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Sulla produzione architettonica nella
Contea di Modica
fra tardogotico e
rinascimento*
di Marco
Rosario Nobile**
La chiesa di S. Maria del Gesù a Modica
La fondazione del convento di Francescani Osservanti intitolato
a ‘Santa Maria del Gesù’
a Modica[1]
(1), datata a partire dal 1478, risulta certamente
correlata ai finanziamenti dei conti di Modica, Anna Cabrera
e Fadrique Enriquez. Il
legato perpetuo concesso alla fabbrica sanciva il matrimonio svoltosi nel 1481
(forse a Modica), ed esprimeva la volontà del nuovo conte di risiedere nella
Contea, come per obbligo dei capitoli matrimoniali[2]
(2), probabilmente segnando anche una nuova direttrice di espansione
della città verso l’altipiano. Al convento venne annesso uno ‘Studium’:
«In eo est amplissimum Studium philosophiae ...»[3] (3).
Basata su un rigido modulo ‘ad quadratum’, la struttura venne realizzata nell’arco di
circa mezzo secolo. Sicuramente le proporzioni dell’aula chiesastica originaria
dovevano essere di circa 1 a 3, mentre l’altezza delle strutture murarie e le
chiavi di volta (una di queste sembrerebbe portare la data del 1523), rintracciate durante i lavori di restauro, fanno intuire
come la copertura delle campate fosse risolta con tre vaste crociere quadrate.
L’inserimento di cappelle laterali a scopi prevalentemente funerari rientra in
una nuova generale organizzazione delle chiese monastiche, a partire dalla fine
del XIV secolo.
Testimonianze documentarie della metà del XVI secolo attestano come la sepoltura in S. Maria del Gesù risultasse
appetibile, nonostante la probabile saturazione degli spazi disponibili, per la
creazione di nuove cappelle[4]
(4).
Di particolare interesse è la cappella con ingresso alla
chiesa, basata su una volumetria cubica su cui doveva insistere una copertura particolare,
forse una calotta su pennacchi come la cappella Cabrera
in S. Maria di Betlem a
Modica, mentre i contrafforti angolari potrebbero far pensare a una crociera ‘nuda’ all’antica,
come si sarebbe realizzato nel 1538 nella cappella della ‘Dormitio Virginis’ in S. Maria delle Scale a Ragusa[5]
(5).
Singolare è il portale, riferibile alla prima metà del XVI secolo: una atrofizzata
cornice mistilinea tardogotica è incastrata da una
edicola classicista. Fuori dagli schemi consueti è il
timpano «a omega» (che potrebbe essere più recente), mentre i capitelli ionici,
con volute diagonali sembrano rivelare, nella fattura artigianale, una
conoscenza di modelli classicisti, svolta esclusivamente attraverso disegni o
incisioni.
La qualità artistica del prospetto è stato
generalmente riconosciuta. Basterà aggiungere come il corpo
del portale richiami analoghe manifestazioni artistiche dell’area iblea: si pensi alla Cappella della Candelora in: S. Maria delle Scale a Ragusa e, in misura minore, al portale
del S. Giorgio vecchio di Ragusa[6]
(6). La larga strombatura e la fertilissima e brulicante decorazione con
iconografie iperrealiste di fauna marina rientrano in una fase che crediamo
compresa fra gli ultimi due decenni del XV secolo e i primi due del XVI.
Messa sovente in relazione con la decorazione del levante iberico, anche questa
produzione rivela, a una più attenta analisi,
caratteristiche diversificate e origini più complesse.
Il Mauceri, nella lunetta del portale
registrava (nel 1909) la firma di uno, molto più probabilmente, del principale
artefice: «Man Ramunnu»[7]
(7). Ramunnu doveva essere personaggio di grande prestigio e levatura per potersi permettere una firma
nella lunetta del portale; non è poi sicuro se si tratti dell’ideatore
dell’intero complesso o dello scultore della facciata.
Lo stesso tono di ricercatezza della facciata si riscontra nel
chiostro quadrato, sorretto da colonnine decorate nel primo ordine e da pilastrini a base ottagonale nel secondo. La copertura del
corridoio del primo ordine è risolta con eleganti crociere ancora in buono
stato di conservazione. Al piano soprastante, il loggiato ha una copertura
lignea che si appoggia alla muratura tramite mensole (sempre in legno), che
riteniamo appartenenti ai primi anni del XVI secolo. Dei misteriosi quanto staticamente inutili pseudo-contrafforti poligonali segnano gli assi principali
e gli angoli del chiostro.
