ritorna alla pagina precedente

 

 

I Tribunali della Contea di Modica*

di Giovanni Modica Scala**

 

     1. Quale logica reazione al caotico periodo di anarchia feudale, precedente la conquista dell’isola da parte dei Martini, il Parlamento del 1398 fece sanzionare al nuovo sovrano (Martino I) una serie di provvedimenti intesi a ridimensionare lo strapotere dei baroni siciliani. In forza di questi nuovi ‘capitoli’ del regno[1], nessuno — all’infuori del re e dei suoi ufficiali — poteva esercitare il merum imperium. Inoltre, tutte le giurisdizioni usurpate venivano automaticamente annullate e tutte le sentenze dei baroni — che avevano legittimo e limitato diritto di esercitare la giustizia — venivano assoggettate all’appello presso la Regia Magna Curia a cui tutti, senza alcuna eccezione, dovevano ubbidienza[2].

     Tuttavia un’eccezione c’era che non sminuiva, nella sua unicità, la drasticità del provvedimento e, anzi, accentuava l’estremo rigore della regola. In un ordinamento giudiziario che rappresentava senza dubbio una forza antifeudale, teso com’era a comprimere la giurisdizione baronale ed a ripristinare il decaduto prestigio sovrano, la portata di questa eccezione è facilmente intuibile[3].

     Il diploma d’investitura a Bernardo Cabrera, del 20 giugno 1392[4], riporta, tra gli altri privilegi, un unicum che vale la pena di trascrivere: «Comitatum, castra et loca praedicta vobis concedimus ... cum mero et mixto imperio, maximo medio et minimo, et cum omni jurisdictione et dominatione tam civili quam criminali et cum appellationibus quibuscumque...».

     Tenuto conto che il massimo impero’, in diritto pubblico, è assai più del mero’, e che il ‘diritto di appello’ era prerogativa esclusiva della Regia Magna Curia, i conti di Modica, in virtù di un privilegio che non fu mai revocato, godettero di un diritto — unico in Sicilia — che, nell’esercizio della giustizia, li rese uguali al sovrano. Essi infatti «poterono costituire, nella capitale della Contea, tanti magistrati a somiglianza di quelli del Regno e, fra gli altri, un Tribunale di Gran Corte, con le stesse attribuzioni della Regia Gran Corte di Palermo»[5].

 

 

     2. Non escludo che il diploma di investitura sia stato rimaneggiato ed ampliato dal Cabrera che si riteneva, ed in effetti era stato, il vero conquistatore della Sicilia[6]. Sta, per questa tesi —sostenuta da quasi tutti gli storici, sulla scorta delle conclusioni di G. L. Barberi — il fatto che Re Alfonso denunziò le abrasioni, le aggiunte e le irregolarità che presentava il diploma esibito dai Cabrera nel 1451, rispetto all’originale[7].

     Non è tuttavia da escludere neppure che i privilegi, di cui si impugnò l’autenticità — e, tra essi, quelli di carattere territoriale — siano stati oggetto di una concessione sovrana, successiva all’investitura del 1392. Certo è che, o di diritto o di fatto, il Cabrera esercitò pubblicamente tutte le sue prerogative e mai gli venne mossa alcuna contestazione da parte di re Martino di Sicilia, prima, del re Martino di Spagna, dopo, o di uno qualsiasi dei grandi feudatari della Sicilia.

     E’ singolare anche il fatto che Re Alfonso, seppure ammorbidito da una sostanziosa composizione, abbia confermato interamente il diploma d’investitura esibito dalla parte interessata, con una sorta di provvedimento di sanatoria[8], che rese legittimi tutti i diritti che avevano esercitato Bernardo Cabrera ed i suoi discendenti. Singolare, perché in contrasto con le precise e rigide disposizioni delle prammatiche dello stesso anno 1451, con le quali, oltre che dichiarare prerogativa suprema del sovrano il diritto di comporre i delitti, per denaro, o di appropriarsi dei beni del condannato, vietava severamente ai baroni che godevano il mero e misto impero, di decidere le appellazioni o le revisioni delle loro sentenze[9].

     Una motivazione la si può ricavare dal rapporto che il conte di Villarosa don Mario Cutelli, regio Consigliere e giurista di fama indiscussa, il 5 maggio 1649 indirizzò al vicerè Giovanni d’Austria, per esprimere il suo favorevole parere, sulla conferma degli antichi privilegi giurisdizionali al Conte di Modica (Ammiraglio del Regno, Giustiziere di Palermo, Gran Giustiziere dello Stato). Il Cutelli afferma che il Tribunale di Modica

     «tiene un Avvocato Fiscale che è titolo antico della Gran Corte della Contea ed i Giudici di essa non ambiscono venir nominati Giudici di Palermo Messina o Catania godendo la stessa ampiezza di giurisdizione. Inoltre la concessione del diritto dato al conte di Modica è singolare ed alcun altro non l’ha nel Regno sì per esserglisi conferita la pienezza del mero e misto impero e senza riserva alcuna come per essergli stato accordato il terzo grado di giurisdizione che non ha né Messina né Palermo. Quest’ultima città aveva pregato per ottenerlo a somiglianza di Modica ma non l’ottenne pei suoi magistrati. Le motivazioni di questi privilegi non sono d’allegarsi al resto delle altre città. Basti dire che re Martino riconosce d’avere avuto il Regno per merito del conte Bernardo Cabrera e perché la sua giurisdizione è singolare può anche singolarizzarsi il privilegio, senza che si possa trarre ad esempio[10] ».

