Articolo pubblicato su Terrasana febbraio 2000

Biosicurezza

La recente pubblicazione del libro bianco della UE sulla sicurezza dell’alimentazione dà modo di riflettere sull’evoluzione delle politiche comunitarie su di un argomento che ha visto un crescente inquietante di scandali. Mentre non si è ancora conclusa la vicenda dell’encefalopatia spongiforme bovina, conosciuta come vacca pazza, e ricordiamo la salmonellosi dei polli e la diossina, non si devono dimenticare i casi dell’anticongelante e dell’etanolo aggiunti al vino. Come in una storia senza fine, è di pochi giorni orsono il caso della listeria nelle salsicce suine, che hanno causato la morte di almeno due persone. Di fronte al continuo e pressoché inarrestabile espandersi di questi problemi, le autorità e i produttori fanno muro proponendo una soluzione conosciuta: i controlli. Cioè proseguire sulla stessa strada che ha già dimostrato la sua inefficacia, nei confronti di consumi e produzioni sempre crescenti e allo strapotere delle multinazionali della chimica. In verità questo indirizzo non può garantire una vera sicurezza, come dimostrano i numeri: 700 milioni di animali macellati ogni anno, dai bovini ai polli; 12 milioni di tonnellate di mangimi zootecnici, milioni di tonnellate di vegetali. Lasciare utilizzare sostanze potenzialmente pericolose (antibiotici, farine di derivazione animale, molecole chimiche di sintesi), e chiedendone solo un uso limitato, significa basarsi sulla possibilità di sottoporre ad analisi quantità immense di alimenti, cioè di fatto non controllare. Anche l’autocontrollo, cioè la disciplina autoimposta dai produttori, non può garantire più di tanto: chi ha indicato la presenza della diossina nei suoi procedimenti? Se i controlli sono efficaci, perché migliaia di bovini sono rubati ogni anno e finiscono tutti regolarmente sulle nostre tavole? Una politica dei controlli serve in realtà soprattutto alla parte produttiva, e funziona da grande traino pubblicitario. Non a caso, ad ogni scandalo alimentare, il ritornello è che nel nostro paese i controlli ci sono e funzionano. Per non credere troppo alle favole, bisognerebbe entrare nei macelli e vedere quello che succede, a partire dal fatto che molti suini non sono storditi a sufficienza dall’applicazione della corrente elettrica ed hanno così modo di giungere ancora vivi, e con la gola tagliata, nelle vasche di scottatura dove finiscono nell’acqua bollente oppure conigli e polli che sono sgozzati vivi, quando la legge ne prevede lo stordimento. Se non si può verificare una situazione così semplice, quale l’osservazione se un animale è ancora vivo o già tramortito, come si può pensare che si trovino residui a livello di microgrammi nelle carni e nei visceri? La vera sicurezza invece si può realizzare solo con un cambiamento delle regole: se, ad esempio, si decidesse di abolire dai mangimi antibiotici, molecole chimiche, farine di derivazione animale e i pesticidi più pericolosi dalle produzioni vegetali, dovrebbero forzatamente trasformarsi anche i sistemi produttivi per cui, senza bisogno di eccessivi controlli, si darebbe più sicurezza ai consumatori ed anche maggiore possibilità di verifica agli stessi, in quanto i prodotti ottenuti sarebbero sicuramente diversi e facilmente riconoscibili da quelli chimici. Un altro punto fondamentale è quello di recuperare e smaltire tutti i rifiuti, per evitare che siano somministrati agli animali per ricavarne un enorme profitto, riuscendo a vendere quello che si dovrebbe distruggere, come è accaduto per la diossina.

E non si devono dimenticare gli attori principali, gli animali. L’allevamento chimico si basa sullo sfruttamento degli animali ed impone situazioni anti etologiche (spazi ridotti, superfici inadatte, alimentazione chimica e innaturale). Allevamenti diversi significherebbero maggiori garanzie e sicurezze per i consumatori ed anche maggior benessere (finchè sono vivi) per gli animali. Perché, prima o poi, ci dovremmo interrogare, da umani, se è giusto che gli animali, oltre ad essere allevati e uccisi a nostro uso, debbano essere mantenuti in condizioni di sofferenza e di malessere.

Chiarendo che si parla di quella parte - maggioritaria - che si ciba di prodotti di derivazione animale, sembra inevitabile che quando si insiste tanto sui prodotti tipici, si chieda almeno che gli animali destinati a diventare tali siano trattati nel miglior modo possibile. Chi cerca il lardo di colonnata, diventato ormai quasi una archetipo della genuinità, dovrebbe pretendere ugualmente che l’animale da cui deriva sia allevato in maniera etologicamente corretta nel rispetto dei suoi bisogni, evitandogli le sofferenze di un allevamento intensivo.

Allevamenti diversi sono compatibili economicamente non solo con le produzioni di qualità, ma per tutti, in quanto si dovrà nel futuro ridurre drasticamente i consumi di prodotti di origine animale, come ricordano tutti i testi di alimentazione, secondo i quali una dieta scarsamente carnea ma ricca di vegetali, legumi e frutta è la prima prevenzione contro il cancro. Così mangiando meno carne, molta meno carne, si potrebbe anche pagarla quel po' di più che consentirebbe di allevare gli animali rispettandone le esigenze naturali senza ridurli a macchine costrette in un capannone industriale. Dare vera sicurezza alimentare non vuol dire puntare sui controlli e permettere comunque la presenza di molecole pericolose, bensì scegliere di vietarle e dettare regole per un diverso allevamento, più rispettoso degli animali. In altre parole, non più controlli ma regole diverse per allevamenti diversi per un maggiore benessere degli animali e una maggiore sicurezza dei consumatori.

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