L’uso di tozzi pilastri, collocati su un muretto e con archi a unico centro e sesto ribassato, rientrano nel quadro di
altre realizzazioni del secolo, come il chiostro di S. Maria
del Gesù a Palermo[8]
(8). Un modello analogo di pilastrino a base
ottagonale si ritrova nei resti dei chiostri di S. Antonio e di S. Maria della Croce a Scicli
(entrambe di Francescani, anche se non Osservanti) — opere entrambe del
secondo-terzo decennio del Cinquecento e, nel caso di Scicli,
ancora di diretto finanziamento comitale[9]
(9) — utili a datare la parte alta del loggiato. E’ in realtà la ricerca
distributiva del doppio loggiato (con le celle servite al piano superiore dal
corridoio esterno) ad assumere, nel chiostro di Modica, una prima significativa differenziazione da altri esempi siciliani a
noi noti. Doppi loggiati su «arcaici» pilastri ottagonali si
ritrovano negli stessi anni (dall’ultimo ventennio del Quattrocento) in
Lombardia, nel cremonese, per esempio nel complesso degli Osservanti di Santa Maria e Bernardino a Pianengo[10]
(10). Anche qui come a Modica si tratta di una tipologia che
non ha precedenti. Resterebbe da ipotizzare
contatti e relazioni molto intensi con quanto si andava realizzando in altre
aree, soprattutto dallo stesso Ordine, per la risoluzione di problemi
distributivi e funzionali del convento[11]
(11).
Per gli aspetti linguistici del complesso si è soliti
fare riferimento a una corrente gotico aragonese-catalana, particolarmente viva nella Contea di
Modica. Si tratta di una lettura utile a spiegare certi inserti scultorei. In realtà per la struttura architettonica del
chiostro non è altrettanto facile instaurare relazioni con il mondo iberico:
evidente, infatti, è la distanza con i chiostri catalani del Quattrocento dove
le virtuosistiche forature delle pareti sono lontane
dal tono cauto, seriale, arcaico che si riscontra a Modica. Sembrano invece
palesi i richiami alla ripresa di una tradizione locale (le proporzioni
contratte, la decorazione a spirale delle colonnine) di ascendenza
normanna, tipica del primo Cinquecento isolano, con aperture alla tradizione di
classicismo neo-romanico dell’Italia settentrionale (scelta dell’arco a tutto
sesto, capitelli gotici sormontati da cornicioni seriali).
In altre ‘Terre’ della Contea
L’attività di mecenatismo e finanziamento artistico svolta dai
Conti di Modica, Anna Cabrera
e Fadrique Enriquez, nella
cittadina di Caccamo, durante un breve
soggiorno (1484), è registrata dallo storico siciliano Agostino Ingeves. La fonte segnala la volontà di ingrandire la
chiesa madre dedicata a S. Giorgio e la realizzazione
di una cappella funeraria nell’altare maggiore, un’opera che si prolunga per decenni,
anche dopo la partenza definitiva dei Conti per la Spagna nel 1486. Dai pochi
resti e frammenti della tribuna, conservati nella attuale
chiesa (totalmente rifatta nella prima metà del XVII
secolo) sembra evidente la scelta anticheggiante dei
mecenati e l’utilizzazione di scultori in marmo attivi a Palermo, probabilmente
la bottega di Domenico Gagini.
Anche nel limitrofo castello di Caccamo
si ricorda un’attività riedificatoria, attraverso la
riparazione della torre del ‘Dammuso’ e ulteriori interventi decorativi
(affreschi datati al 1487). A questo periodo risale anche una lapide con
scritta latina («Tempore felici\
omnes gaudent amici\ Dum fortuna perit\ nemo amicus
erit»), mentre cinquecenteschi, ma ancora
riferibili alla volontà comitale, sono ulteriori
interventi classicisti, come la cappella della SS. Concezione (1517) e una
nuova porta del castello (1526).
Legata ancora ai finanziamenti degli Enriquez-Cabrera
è anche il complesso conventuale degli Osservanti ad Alcamo[12]
(12) cittadina situata fra Trapani e Palermo. Evidentemente, come già constatato per Caccamo, il ritorno
in Spagna non interruppe le relazioni con gli ambiti siciliani. Sembra cioè di potere evidenziare ancora una committenza «a
distanza», un ruolo che permette una gestione mediata delle scelte
architettoniche.