 

     3. Modica, dunque, capitale della più vasta e potente contea della Sicilia, aveva il Tribunale di Gran Corte, presieduto dal Luogotenente del Conte, o dal Governatore, e composto di tre Giudici utriusque juris doctores’ e di un Avvocato Fiscale. Era sede inoltre della Curia di Appello non soltanto per le prime ma anche per le seconde appellazioni, che neppure la città di Palermo aveva: ad avere infatti il Giudice delle seconde appellazioni erano, in Sicilia, soltanto il conte di Modica e l’arcivescovo di Monreale[11]; tutte le altre città dovevano ricorrere per il secondo appello alla Regia Magna Curia.

     Il Tribunale di Modica, quindi, sottratto alla giurisdizione della Regia Magna Curia di Palermo, amministrava la più alta giustizia civile e criminale, per cui giudicava di ogni tipo di delitto, ad eccezione di quello di lesa maestà.

     Al Tribunale del Re erano pure demandate tutte quelle cause, civili o criminali, in cui erano coinvolti il conte di Modica o l’università dei suoi vassalli.

     Quest’ultima circostanza si verificò, in forma macroscopica, una prima volta nel 1447, quando gli abitanti della contea, vessati dalla fiscalissima amministrazione di Giovan Bernardo Cabrera, si ribellarono in armi assaltarono il castello, bruciarono l’archivio comitale, uccisero soldati e funzionari del conte ed anche un figlio naturale di questi, che spadroneggiava in nome suo[12]. Il vicerè del tempo, tirato in ballo dai cittadini che volevano addirittura ridursi al regio demanio, inviò a Modica un Giudice della Gran Corte e un Maestro Razionale «li quali processarono tanto il popolo per la ribellione, come il conte per li delitti seguiti, ma all’uno et all’altro il re Alfonso concesse il perdono[13]».

     I Modicani non si ritennero però soddisfatti nella loro richiesta da tale decisione reale, e qualche anno dopo ritornarono alla carica; ma non più con la violenza delle armi, quanto con la forza del diritto. Per la prima volta, nell’intera storia feudale di Sicilia, i vassalli trascinarono il loro Signore sul banco degli accusati. L’accusa, mossa alla famiglia Cabrera, di aver modificato il primitivo diploma di investitura e quella d’essersi appropriata di terre che non erano mai state dei Chiaramonte, partirono infatti da quei Sindaci che l’Università aveva ottenuto d’eleggere a sue spese per essere rappresentata presso il sovrano. Si ridimensionava e si riduceva così la distanza che separava il popolo dal conte.

     Una seconda volta, nel corso del XV secolo, si verificò nel 1474, quando, a seguito dell’eccidio di 360 ebrei, la Università modicana fu sottratta alla competenza del Foro comitale, per essere giudicata e condannata dalla Regia Gran Corte e, per essa, dal viceré Lope Ximen Durrea. In questo caso, due furono le limitazioni che subirono i privilegi d’investitura del 1451; perché alla prima, cui si è accennato, si aggiunse anche quella relativa alla delega del potere sovrano ai conti di Modica in materia di giurisdizione sui giudei, che, in tutto il resto del territorio del regno, erano considerati «servi della regia Camera».

     Nell’uno e nell’altro aspetto della doppia limitazione, si possono certamente ravvisare gli estremi del caso eccezionale ed invocare i principi del diritto generale; tuttavia anche in casi comuni, in cui le parti in causa non erano né l’Universitas, né il suo signore, ma dei privati vassalli, soggetti alla completa giurisdizione del conte, il potere regio o viceregio si sostituiva, sia pur occasionalmente per circostanze particolari, a quello del beneficiario titolare.

 

 

     4. La Magna Curia di Modica o, come più comunemente veniva chiamata, la Gran Corte della Contea, giudicava — come abbiamo rilevato — in primo e in secondo appello, in un campo di azione ampio quasi quanto quello del sovrano. I suoi poteri, che erano in definitiva i poteri delegati del conte, risultavano dalla somma del mero, misto e massimo impero: perseguire i colpevoli di qualsiasi delitto, arrestarli, sottoporli a processo, condannarli ad una pena in denaro, alla confisca dei beni, al bando perpetuo o limitato nel tempo. Poteva sottoporre i colpevoli, veri o presunti, alla tortura, come mezzo per ottenere una confessione o come pena fine a se stessa; poteva, ai colpevoli riconosciuti, tagliare le orecchie o le mani o qualsiasi altra parte del corpo; poteva privarli della vista, cavando o bruciando loro gli occhi con ferri roventi. Poteva, infine, condannare i rei all’ultimo supplizio e dipendeva dalla fantasia del giudice, oltre che dalla particolare gravità del delitto, la scelta del mezzo per procurarne la morte: il taglio della testa, lo strozzamento, il rogo, la forca, lo squartamento. Pene minori o accessorie erano la gogna[14], la raptatio a dorso d’asino[15] e la fustigazione; quest’ultima, non di rado, provocava la morte o la pazzia.

     La competenza a giudicare era vastissima, abbracciando tutti i reati di carattere civile, finanziario e penale; in quest’ultimo settore venivano accomunati i ladri, gli assassini, i falsari, gli usurai (se cristiani), i funzionari corrotti[16], i defloratori di vergini, i persecutori o gli approfittatori delle vedove o delle orfane, gli incestuosi, i sodomiti (un fenomeno assai poco diffuso, contrariamente a quanto ne pensa il Denis Mack Smith), i bestemmiatori, le meretrici, i lenoni, gli adulteri, i bigami, gli avvelenatori o quanti, in una pallida parodia di riti magici, preparavano filtri letali e pozioni amorose[17].

