Articolo pubblicato su Terrasana n. zero ottobre '99

Biosicurezza

Sempre più frequentemente viene utilizzato il termine di biosicurezza ad indicare il requisito della sicurezza, da perseguire, da promuovere da garantire, dei cibi, sia di origine animale sia vegetale. È un termine gradito ai grandi produttori industriali che hanno capito il loro sostanziale interesse, nel poter etichettare un prodotto come sicuro, sulla base di garanzie fornite essenzialmente da chi produce; in questo modo si tranquillizzano i consumatori, e si hanno indubbie e positive ricadute pubblicitarie. Per poter fornire queste "garanzie" già da tempo l’industria si è attrezzata adottando, sulla base di leggi europee, il controllo di qualità, HACCP in sigla derivata dall’inglese, o autocontrollo. Questo consiste nell’impegno dell’industria ad adottare una serie di comportamenti che dovrebbero garantire la salubrità dei prodotti, sulla base di alcuni principi, dei quali i fondamentali sono la rintracciabilità delle materie prime e delle produzioni, cioè la garanzia che in ogni momento essa deve saper indicare da dove provengono le materie prime utilizzate e dove sono stati venduti i prodotti finiti. La seconda regola, se così possiamo dire, è la garanzia di controllare che le materie prime utilizzate rispondano a determinati requisiti e di rispettare le buone pratiche di produzione sia nella sua produzione sia nella produzione delle stesse. Infine c’è l’impegno ad effettuare controlli sui fornitori per verificare il rispetto delle regole. Forse è facile comprendere l’anello debole del sistema: l’industria a priori è portata a cercare sistemi produttivi che puntino al risparmio, perché, evidentemente, ogni soldo non speso è già un iniziale guadagno ed è portata da accettare che anche i fornitori seguano questa via, purché ciò non generi problemi con gli organi pubblici di vigilanza. Si instaura così un sistema gestito e garantito solo da chi produce e nessuno potrà impedire che casi come la diossina si ripetano nel tempo. Ad esempio è questo il principio per il quale nessun produttore sarà mai in grado di denunciare l’avvenuta somministrazione di ormoni, vietati per legge, nei bovini o in altri animali: per l’allevatore come per l’industriale sarà solo importante che nessuno scopra la truffa o l’illegalità e tutto andrà bene e l’autocontrollo certificherà una ottima produzione. Così la somministrazione illegale dei farmaci proibiti può continuare indisturbata. Un alto esempio dello stesso genere è quello dell’allevamento dei polli, nei quali si utilizzano quantità industriali di farmaci antibiotici, da noi come negli USA, dove nonostante l’autocontrollo, le statistiche mediche denunciano una mortalità di circa 500 persone all’ anno a causa delle conseguenze discendenti dal consumo di carne di pollo "agli antibiotici".

Un esempio dal mondo vegetale può essere quello dei prodotti dell’ortofrutta per i quali le garanzie si riferiscono al rispetto della legge, la quale però prevede che si possa usare anche più di un solo prodotto chimico con il risultato che la mela che ufficialmente non ha residui pericolosi ne contiene in verità di molte specie, ogni singola molecola sotto il livello di guardia, ma con la somma di tutti i singoli componenti che va ben al di là del limite del pericolo.

L’autocontrollo, rischia di diventare invece che la garanzia per i consumatori il mezzo con il quale i produttori continuano indisturbati a badare al proprio portafoglio senza curarsi delle possibili conseguenze per i cittadini.

Forse non a caso la Comunità Europea vuole lanciare una Agenzia Europea per la Sicurezza, certa di non andare a scontrarsi con le necessità commerciali delle industrie, perché le regole future saranno sicuramente basate essenzialmente sull’autocontrollo.

Invece l’unica via per dare vera sicurezza ai consumatori è quella di promuovere tipi di allevamento e di agricoltura di per sé più garanti, quali lo sono la zootecnia e l’agricoltura estensiva e quelle con metodi biologici, più garantiti perché i prodotti così ottenuti oggettivamente e intrinsecamente diversi e sono immediatamente distinguibili, anche dagli acquirenti, da quelli industriali.

Però, per ritornare all’esempio precedente, non è, ad esempio, conveniente stimolare la crescita con gli ormoni di un bovino che deve permanere nell’azienda più anni.

Questa strada richiede però una forte partecipazione dei consumatori che devono imparare a scegliere la qualità in luogo della quantità: finché i cittadini continueranno a consumare qualità troppo elevate di cibo, senza considerare stili di vita diversi, sistemi di alimentazione diversi non saranno proponibili produzioni di agricoltura e zootecnia diversi e più garanti per l’uomo consumatore, per l’ambiente e anche per gli animali. Perché non si deve dimenticare che nelle fabbriche della carne gli animali sono costretti a vivere come macchine, ad esaurire il loro ciclo vitale in brevissimo tempo, bruciando i tempi della crescita, della produzione del latte e dell’ingrasso, in condizioni lontanissime dalla loro etologia e in definitiva in una situazione di continuo stress e malessere.

Cambiare sistema di alimentarsi è anche la maniera più semplice di conciliare qualità e portafoglio, perché non si tratta di sostituire i cibi industriali semplicemente con quelli biologici, oggettivamente più cari, bensì di privilegiare tipi di alimentazione che diano la possibilità di non dover aumentare troppo la spesa alimentare.

Insomma i consumatori devono imparare a difendersi, diffidare delle certificazioni ufficiali di comodo a favore invece di alimenti prodotti con sistemi alternativi a quelli industriali, cioè imparare a consumare meno e meglio, imparare a scegliere e a decidere per la loro salute, quella dell’ambiente degli animali.

Enrico Moriconi, 12.10.99

 

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