Un tale aspetto risalta senz’altro per la chiesa (fondata
nel 1477, ma probabilmente in costruzione solo dal 1484
ca.) dove si ravvisano soluzioni di cantiere non consuete in Sicilia. La
provenienza da Genova delle colonne del portico (1512) rimanda a metodi poco
frequenti per la prassi costruttiva dell’isola[13]
(13), dove le affermate botteghe palermitane dei «marmorari» rispondevano bene
alle esigenze di inserire nelle nuove fabbriche elementi architettonici
classicisti (di solito in marmo bianco di Carrara). Ovviamente
la scelta ricorda invece i criteri adottati dai committenti spagnoli a partire
dal famoso caso della Calahorra[14]
(14). Non ancora risolto è un ulteriore precedente siciliano (ante 1487), al
momento in cui gli scultori Gabriele di Battista e
Antonio Mancino si impegnano a realizzare le colonne del cortile del nuovo
palazzo Abatellis, con le stesse qualità e condizioni
delle colonne del nuovo chiostro di S. Francesco a Palermo «construtti
per Januenses»[15]
(15). L’assenza di botteghe di marmorari genovesi a Palermo, farebbe pensare
ancora a una spedizione di materiali dal capoluogo
ligure, probabilmente concorrenziale alle attivissime botteghe palermitane (si
pensi che già nel 1484 Domenico Gagini aveva fornito
le colonne e i fastosi capitelli della chiesa dell’Annunziata a Palermo e che
nel 1487 spediva quattordici colonne e capitelli a Messina per il chiostro di
S. Francesco[16] (16) ).
Il metodo degli elementi pre-scolpiti, a causa dei
delicati equilibri di cantiere, risulta, comunque,
essere corrente nelle fabbriche siciliane.
Il cantiere della chiesa di S. Maria
del Gesù ad Alcamo si concludeva
entro un decennio se nel 1519 veniva impegnato lo scultore Jacobus
La Porta da Bologna, per la realizzazione del coro ligneo[17]
(17).
A date più tarde (1533), la presenza di un maestro Gerbasio de Lugo, a cui si erano obbligati come fornitori di materiali lapidei i
maestri Filippo lo Iudici e Antonio de Modica (è
presumibile che si tratti di maestri provenienti dalla Contea), farebbe intuire
l’affidamento della costruzione del convento e chiostro e la messa in opera a
un capomastro non siciliano, anche se, come di regola, «cives
Panormi», cioè abitante a Palermo, in ossequio alle
rigide regole corporative dei «fabricatores»[18]
(18). La frequenza di operatori esterni, e
probabilmente di prestigio, deve far riflettere, sebbene nell’intreccio tra
committenza e finanziatori risulti sfuggente il ruolo svolto dai Conti. Se la
lontananza farebbe optare per una maggiore autonomia
decisionale dei francescani, le scelte anticheggianti
sembrano tuttavia confermare un’attenzione diretta. E il quadro detto
comunemente della ‘Madonna Greca’, dove sono
raffigurati i Conti di Modica in foggia rinascimentale, svela
così un intento celebrativo ‘moderno’, teso
all’esaltazione dei finanziatori.
Si ricorderà qui come dalle ricerche di Miguel
Falomir Faus risulti che l’Almirante di Castiglia
e la contessa di Modica abbiano intessuto relazioni con Alonso
de Berruguete e con altri artisti[19]
(19). Diventerebbe così da rivedere l’attribuzione a Pier Francesco Sacchi del
dipinto di Alcamo[20]
(20) in funzione di un più attento controllo degli artisti gravitanti nel primo
Cinquecento negli ambiti di Valladolid o di Medina de
Rioseco e sottoponendo agli specialisti l’ipotesi di
una personalità di alto livello.
La committenza e
l’ambiente architettonico
La storiografia artistica ha sovente sottolineato
la stretta dipendenza della produzione architettonica siciliana tra tardogotico e rinascimento con la coeva civiltà spagnola.
Dalla stessa Spagna sono state, sino a tempi recenti, traslate le categorie
storiche atte a spiegare le presunte successive tappe del fenomeno, le sue
mutazioni ibride nella direzione del classicismo, predisponendo cioè la sequenza: gotico aragonese-catalano,
plateresco, rinascimento[21]
(21).
Una più attenta verifica dei fenomeni di sincretismo, la sempre
meno decisa definizione dei confini del mondo rinascimentale, lo stesso
dibattito sul ‘plateresco’
hanno probabilmente reso obsolete queste letture[22]
(22). Ad atteggiamenti astrattamente pregiudizievoli vanno del
resto ricondotte le linee interpretative esclusivamente filo iberiche
e, sul fronte opposto, quelle portate a una sopravvalutazione degli aspetti
‘italianeggianti’ della produzione isolana[23]
(23).
Il ruolo della Spagna in questi anni cruciali investe vari
livelli: si pensi al nucleo di operatori attivi a
Palermo alla fine del XV secolo, alle committenze
come quella dei Bonnett o dei Talamanca
nella Palermo degli anni settanta-ottanta del XV secolo[24]
(24), alla molteplice e capillare presenza di aristocratici, notabili e
religiosi, che, come superficialmente si è portati a pensare, non sono
assolutamente chiusi o ostili al linguaggio classico in nome di un estremismo
nazionalistico. In realtà risulta problematico, a
partire dalla committenza nobiliare attiva in Sicilia, ritagliare una specifica
identità spagnola da contrapporre a un partito italiano. Si assiste piuttosto a un atteggiamento, che, in generale, non disdegna di
realizzare edifici gotici, ma apprezza e predilige la scultura rinascimentale e
indirizza il rigido mondo del cantiere siciliano all’assorbimento del
classicismo, alla pratica corrente dell’inserto anticheggiante,
insieme alla persistenza di tipologie e linguaggi del levante iberico.