 

 

     5. La Magna Curia aveva sede, ovviamente, a Modica, capitale della contea, e da essa discendeva tutto un apparato giudiziario che, in proporzioni più modeste, ricalcava quello del regno. Diversamente dalla Regia Magna Curia che ne aveva quattro[18], la Gran Corte di Modica era retta da tre Giudici: due ordinari e uno di appello.

     Sappiamo che i Giudici del re percepivano un salario di ottanta onze l’anno[19], ma a prestar fede all’illustre Cutelli — e non abbiamo alcun motivo per dubitarne — i giudici della contea, attraverso l’esazione di un rilevante numero di «diritti», dovevano incassare ogni anno parecchio di più.

     Questi giudici del Tribunale di Gran Corte di Modica offrivano le più ampie garanzie di capacità e di obiettività, non tanto per l’assicurazione del Cutelli, che potremmo ritenere gratuita, secondo cui «i giudici non attendono alla volontà del conte, se non nel giusto e nell’onesto», quanto perché in uno Stato dall’economia florida come quella della contea «i giudici possono mantenersi decorosamente con i propri uffici, trattando materia di importanza» e, quel che più importa, di materia ricca di diritti di ogni genere.

     Gli Statuti della Contea, codificati nel 1542 dal governatore Bernaldo del Nero, versione scritta di antichissime ‘consuetudini’, nel capitolo De juribus magnifici domini Judicis Magne Curie et Appellationum, in causis criminalibus[20], elencano tutta una serie di diritti spettanti al giudice, nell’esercizio delle sue funzioni. Non c’è, in effetti, alcun atto della sua magistratura che non importi un compenso a suo favore, tranne che la parte, cui incombeva il pagamento, non fosse il Fisco del conte.

     Una parte rilevante dei suoi proventi doveva essere costituita dai ‘diritti di composizione’. Questo particolare diritto — la cui misura non è specificata dal capitolo e che, pertanto, doveva adeguarsi a quella prevista dalle Costituzioni — toccava al giudice non soltanto nei casi in cui le due parti in causa addivenivano, per il suo tramite, ad un accordo, ma anche in tutti gli altri casi in cui il conte si avvaleva del privilegio eccezionale di comporre un delitto per denaro, privilegio che, per quanto ne sappiamo sin qui, era riservato al sovrano o al viceré di Sicilia.

     Il rilascio di una semplice cedola ingiuntiva importava al giudice il diritto di un tarì, e quello di una cedola assolutoria, di ben sei tarì, cioè un fiorino. L’accusato o inquisito di un processo indiziario, quando le prove a suo carico non erano tali da farlo ritenere colpevole, poteva chiedere di essere scarcerato; la sola richiesta di scarcerazione importava un tarì e dieci grani per jus candelarum[21] (21). Se il giudice riteneva di poter concedere la scarcerazione — previa idonea pleggeria o cauzione — l’accusato era tenuto a pagargli altri tre tarì; se l’accusa, però, riguardava un reato considerato minore, un reato cioè de simplici insulto vel de injuris non atrocibus, il diritto di candela si riduceva ad un tarì soltanto.

     La richiesta di carcerazione — che veniva avanzata dall’accusatore, cioè dalla parte lesa — doveva essere accompagnata dal pagamento di un tarì e dieci grani; e se il relativo processo non aveva luogo, per mancanza di prove o per altri motivi, come la remissione, il magnifico giudice percepiva un diritto di tarenos sex juxtum antiquas pandectas[22].

     Oltre all’jus candelarum, il giudice riscuoteva l’jus pro purgatione banni, un compenso per l’interrogatorio dei testimoni — una semplice lettera di udienza importava due tarì — e l’jus provisionis. Quest’ultimo diritto spettava al giudice sull’emissione della sentenza, sia di assoluzione che di condanna, ed ammontava a sei tarì se il processo era stato sollecitato da un accusatore privato; se, invece, a promuoverlo era stato il Fisco, al giudice non venit jus provisionis.

 

     6. I casi in cui il Patronus Fisci’—u n magistrato il cui ufficio può paragonarsi a quello dell’attuale Procuratore della Repubblica — assistito dal Doctor Advocatus’[23] promuoveva un processo d’ufficio, erano quelli in cui il reato veniva raffigurato come pubblico delitto[24]; il procedimento era detto ‘inquisitorio’ o di azione pubblica, e trattava dei delitti più gravi, di carattere sociale o politico. Lo stesso meccanismo giudiziario, però, poteva essere mosso anche da un privato — generalmente, la parte lesa — con una denunzia giurata, sostenuta da deposizioni testimoniali; in casi di questo genere, riguardanti tutti i delitti non classificati pubblici, il procedimento era detto accusatorio’ o di azione privata.

     La giustizia penale e civile, non eccedente il valore di un’onza, veniva amministrata in primo grado — nelle ‘Terre’, ossia nei Comuni, soggette al conte di Modica — dal Capitano’ (che aveva assorbite ed ampliate le funzioni del vecchio bajulo’[25] assistito da un consultore’ che aveva il compito di consigliarlo e di illuminarlo sugli aspetti giuridici dei singoli casi sottoposti alla sua competenza[26]. Oltre che amministrare la piccola giustizia, il Capitano assolveva a numerosi compiti di polizia; dipendeva direttamente dal Governatore e, quale magistrato inferiore, dal Tribunale di Gran Corte[27]. Aveva ai suoi ordini un numero non indifferente di algozirii’ o berruarii’ (da cui, i termini di aguzzini e sbirri), per mantenere l’ordine pubblico e per prevenire o reprimere i reati. Rivestiva, seppure in termini più modesti, le attuali cariche di Pretore e di Commissario di Pubblica Sicurezza; ma assolveva anche i compiti del moderno Ufficiale Giudiziario; esigeva, infatti, i crediti dell’Università e, nei casi di morosità, era autorizzato ad agire coattivamente, pignorando ai debitori un quantitativo d’oro o di argento pari all’importo dovuto[28].

