

Una superata concezione di educazione alla mondialità ci permetteva di studiare e conoscere le culture diverse privandole di quel quid che le rende vere, vive, contrastanti col nostro mondo e modo di vedere. Il "mondialismo" si accontentava di guardare alle "culture altre" come un turista guarda i pesci dentro l'acquario, con quella compiacenza di chi sa che si tratta solo di un bello spettacolo che non inciderà minimamente sul proprio stile di vita.

(...) l'incontro fra culture diverse è in realtà perturbante, conflittuale, problematico. (...) Per incontrarsi le culture hanno bisogno di (...)
- permeabilità nei confronti dei punti di vista, delle credenze, delle forme di pensiero altrui;
- sintonizzazione con le origini del pensiero formatosi in altri contesti;
- interazione strategica: fare in modo che il confronto tra mentalità dia luogo ad un innalzamento, non solo della conoscenza reciproca, ma possa associarsi: per individuare forme superiori di azione e comprensione del mondo".

(...) Demetrio, a partire da un'originale ricerca sugli stili educativi degli insegnanti che hanno bambini stranieri in classe, riconosce che, sotto il profilo educativo, tale flessibilità e capacità di decentrarsi riguarda la figura stessa dell'insegnante e nello specifico i suoi processi formativi.

(...) Entra qui in gioco la percezione positiva o negativa che l'insegnante ha della sua differenza, della sua ricerca di autenticità ed incontro. E' un processo di identificazione che lo stesso professionista deve compiere dentro di sè, un viaggio per "arrivare a comprendere che il riconoscimento dell'altro passa necessariamente attraverso la consapevolezza della propria storia, attraverso l'identificazione del proprio essere".

(...) Sia Graziella Favaro che D. Demetrio affermano apertamente che la scuola si trova in una fase più o meno preistorica ancora dominata da una percezione riduttiva del bambino straniero, colto troppo spesso sotto il puro profilo "deficitario" e "difettologico", mancante cioè di qualcosa.

(...) L'istituzione scolastica teme la differenza infantile in sè e per sè e articola delle fin troppo rigide griglie di contenimento che fungono da cerniera inossidabile a cambiamenti sostanziali. La gestione scolastica del tempo è al proposito quanto di più anti-infantile e antievolutivo ci possa essere.

(...) la mia impressione è che sarebbe un grave, gravissimo errore imboccare la strada dell'interculturalità come una fuga in avanti rispetto a una più generale emergenza di attenzione nei confronti della differenza culturale, infantile in sè e per sè, per la quale esistono ancora ritardi ed omissioni.

(...) Non mi resta infine che ricordare le parole del Pasolini giovane che, riflettendo sul suo lavoro di insegnante, scriveva nel 1947 (ma con che bruciante attualità): "(...) la critica dovrebbe essere la prima cosa da coltivare in un ragazzo, anche se questo dovesse costare la caduta di un'infinità di idoli: primo idolo da far cadere è l'insegnante stesso, il quale dovrebbe così mostrarsi al suo scolaro con tutta la sua umanità immediata e quasi informe, tenendosi il più possibile lontano da quella rappresentativa carica di convenzione a cui la maggior parte degli insegnanti tende ad approssimarsi".

La consapevolezza che comunque esistono insegnanti disponibili a una nuova stagione educativa è forse l'elemento di maggior speranza perchè l'arrivo di bambini stranieri sia un momento di crescita e non un'ennesima occasione mancata.

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