E’ spiegabile che i propugnatori di un’ideale classicista siano anche i
finanziatori di un edificio tardogotico? In realtà la
contraddizione che avvertiamo adesso appartiene a una
visione mitizzata del Rinascimento: il tardogotico
e il classicismo non era no necessariamente percepiti come mondi distanti o
peggio nell’ottica di due stili: uno superato e uno moderno. Esempi
analoghi si registrano ancora nella stessa Sicilia: si pensi al caso del
pretore della città di Palermo, Pietro Speciale, che si fa costruire un palazzo
tradizionale negli anni sessanta del XV secolo ed è contemporaneamente committente dei maggiori
scultori rinascimentali presenti nell’Isola.
La registrazione unanime di una enclave
aragonese-catalana nel territorio sud-orientale
dell’isola sembra fondarsi tuttavia proprio su una committenza politicamente ed
etnicamente orientata. Le città della Camera Reginale, soprattutto Siracusa, e i centri della Contea di
Modica, retta dai Cabrera, spiegherebbero la persistenza
e l’uso continuato di tipologie e linguaggi del levante iberico. Ma da
Noto sarebbe pervenuto a Palermo il maggior architetto siciliano del tempo:
Matteo Carnilivari[25]
(25), e sono numerosi gli operatori di quest’area attivi nel cantiere palermitano del Quattro e Cinquecento;
accanto all’esportazione, nell’area occidentale dell’Isola, di tipologie (in
realtà non totalmente verificabile) è infatti la radicata tradizione locale
dell’intaglio lapideo a fornire una motivazione alla mobilità delle
maestranze.
La breve presenza siciliana di Fadrique
Enriquez e della consorte si colloca dopo la prima
ondata di classicismo rinascimentale che aveva investito
l’isola. Il grande sisma del 1693 ha
potenzialmente distrutto numerose testimonianze, ma certamente in ambiti
prossimi a Modica, nella colta città di Noto, la famiglia degli Speciale aveva
realizzato alla metà del XV secolo, — probabilmente
in anticipo rispetto all’arrivo in Sicilia di Domenico Gagini
e Francesco Laurana e quindi attraverso l’importazione di marmi pre-scolpiti (dalla Toscana?) — una tomba in S.
Francesco[26]
(26). La magnifica committenza di Pietro Speciale avrebbe commissionato a
Domenico Gagini la costruzione di una cappella
gentilizia nella cattedrale (cappella di S. Cristina) e nella chiesa di S. Francesco a Palermo[27]
(27), dove fra 1460 e 1480 si erano succedute le più innovative
realizzazioni di cappelle funerarie, commissionate da potenti famiglie
(De Chirco, Alliata, Mastrantonio, Galletti). Problematica e da decifrare è anche
la committenza filo-classicista dei Cabrera, su cui
esistono validi indizi come il fonte battesimale, opera
secondo il Kruft di Domenico Gagini,
datato 1466 (con insegne dei Cabrera e dei Prades), conservato a S. Giorgio a Caccamo
e donato alla chiesa da Bernardo II
Cabrera[28]
(28). Della stessa tomba di Bernardo I e Bernardo II nell’altare
maggiore di S. Giorgio a Ragusa (1466) si conserva (attualmente
nel S. Giorgio nuovo) un frammento anticheggiante con
scritta in lettere latine e nella chiesa si trova anche una ignorata statua
di Madonna, che probabilmente doveva far parte del cappellone
quattrocentesco. Scomparsa è la tomba di Giannotto
Cabrera nell’altare maggiore del S. Pietro di
Modica[29]
(29), in una fase (anni settanta del XV secolo) in cui la sepoltura classicheggiante era oramai
considerata dalle élites nobiliari siciliane segno di
bon-ton.
C’è pertanto da chiedersi quanto abbiano
pesato queste esperienze siciliane nel futuro Almirante di Castiglia e che ruolo può avere avuto l’ambiente
culturale tutt’altro che periferico della scuola
umanistica di Noto, nello sviluppare i germi di un gusto all’antica, che
sarebbe emerso anche in anni successivi. La notizia, segnalata dal Trasselli[30]
(30), che con Fadrique Enriquez
e Anna Cabrera si sposterà in Spagna l’intellettuale
Lucio Marineo Siculo, più tardi storiografo di
Ferdinando il Cattolico e professore a Salamanca, è la spia di un mecenatismo a
vasto raggio, aperto alle più nuove correnti culturali. Accanto alla legittima
domanda sul ruolo dei conti di Modica in Sicilia, bisognerebbe quindi
interrogarsi su quanto la situazione siciliana è riuscita a cambiare i
committenti, in funzione dell’alternativa
italiana al gotico internazionale, e dello svilupparsi di un circuito di raffinati
intenditori e intellettuali che avevano aperto le porte agli scultori
classicisti, reduci dal cantiere dell’Arco di Castelnuovo.