     Con lettera del 12 ottobre 1542, il governatore Bernaldo del Nero diede licentia et facultati ai capitani delle terre della contea, di providiri li accusationi di injurii verbali minimi, dummodo ki non si hagiano injurato bagaxi, cornuti, lazzaruni, heretici, tradituri, soddomiti; i capitani potevano, inoltre, giudicare delle accuse di liti infra donni, non chi intervenendo armi ne homini, o anche di risse tra uomini, a patto che in dicti insulti non chi seno feriti, chactunati, nervati, bastunati, cantunati, boffi ne pugna in fachi.

     La competenza delle Corti Capitaneali, non vincolata al preventivo benestare del governatore o del giudice ordinario, era condizionata alla lievità dell’ingiuria o della lite e alla remissione della denunzia, da parte dell’accusatore, entro le 24 ore. Si deve dedurre che, in caso contrario, la competenza a giudicare spettasse al giudice ordinario. La remissione della querela importava automaticamente la scarcerazione dell’imputato; il diritto relativo, percepito dal capitano era di tarì uno, lu quali si intenda tantum per raxuni di excarcerationi comu per raxuni di candili[29].

 

 

     7. Una figura molto importante, che si incontra con insistenza in tutti gli atti della vita pubblica e privata del Medio Evo (e anche oltre), è quella del Magister Notarius’. Ogni Corte o Organo collegiale ne aveva uno, con funzioni principali, nonché altri, con compiti subordinati; il titolare assolveva alle funzioni di cancelliere o di segretario. I mastri notari più alti in grado erano quelli assegnati alla Gran Corte, alla Corte del Capitano, ai Giurati (assessori comunali) ed al Patrono del Fisco. I mastri notari trascrivevano gli atti della Magna Curia, gli atti dei singoli magistrati in sede di giudizio, gli atti particolari degli uffici cui erano assegnati; raccoglievano le denunzie accusatorie e le testimonianze, rilasciavano copie degli atti originali in loro possesso e facevano da tramite tra le parti avverse in giudizio e la Corte da cui dipendevano[30].

 

     Dell’apparato burocratico comitale facevano parte inoltre procuratori legali, calcolatori, arbitri compositori, sollecitatori e monteri.

     Il Sollecitatore’ era una strana figura di professionista, il cui compito si limitava a stimolare la giustizia a portare a termine un processo, ad affrettare l’esecuzione di atti dovuti, quali ad esempio l’escussione dei testimoni o il rilascio dei capitoli testimoniali; ad incitare, cioè, giudici e notai a non perder tempo nell’espletamento delle pratiche processuali. Venivano assunti dalla parte in causa che aveva maggiore interesse a non far languire un innocente in carcere o a cacciarvi un colpevole a piede libero. Ritengo che la loro funzione si rivelasse più importante e, forse, indispensabile, nei processi a carattere finanziario; ma anche nei processi criminali, la loro opera poteva rivelarsi determinante e rendere più rapida giustizia a coloro che avevano ricevuto un torto o subìto un sopruso. Ignoro con quali mezzi e attraverso quale procedura riuscissero ad ottenere risultati positivi, ma è certo che la categoria — certamente antica quanto la Curia — è inquadrata regolarmente nei Capitoli del 1542. Per le loro prestazioni, i sollecitatori percepivano la terza parte di quanto spettava agli avvocati, oltre i diritti di avvocatura[31].

     Il Montere’ è un altro elemento caratteristico di questo complesso organismo curiale; lo si può considerare, grosso modo, come un odierno messo giudiziario, ma con una gamma di incombenze molto più vasta. Aveva mano nella scarcerazione dei criminali, sovrintendeva alle operazioni di pignoramento, si occupava della pubblicizzazione dei bandi, faceva da corriere tra i giudici ed il governatore, per il recapito degli atti proeessuali, e notificava le citazioni. Per quest’ultimo incarico, il diritto da riscuotere variava con l’importanza dell’ufficio citante: tre denari, se si trattava di un magistrato inferiore; il doppio, se a disporre la citazione era il governatore o un giudice ordinario della Gran Corte[32].

     Di monteri, la Curia di Modica pullulava, ma i giudici — per i bisogni del loro ufficio e ad eccezione delle citazioni — potevano disporre di un solo montere che aveva veste ufficiale; tutti gli altri erano monteri privati, riconosciuti regolarmente ed abilitati agli stessi compiti del montere capo, supergiù in una veste giuridica analoga a quella delle attuali guardie. Le citazioni, forse per lo stragrande numero di notifiche, venivano consegnate agli interessati soltanto dai monteri privati[33].

 

     Questo numero imponente di giudici, avvocati, procuratori, notai, periti e causidici di ogni genere, attorno a cui orbitava il complesso rigoglioso e frenetico degli ufficiali (oltre che certamente di mestieranti e parassiti), formava l’ossatura di quel doppione della Regia Magna Curia che per secoli ebbe sede nella contea di Modica e, per le sue particolari competenze, costituiva un unicum nel sistema giudiziario siciliano.

 

 

 

 

 


APPENDICE

 

Documento di nomina a ‘magistrato’ della Gran Corte

Nos D. Antonio Vìllanova

     Abocado Des los Regales conseios de Castiglia, Bachiller en artes por la regal universidad de Valladolid, y en leyes, y canones por la (de)misma ecc.