Il fenomeno non è isolato, né circoscrivibile solo a sparuti esempi. In realtà
sfugge ancora oggi la dimensione cortese del primo rinascimento siciliano, il
fenomeno che indusse ad un rinnovato interesse urbano, alla creazione di una
committenza raffinata e colta che avrebbe decretato il
successo (tuttora largamente inspiegabile) di un Domenico o di un Antonello Gagini e la creazione e proliferazione di centri di
cultura. Assoro dei Valguarnera,
Comiso dei Naselli, Pietraperzia
dei Barresi sono solo alcuni casi che meritano studi
non ancora affrontati; mentre da valutare storicamente è il peso che la crisi
economica degli inizi del XVI
secolo e soprattutto la repressione dopo i tentativi di sommossa del 1516-1523 hanno avuto nel soffocamento o nel rallentamento
di queste esperienze.
* * *
Per la grande Contea di Modica, dunque, gli aspetti
irrisolti sono ancora preponderanti, e tali da coinvolgere altri grandi complessi.
Quale funzione, ad esempio, possono
avere svolto i Conti nella costruzione della chiesa madre di Scicli, andata distrutta, ma che una lastra datava al 1489,
citando il fabricatore Guilelmus
Belguardo?[31]
(31) Quale funzione nelle prime esperienze classiciste?
Nell’ottica dell’ibrido ma con una
apertura straordinaria verso il mondo rinascimentale è il convento di
Francescani Conventuali di S. Antonio, sempre a Scicli[32]
(32), la cui fondazione oscillerebbe tra 1514 e 1522. La costruzione di una
cappella funeraria che funge da tribuna, coperta a cupola costolonata ma con inserti classicisti, deve
necessariamente essere accostata a una committenza
alta, che attualmente non è nota, ma che potrebbe essere stata determinante per
costruzioni di cappelle corte come quelle di Comiso
(voluta dai Conti Naselli nel 1517) o di Militello[33]
(33): cappelle cupolate aggregate come tribuna a
chiese francescane, secondo la consuetudine inaugurata dal progetto dell’Alberti per il Tempio Malatestiano.
Indubbiamente la cappella (attualmente in pessimo
stato di conservazione) assume un valore competitivo tanto da potere essere
messa in relazione solo con iniziative comitali. La cappella ‘Cabrera’ in Santa Maria di Betlem a Modica[34]
(34) assume un significato analogo, ancora più ricco e celebrativo; fermo
restando che la sua costruzione deve riferirsi ai
primi decenni del XVI secolo, si deve ancora pensare
a una committenza alta, forse un ramo della famiglia dei Cabrera.
Si tratta di opere che non è possibile
leggere con gli schematismi di un mitizzato e rigido universo classicista
poiché esplorano una via siciliana, un ‘antico’
autoctono, e pervengono a un rinascimento atipico che affonda le radici in
tecniche costruttive locali.
I grandi passaggi nodali che gettano ponti tra l’ultimo gotico e
il rinascimento siciliano seguono probabilmente vie e
vicende differenti dal contemporaneo travaglio iberico, ma altrettanto
complesse e non sottovalutabili sono le strade di un interscambio culturale
stretto. Alla constatazione di comunanze linguistiche, di semplici forme,
va anche affiancata una ricerca senza pregiudizi che tenga
in giusta considerazione la mobilità della committenza, i suoi programmi e le
sue idee.
In un complesso architettonico come quello di S. Maria del Gesù in Modica credo sia particolarmente individuabile tutta la
complessità di intrecci che condizionano la realtà siciliana del secondo
Quattrocento, in cui le tradizioni locali e le influenze esterne si mescolano
in una civiltà architettonica che è sempre più difficile leggere in maniera
monotematica e unidirezionale.
NOTE
*
Il testo che qui si presenta è la rielaborazione di un mio saggio già apparso
nella rivista «Espacio, tiempo
y Forma», 7, Madrid 1994, dal titolo: Una committenza
iberica nella Sicilia fra tardogotico e rinascimento,
integrato con alcune osservazioni tratte da Tradizione architettonica iblea e modelli culturali, contenuto in Iblei, riflessioni sulle origini, a cura del
Distretto Scolastico di Ragusa, ivi 1994, e adattato alle esigenze della
rivista. Desidero ringraziare il prof. Giorgio Colombo che ha discusso con me
la nuova impostazione dello scritto, suggerendo altresì utili precisazioni.
Ringrazio anche l’amico arch. Emanuele Fidone con cui
ho condiviso la scoperta di Santa Maria
di Gesù e che ha contribuito non poco ad arricchire
la mia lettura del tardogotico ibleo.