     Procurador, y administrador General del Contado De Modica Sus Ciudades, y Derras, y de la Baronias de Alcamo, Calatafimi ecc. Por el excellentissimo senor D. Ferdinando De Sylva Enriquez De Cabrera Conte de Modica Duque de Alba ecc.

     Per quanto conviene al Servicio di S. E., y a la recta administracion de la justicia (confexir) el Cargo (de) Iuez de la G. C. di Modica en persona de suficiencia, atencion, zelo, integridad, y disinteres, y concurriendo estos requisitos en Vos Doctor don B.ne Ettore Leyva hemos resuelto usando delpoder, yfacultad amplia que tenemos de eligiros, y nombraros en virdud de la presente por juez de la referida G. C. por al tiempo de nuestra voluntad, debiendo exercer, y administrar esto Cargo con la misma jurisdicion, y autoridad, que lo han esercido vuestros Antecesores, y segun, y como esta arreglado dicho Tribunal de la G. C. y ordenamos, y mandamos a todos, y cualesquiera Ministros, OSciales, y Personas del Contado de Modica, que os tengan, traen, obedezean, y reconozean, en quanto a Cadauno toca, y puede tocar como taljuez, y guardan todas las honras, y preminencias, exemptiones, privilegios, salarios, lucros, emolumentos, y demas, que han gozado vuestros Antecesores, con que antes de entrar en el exercisio de dicho Cargo hagais el juramento de bien, y (en servicio) de la Justicia (exercerlo), de lo que mandé (mandemos) despachar esta firmada de mi mano sellada con el Sello de S. E., y referendata dal Secretario de la General Administración

     Data en Palenno 27 Dicembre 1774 — Don Antonio Villanova — Patente de Iuez de la G. C. de la Ciudad de Modica en persona del Doctor B.ne Ettore Leyva.

     Documento riportato (senza ulteriore indicazione della fonte) da R. Grana Scolari in Cenni storici della Città di Modica, Ed. Nifosì, Modica 1895, pagg. 109-110. (Integrazioni del C.)

 


Corti (Tribunali) di giustizia della Contea di Modica

 

     - Gran Corte. Fu concessa nel 1361 da re Federico IV d’Aragona a Federico III Chiaramonte, conte di Modica. Comprendeva la giurisdizione civile e quella detta ‘criminale’ esercitate da vari giudici. La presiedeva il Governatore come procuratore generale del Conte; ne facevano parte inoltre l’Avvocato ed il Procuratore fiscale, il Maestro notaio e vari impiegati.

     - Corte delle (I e II) Appellazioni (o d’Appello) concessa da re Martino nel 1392 al conte Bernardo Cabrera.

     - Corte del Patrimonio detta anche ‘banca’. I suoi funzionari erano il Conservatore, i Maestri Razionali, i Contatori, il Procuratore e l’Avvocato fiscale, il Protonotaro, il Razionale ed il Maestro Notaio.

     - Corte Capitanale (o Capitaneale): era presieduta, in ogni Comune della Contea, dalCapitano di giustizia’ assistito da un dottore in legge (‘Consultore’ o ‘Assessore’) come giudice, da un Maestro Notaro, da un Monterio (o Montere) e da uomini armati (‘algoziri’) per l’arresto dei colpevoli.

     - Corte Giuratoria (o civile): era affidata ai Giurati d’ogni Comune della Contea. La competenza per i processi relativi a questioni pecunarie era limitata — come per la corte Capitanale — all’importo di venti tarì (circa 400.000 lire di oggi); per somme superiori avocava le relative cause la Gran Corte.

 

     Altre Corti di minore rilievo erano quelle costituite dai titolari di importanti uffici per sottoporre a giudizio di condanna — non penale — le persone soggette per l’attività che svolgevano, al loro controllo anche in merito ad infrazioni commesse nell’adempimento dei loro doveri. Si tratta degli uffici del Maestro Giurato; del Maestro Segreto, del Protonotaro, del Protomedico, del Portolano.

     G. Raniolo, La Contea di Modica nel Regno di Sicilia, Ed. Ass. Cult. Dialogo, Modica 1 993 , pag. 167, rif. 161.

     Oltre ai predetti Tribunali civili, V. Amico riferisce che a Modica, per il suo rilievo civile ed ecclesiastico, aveva sede un “magistrato ecclesiastico [che] esercitava le veci del Vescovo, [anzi era] dotato di più ampia potestà”. (Diz. topografiico della Sicilia, trad. del Lexicon siculum del 1757, Palerrno 1859, vol. 2, pag. 147). Se tale Ufficio si identificava con quello ‘del Tribunale del S. Offizio’, ne possiamo così sintetizzare (con G. Raniolo, op. cit., pag. 167) la struttura:

     Tribunale del Santo Offizio: affidato ai Domenicani, era costituito di un Commissario, un maestro notaio, un capitano ricevitore e venti guardie o gregari attinti ai numerosi familiari’ (laici) che s’affiliavano all’Ordine, ricevendone sostegno e protezione.

 



 

NOTE

 

 

     * L’Autore si occupa dei poteri giurisdizionali dei Conti di Modica nei secoli di massimo esercizio dei medesimi, ossia dall’investitura a Bernardo Cabrera nel 1392.

     Va però evidenziato come già nel 1361 il re di Sicilia Federico IV d’Aragona aveva concesso (cfr. Diploma di conferimento nei 1° riquadro) al conte di Modica Federico III Chiaramonte l’esercizio del merum imperium’, cioè di una giurisdizione criminale amplissima: già si configurava un’istituzione analoga a quella della Regia Gran Corte di Palermo, quale fu quella modicana dei successivi secoli.