(M. R. Nobile)
** (Ragusa, 1963).
Ha conseguito nel 1987 la laurea in Architettura presso l’Università degli
Studi di Palermo con una tesi di storia
dell’architettura. Ha poi frequentato il V Corso internazionale di Alta Cultura ‘Centri e periferie del Barocco’.
Nel
1988: dottorato di ricerca in ‘Storia
dell’architettura e dell’Urbanistica’ (Politecnico di Torino),
successivamente frequenta corsi internazionali di storia dell’architettura. Nel
1995 ha vinto il concorso di ricercatore nella disciplina ‘Storia
dell’architettura’ presso la Facoltà di Architettura
di Palermo.
Ha
pubblicato varie opere e saggi di storia dell’architettura, fra cui ‘Architettura
religiosa’ negli Iblei. Dal
Rinascimento al Barocco’, Siracusa 1990; ‘Disegni del Settecento negli archivi
parrocchiali della provincia di Ragusa’, in «Il
disegno di architettura», 1, maggio 1990; ‘Una
geometria difficile: progetti di chiese pentagonali fra XV
e XVIII secolo’, ivi, 2,
settembre 1990; ‘Fondi per lo studio dell’architettura dei Gesuiti in Italia’, ivi, 3, aprile; ‘I disegni dell’Archivio
Generalizio dei Padri Scolopi a Roma’, ivi, 4,
novembre 1991; ‘Il progetto fra le Scuole Pie di Monterano
e Gian Lorenzo Bernini’, ivi, 4, novembre 1991; ‘La
Descrittione del Regno di Sicilia’,
in «Kalós», 3-4, 1991; ‘Un topos perduto:
la ‘strada maestra’ di Modica e i suoi ponti’, in «Pagine dal sud», 2, 1991;
‘Progetto e “restauro” nel Settecento Italiano’,
in «Tabulas», 2, 1991; ‘Angelo
Italia architetto e la chiesa centrica con deambulatorio in Sicilia’,
in L. Patetta e S. Della
Torre (a cura di), L’architettura della Compagnia di Gesù
in Italia, XVI-XVIII sec., Atti del Convegno di
Studi, Milano 24-27 ottobre 1990, Milano 1992, pp. 155-158; ‘Due piante chiesastiche centrali: l’ovale e il
pentagono. Le linee forti della composizione’, in P. Manno, Le condizioni del progetto.
[1] Per la storia del complesso si rimanda in
particolare a: F. Renda, Prospetto corografico istorico di Modica di Placido Carrafa,
Modica 1869 (ristampa, Bologna 1977), pags. 177-178, nota
41; E. Mauceri, La chiesa e il convento di Santa Maria di Gesù in Modica, in
«L’Arte», XII (1909), fasc. VI, pags.
467-468; Bellafiore, Architettura in Sicilia (1415-1535), Palermo 1984, pag. 128.
[2] Per i capitoli matrimoniali cfr.: R. Solarino, La contea
di Modica. Ricerche storiche, 2 voll., Ragusa 1885-1905 (ed. consultata,
Ragusa 1981, pags. 64-171).
[3] R. Pirri, Sicilia
sacra, Ed. 1641,1. 3, pag. 255;
«Nel convento de’ Minori osservanti sotto la regola di S. Francesco, sono
floride, e pubbliche le scuole di Filosofia, di Scrittura Sacra, di Teologia e
di altre scienze», F. Renda, op. cit.
(l’edizione originaria del Carrafa è del 1653), pag 178; L. Wadding, Annales
Minorum, Ed. 1735, t. XIV (a. 1478), pag. 216. (N. d.
C.)
[4] Archiv. di Stato Modica,
notaio V. Cannella, atti del 30 novembre 1557, 20 gosto
1558, 20 maggio 1559. L’Archivio di Stato di Modica non conserva documenti notarili
della città anteriori al 1530.
[5] Per l’intervento in S. Maria
delle Scale rimando al M. R. Nobile, Architettura
religiosa negli Iblei, Siracusa 1990, pag. 19.
Non è da escludere che la cap pella
potrebbe essere messa in relazione alle esequie di Fadrique Enriquez, morto lo
stesso anno a Medina de Rioseco.
[6] Sul tardogotico
nella Contea di Modica: E. Mauceri, La Contea di
Modica ne l’arte, in «L’Arte», XVII
(1914), fasc. II, pags. 120-134; G. Agnello, L’architettura aragonese-catalana in Italia, Palermo 1969, pags. 71-74; Id. Influencias y recuerdos
españoles en Ragusa y su región,
in «La huella de Espana en Sicilia», Revista
geografica española, s.d., pags. 125-134. Si rinvia poi
all’itinerario bibliografico contenuto in M. R. Nobile, L’architettura nella
Contea di Modica tra Quattro e Cinquecento, in «Bollettino
della Biblioteca» (Università degli Studi di Palermo, Dipartimento di Storia e
Progetto nell’Architettura), n. 1, pags. 49-52.
[7] E. Mauceri, La
chiesa e il convento ...,
cit..; A. Venturi, Storia dell’arte italiana,
Milano 1924, vol. VIII, parte II,
pag.89. Più che a mastro Ramunno
da Burgos, il cognome Raimondi
è da legare a ulteriori presenze siciliane come quella di Domenico Ramundo, probabilmente lombardo, che nel 1490 lavora nel
palazzo Abatellis a Palermo (F.
Meli, Matteo Carnilivari e l’architettura del
Quattro e Cinquecento in Palermo, Roma 1958, doc. 14, pag. 225). Scultori o
argentieri con lo stesso cognome si ritrovano ancora a Palermo
nel 1532 (Abattista de Ramundo)
(G. Di Marzo, op. cit., 2,
doc. CCLVIII, pag. 329), e nel 1544 nella stessa
Modica (Vincenzo de Ramundo) (ASM, notaio Pietro Di
Giacomo, atto, 11 maggio 1544).
[8] Realizzato
nella prima metà del Quattrocento: cfr. G. Bresc Bautier, Les ètapes de la construction de l’église de Santa Maria di Gesù hors de Palerme au XV siécle,
in G. Motta (a cura di), Studi dedicati a Carmelo Trasselli,
Soveria Mannelli 1983, pags.
145-146.
[9] P. Nifosì, G.
Drago, Aspetti storico artistici della
Contea di Modica in S. Marta della Croce a Scicli,
Scicli 1981. Anche il prof.
Paolo Nifosì ha registrato in più occasioni la
presenza di pilastrini ottagonali in tutti i cantieri
citati.
[10] L. Maggi, Le tipologie architettoniche
dei conventi dell’«Osservanza» nel cremasco e
cremonese, in Il francescanesimo in Lombardia, Storia e arte, Milano
1983, cit., pags.403-424.
[11] Il protagonismo delle nuove fondazioni
francescane nella Sicilia tra XV secolo e i primi
decenni del successivo è indubbio. La rilevanza è
stata riaffermata in un recente Convegno (Francescanesimo e civiltà
siciliana nel Quattrocento,
Palermo 25-31 ottobre 1992).
Sull’architettura degli Osservanti in altre aree italiane rimandiamo a: M.
Salmi, Bernardino, gli Osservanti e alcun aspetti
artistici del primo rinascimento in Toscana, in Bernardino predicatore
nella società del suo tempo, Todi 1976, pags.363-373; A. Scotti, Architetture dei Francescani in
Lombardia. Problemi e indicazioni di ricerca, in Il francescanesimo in
Lombardia,... cit., pags.247-266. Si veda inoltre L. Di Fonzo, Francescani,
in Dizionario degli Istituti di Perfezione, I V, Roma 1977, ad indicem. L’autore cita (pag. 486) la Chronica fr. Minorum Observantiae (1480 c.)
in cui si segnala la predilezione per fondazioni fuori dalle mura: «extra civitates et terras,
nam nova loca sumendo nulli
faciebant iniuriam,...».
[12] F. Rotolo, La chiesa di S. Francesco
d’Assisi in Alcamo, Palermo 1977 pag. 21 nota 26; V. Regina, Alcamo. Storia, arte e tradizione, 1, Palermo 1980 pags.
81-82. Un portico su colonne che reggono una
trabeazione rettilinea, integralmente rinascimentale, appare contemporaneamente
anche nella poco nota chiesa francescana di S. Maria degli Angeli a Sant’Angelo
di Brolo (post 1506), in un ambito geografico dipendente da Messina e
sicuramente più aperto alle influenze continentali. Se ne veda la scheda in: C.
Sidoti, Architettura, luogo e memoria, S.
Angelo di Brolo 1990.
[13] Le notizie sul cantiere di S. Maria del Gesù ad Alcamo sono
tratte dalle preziose annotazioni documentarie di padre Rotolo (vedi nota
precedente).
[14] Rimandiamo in particolare a: H. W. Kruft,
Un cortile rinascimentale italiano nella Sierra Nevada. La Calahorra, in «Antichità viva», XI,
1, 1972, pags. 35-45; V. Nieto, Renovación
e indefinición estilistica,
1488-1526, in V. Nieto,
A. J. Morales, F. Checa, Arquitectura del Renacimiento
en España, 1488-1599,
Madrid 1989, pags. 13-96,
alle pags. 44-51; F. Marias, El
largo siglo XVI, Madrid 1989, pags.260-261, pag.380; Id., Sobre
el castillo de La Calahorra y el Codex Escurialenses, in C. Bozzoni, G. Carbonara, G. Villeti,
Saggi in onore di Renato Bonelli, 1, Roma
1992, pags. 539-553, con ulteriore bibliografia.