     Su quella lunga tradizione è poi proseguita dopo la fine giuridica della Contea (1812/16), secondo rinnovate modalità — ivi incluse le sedute della Corte d’Assise —, l’attività dei Tribunali modicani nell’‘800 e nel nostro secolo.

     A tale consolidata presenza istituzionale va riferita una dinastia di egregi giureconsulti e studiosi del diritto nonché uno stile di sostanziale e diffusa civile convivenza, che ha caratterizzato lungo i secoli l’angolo sud-orientale della Sicilia. (N.d.C).

 

     ** (Modica, 1920). È socio ordinario della Società di Storia patria di Palermo, dell’Archivio Storico della Sicilia Orientale di Catania, dell’Arch. Stor. Siracusano. È corrispondente, per Modica, della Encyclopaedia Britannica.

     Ha ottenuto il Premio di Cultura, dal Consiglio dei Ministri, per le opere precedenti il 1976.

     Ha pubblicato: La grande alluvione (Modica 1902), Ed. Voce Libera, Modica 1968; La Madonna di Sion, Setim, Modica 1974, Le Comunità ebraiche nella Contea di Modica, Setim, Modica 1978 (da tale opera è estratto - col consenso dell’A. - lo studio, che qui viene pubblicato con qualche adattamento redazionale); Pagine di pietra. Periegesi storico-archeologica, Ass. Cult. Dialogo, Modica 1990; Sicilia Medievale dagli Arabi ai Normanni agli Svevi, A.C. Dialogo, Modica 1995.

     Ha pubblicato inoltre raccolte documentarie sulla Contea di Modica e numerosi articoli su periodici.

 

     [1] Leggi votate dal Parlamento di Sicilia, formato di tre ‘bracci’ o gruppi: militare (o dei baroni con feudi), ecclesiastico (dei prelati), demaniale (dei sindaci delle città regie, non feudali); cfr. G. Raniolo, La Contea di Modica nel regno di Sicilia, Ed. Dialogo, Modica 1993, pag. 180.

 

     [2] Capitolo 10 di re Martino, in F. Testa: Capitula Regni Siciliae, apud Felicella, Panormi 1741, tomo I, pag. 144.

 

     [3] Lo stesso re Martino, in una lunga premessa elogiativa, nel diploma di investitura, motivò il privilegio con l’eccezionalità dei meriti del beneficiario. Bernardo Cabrera, infatti, per i grandissimi e vitali servizi che aveva resi alla causa siciliana dei due Martini, aveva avuti assegnati la Contea di Modica e tutti i privilegi ad essa legati così come risultava beneficiario l’ultimo dei Chiaramonte, a cui erano stati confiscati per aver osato opporsi all’azione di conquista della sua terra da parte di uno straniero.

 

     [4] R. Solarino, La Contea di Modica, Ed. Piccitto e Antoci, Ragusa 1885-86, vol. 2, pag 152-158 (in part. pagg. 155-156), riporta l’intero diploma. Cfr. Archivio di Stato di Palermo, Registro di Cancelleria presso Tribunale del Real Patrimonio, anno 1392, 1.C., f. 161; cfr. anche A.S.P., Ministero Affari di Sicilia, int. B3, fasc. 9.

 

     [5] D. Orlando: Il feudalesimo in Sicilia, Palermo, Tip. Lao, 1847, p. 188. Cfr. anche T. Fazello: De rebus siculis, in Rerum Sicularum Scriptores, Francofurti ad Moenum, apud Wechelum, MDLXXIX, tomo 1°, p. 643, Amico e Statella: Lexicon topographicum Siculum, Panormi, apud Bentivenga,1757, tomo 1°, parte 2a, p. 97; Villabianca: Della Sicilia nobile Palermo, 1754-59, tomo 3°, parte 22 lib. 4°, p. 6; B. Masbel: Descrittione e relatione del Governo di Stato e Guerra del Regno di Sicilia, Tip. Coppola, Palermo, 1694, cap. 15, p. 44; R. Solarino: op. cit, vol. 2°, p. 152 e segg.; G. Modica Scala: L’Ordinamento economico e finanziario della Contea di Modica nel XVI e XVII secolo, Modica 1972, apud Bibl. Com. Palermo, ai segni 2Qq E211, p. 35 e segg.

 

     [6] Oltre alla vasta letteratura sull’argomento, cfr. particolarmente, Solarino: op cit. vol. 2°, p. 122; Modica Scala: I Conti di ferro in «Voce Libera», anno 2°, 1967, n.6.

 

     [7] Cfr. copia del diploma esaminato da Re Alfonso, conservata nel Grande Archivio di Palermo e trascritta, intorno al 1500, da G. L. Barberi, nel suo Capibrevium .

 

     [8] Il Solarino, una prima volta (op. cit, vol. 2°, p. 137, n. 1), pone la data della reinvestitura, concessa da Re Alfonso, dalla Torre Ottavia di Napoli, all’11 febbraio 1451. Poco più avanti (pag. 161), la stessa concessione è datata al 25 febbraio del 1457. Il Sortino Trono Schininà, che attinse dall’opera del Solarino ripete la prima data del 1451 che un evidente errore tipografico trasformò in 1541. Noi seguiamo il più attendibile A. Inveges (La Cartagine siciliana Tip. G. Bisagni, Palermo 1651, pp. 471-2) che riporta l’11 febbraio del 1451, quale data della sentenza di condanna, ed il 23 febbraio 1451, quale data del privilegio integrativo (Canc. anno 1450, ff. 417-426).

 

     [9] Cfr. R. Gregorio: Storia di Sicilia ossia il diritto pubblico siciliano in Opere scelte Ed. Italia, Palermo 1847, pag. 496.

 

     [10] Placido Carrafa, nel suo Prospetto corografico istorico di Modica del 1650, trascrive integralmente il rapporto del Cutelli. Nell’edizione volgarizzata dal Renda, nel 1869, il testo è riportato a pag. 64 e ss. Nel corso di una acuta analisi, troppo lunga per essere riportata nell’intero, il grande giurista siciliano — notoriamente contrario al trasferimento nei baroni del potere sovrano di amministrare la giustizia, ed a cui il vicerè si era rivolto, appunto, per consiglio — fa rilevare che l’eccezionalità del privilegio scaturiva dalla statura particolare del primo beneficiario, al quale re Martino riconosceva il grandissimo merito di avergli conquistato il regno di Sicilia. Nel contempo, non tralascia di ricordare al rigido Giovanni d’Austria, con garbata eloquenza, gli stretti legami di parentela che avevano unito, ed univano ancora, i conti di Modica al sovrano di Spagna.

 

     [11] R. Gregorio: Storia, ecc., cit., pag. 474.

 

     [12] R. Solarino: op. cit., vol 2°, p. 136.

 

     [13] A. Inveges: op. cit., pag. 471. La remissione reale è nel foglio 381 del Reg. l di Cancelleria dell’anno 1447 (A.S.P.).

 

     [14] I condannati alla gogna, o vergogna, venivano legati con un collare di ferro ad un palo piantato nella piazza più grande e frequentata del paese, esposti agli sputi ed agli oltraggi verbali del popolino. Questa pena umiliante, detta anche del «collaro», nelle terre della Contea pare venisse inflitta, sino all’alba del secolo scorso, anche ai ragazzi sorpresi a bestemmiare. Abbiamo, dal Guastella (Canti popolari del Circondario di Modica. Tip. Lutri e Segagno, Modica, 1876, pag. LXI), che «il giovinetto delinquente, o supposto tale, venia racchiuso pel collo entro quel cavicchio di ferro, gli si legavano dietro le mani e indi, denudato dalla cintola in su, venia unto di miele; al pianto, agli stridi, al chieder misericordia, alla preghiera di cacciarglisi almeno le mosche, si rispondeva con le ingiurie e con una tempesta di fischi».

 

     [15] Raptatio, vel ducere ad vilipendium per mediam civitatem. Il condannato, costretto a cavalcare un asino, al contrario, veniva condotto attraverso le vie principali del paese o della città, con un seguito di plebaglia che lo accompagnava al suono di campanacci, in un coro di urla e di frasi oscene, e lo colpiva con ogni sorta di rifiuti.

 

     [16] In particolari occasioni, il conte di Modica emanava dei bandi, per invitare i vassalli a presentare eventuali lagnanze contro i suoi ufficiali, Giudici e Giurati compresi, che avessero commesso ingiustizie o abusi di qualunque natura. La più nota di queste straordinarie misure di giustizia feudale è quella riferita dal Solarino (op. cit., vol. 2°, pag. 137), adottata da Giovan Bernardo Cabrera, a metà del Quattrocento, successivamente all’insurrezione del 1447.

 

     [17] Cfr. G. Verdirame: Le istituzioni sociali e politiche di alcuni Municipi della Sicilia Orientale. In A.S.S.O., anno 3°, 1906, pp. 40-41.

 

     [18] Cfr. Capitoli 1, 76 e 366 di Alfonso. In Testa: op. cit., tomo 1°, pp. 206,

 

     [19] Cfr. Capitoli 2 e 76 di Alfonso. In Testa: op. cit., tomo 1°, pp. 207 e 233.

     Le modalità di erogazione di questo e degli altri salari e paghe sono analoghe a quelle di altre Istituzioni dell’epoca; cfr. ad es., per lo Studium-Università di Messina nel 1597, D. Novarese, I Capitoli dello Studio della Nobile Città di Messina, Ed. Sicania, Messina 1993, pag. 38 e segg. (N.d.C.).

 

     [20] Statua, Capitula, Ordinationes et Pandecte totius Comitatus Mohac, facte et ordinate per multum spectabilem dominum Bernaldum Del Nero, generalem gubernatorem Comitatus predicti et terrarum Alcami et Caccami, et regium Consiliarum, cod. Arch. priv. De Naro Papa, ff. 13r e segg. Cfr. E. Sipione, Statuti e Capitoli della Contea di Modica, Soc. Siciliana di Storia Patria, s. II, vol. XIV 1976; G. Raniolo, La Riforma del Diritto di Prelazione in un’Ordinanza dei Conte Bernardo Cabrera, Ed. Dialogo, Modica 1983; Id., Introduzione alle consuetudini ed agli istituti della Contea di Modica (voll. 2), Ed. Dialogo, Modica

 

     [21] Il diritto di candela’ trovava origine in una vecchia credenza popolare che vincesse la causa chi delle due parti accendeva un maggior numero di candele. Nel periodo di cui trattiamo, le candele (assieme a qualche altro genere, quale il pepe) assolvevano anche alla funzione di moneta; le pagavano i fedeli al loro parroco, per le funzioni religiose da loro richieste, ed anche i feudatari ai loro armati, ufficiali e dipendenti, come parte del soldo, assieme ai viveri. Il Testa, in una nota al capitolo 223 di Alfonso (op. cit., pp. 276-77 del tomo I), commenta: Quoniam ludicibus pro causis examinandis saepe lucubrandum est, merito comparatum fuit, ut aliquid pro eo, quod in lumina insumunt, ipsi a litigatoribus exigant Unde profectum estyus quod cerae vel candelarum dicitur. Il luminibus accensis (una delle 14 denominazioni con cui i Romani suddividevano il giorno), ricorrente spesso negli atti giudiziari, ma ancor più negli atti notarili, stava ad indicare il periodo successivo al crepuscolo, durante il quale era necessario accendere le candele, per continuare la stesura scritta degli atti.

 

     [22] Le antiche pandette, cui faceva riferimento il capitolo di Bernaldo del Nero, erano le Ordinationes promulgate nel marzo del 1420. Il Cap. 23, intestato ad Alfonso, fissava la tangente dell’jus cerae vel candelarum in proporzione al valore finanziario del processo.

 

     [23] Questa carica, con i compiti assegnati al Patronus, in molte città della Sicilia era ricoperta dal Procurator Fisci. Cfr. A. Italia: Sicilia feudale, Ed. Dante Alighieri, Roma, 1940, p. 384. Nella Contea di Modica, c’era pure un Procurator Fisci; ma, contrariamente al Patronus e all’Advocatus che, in un certo senso, erano del liberi professionisti a percentuale, era un salariato dalla Magna Curia ed assolveva a compiti assai meno importanti, quali quello di portare, ad istanza delle parti, le denunzie scritte al Giudice o al Patrono Fiscale o quello di rappresentare la Curia nelle composizioni e nelle confische. Al Procurator Fisci spettava l’appellativo di nobile’, mentre il Giudice, il Patrono del Fisco e l’Avvocato si fregiavano di quello, ben più prestigioso, di magnifico’. Cfr. Capitula ecc., ms. cit., pag. 26 v.

 

     [24] I pubblici delitti, in cui il Patrono agiva come rappresentante del popolo, erano quelli elencati nel cap. CLXIX di Alfonso, del 1446. Cfr. Testa: op. cit., tomo I, p.256.

 

     [25] La figura del bajulo non scomparve con l’avvento del capitano. Nelle terre della Contea, al bajulo vennero affidati compiti di polizia rurale. Cfr. Capitula ms. cit., p. 60 e ss.

 

     [26] Il Capitano di Giustizia non va confuso con il Capitano di armi a guerra che poteva essere, a volte, lo stesso Governatore. Il Capitano d’armi a guerra badava alla difesa della città e del territorio della Contea, contro i nemici di qualunque provenienza, con i soldati del conte e gli uomini validi del feudo; dipendeva, per l’impiego, direttamente dal vicerè.

 

     [27] I compiti e i diritti del Capitano e della Curia Capitaneale sono elencati nel Cap. «De juribus magnificorum Capitanearum» degli Statuta, etc., ms. cit., pp 37v, 40r.

 

     [28] Statuta, ecc., ms. cit., f. 4 v.

 

     [29] Statuta, ecc., ms. cit., ff. 89v-90r. Il diritto di candele, o jus candelarum, almeno nelle terre della Contea, spettava anche al Maestro dei Giurati e al Maestro Razionale (ragioniere dello Stato).

 

     [30] Cfr. Statuta, ecc., cit., pp. 32r e ss., 40r e 42r-46r. Un interessante interrogativo — se, cioè, l’ufficio di mastro notaro poteva essere esercitato anche da una donna — pone un documento del 1596, in margine ad una vertenza tra un legale ed i Giurati di Modica affidata alla competenza della Magna Curia. ll procuratore Antonino Romano chiede a Bernardino Yssunça, General Governatore della Contea nel quadriennio 1595-1598, di revocare, per legittima suspicione, il mandato di difensore dei Giurati al dottor Pietro Cagio, nella causa che Aleonora di Assenzo ha intentato contro gli amministfatori dell’Universitas, per chiedere la restitutione di la possesioni di lo officio di mastro notaro di li Iurati di Modica, jure prothomiseos... Il documento, che fa parte dell’Archivio privato del prof. G. Arezzi di Modica, riporta la segnatura 378r di uno smembrato volume di lettera.

 

     [31] Cfr. Capitula, ecc., ms. cit., p 30v: Jura Sollecitatorum’. Una clausola restrittiva del compenso, quando non sit processus sed proceditur ex abrupto, ci porge modo di osservare che la procedura «ex abrupto et dispensativo modo», cioè senza l’osservanza delle forme ordinarie, mentre veniva autorizzata eccezionalmente, e per gravi motivi, da speciali lettere di potestà della Regia Magna Curia dirette ai capitani di giustizia, nella Contea faceva parte della procedura ordinaria.

 

     [32] Cfr. Capitula, ecc., ms. cit., pp. 59r e ss.: «De juribus Monterii magnifici domini Judicis» e «De juribus aliorum monteriorum». I diritti dei Monteri della Contea erano pressocché uguali a quelli dei ‘Servientes’ della Regia Magna Curia. Cfr. Cap. CCXLVIII di Alfonso, del 1420. In Testa: op. cit., tomo I, p. 284.

 

     [33] In un atto del notaro Simone De Jacobo (Archivio di Stato di Modica), in data 6 ottobre 1556, troviamo che tale Vincenzo Grignuni loca al nobile Jeronimo Ros ed a Vincenzo Parisi i servizi della sua persona — sino al prossimo Natale e per il salario posticipato di 18 tarì — tra cui quelli di monteri, zoe citari, expignorari, portari pigni et andari per la terra continuamenti.