[15] G. Di Marzo, I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI, 3 voll. Palermo
1880/83, 2, doc. n. VIII, pags.
10-11. Padre Rotolo, tuttavia, segnala un Filippo Ianuensis che intorno al 1480 lavora nel convento di S.
Francesco (F. Rotolo, La Basilica di S. Francesco di Assisi in Palermo, Palermo 1952, pag. 114, nota 49).
E’ possibile, infine, che lo stesso Domenico Gagini
possa essere stato considerato, per i suoi trascorsi di lavoro, come genovese.
[18] Sulle problematiche relative
alla corporazione dei «fabricatores» nota
attraverso un documento pubblicato dal Di Marzo (G. Di Marzo, op. cit.,
2, doc. pags. 4-7). Si veda
poi B. Patera, «Marmorari e muratori» nel Privilegium del 1487, in I Mestieri.
Organizzazione, tecniche, linguaggi, Palermo 1984, pags.
4-222. In corso di stampa è il mio contributo: M. R.
Nobile, Il Tardo Gotico. Note sul cantiere siciliano tra XV e XVI secolo, presentato in occasione del Convegno di Studi in
«L’architettura del Tardogotico in Europa», Milano, 21-22-23 febbraio 1994.
[19] M. Falomir Faus, Alonso Berruguete,
Leonardo da Vinci y un episodio temprano de la
«querelle» en España, in «Archivo
Espanol de Arte»,262 (1993),
pags. 181-184.
Sull’attività di mecenatismo svolta in Spagna da Fadrique
Enriquez si veda anche F. Marias, El largo.., cit., pags.
118, 126, 159, 318.
[20] R. Longhi, Frammento
siciliano, in «Paragone» IV, 47, 1953, pags. 344, ripubblicato in Edizione delle opere complete
di Roberto Longhi, I, Firenze
1975, pags. 143-175, alla
pag. 172; V. Abbate, Revisione
di Antonello il Panormita, in «BCA Sicilia», III, 1-2-3-4 (1982), pags. 39-68, alla
pag. 66 nota 35.
[21] Una lettura di questo genere, benché
scevra da tentazioni evoluzionistiche, compare ancora in uno dei più recenti
contributi monografici sull’architettu ra siciliana tra Quattro e Cinquecento: G. Bellafiore, op. cit., in particolare
pags. 97-104. Si veda tuttavia
come in un suo fondamentale saggio Maria Giuffrè abbia contestato l’uso della categoria «plateresco siciliano»: cfr. M. Giuffrè, Architettura e decorazione
in Sicilia tra Rinascimento, Manierismo e Barocco 1463-1650,
in «Storia Architettura», 1-2, 1986, pags. 11-40, in particolare pag. 20.
[22] J. B. Bury, The stylistic terme
«Plateresque», in «Journal of the Warburg and Courtauld
Institutes», 39 (1976), pags. 199-230; F. Marias, La arquitectura del Renacimiento
en Toledo (1541-1631), I, Toledo 1983, pags. 22-28; V. Nieto, op. cit., pags. 58-65.
[23] Una utile guida bibliografica su questi temi si può trovare in M.S. Di
Fede, Gli studi sull’architettura del primo rinascimento in Sicilia, in «Bollettino della Biblioteca» (Dipartimento di Storia e Progetto
nell’architettura, Palermo), 1, 1992, pags. 39-48.
[24] Sul cantiere palermitano del Quattrocento
e sul ruolo delle maestranze iberiche: F. Meli op.
cit.,
in particolare pags. 65-79; G. Bresc Bautier, La «maramma» de la cathédrale de Palerme aux XIV e XVI siècles,
in «Commentari», ns., 27 (1976), fasc. I-II, pags. 109-120
(per l’artista catalano Nicolaus Comes).
[25] Su Matteo Carnilivari,
oltre al già citato testo del Meli, si segnala la
monografia di: F. Rotolo, Matteo Carnilivari. Revisione e documenti,
Palermo 1985.
[26] H. W. Kruft, Domenico
..., cit., pag. 28, pag.
259, scheda A7; F. Rotolo, La
chiesa di S. Francesco d’Assisi a Noto, Palermo 1978, pags.
39-46.
[30] C. Trasselli, Da
Ferdinando il Cattolico a Carlo V. L’esperienza
siciliana 1475-1525, Soveria
Mannelli 1982, pag. 7.
[32] Id., In rovina il convento e la
chiesa di Sant’Antonino, in «Il Giornale di Scicli», 22 maggio 1983. Sul fenomeno delle cappelle a
pianta quadrata, cupolate, si fa riferimento a M. Giuffrè, Architettura in Sicilia nei secoli XV e XVI: le «cappelle a cupola
su nicchie» fra tradizione e innovazione, in «Storia architettura» 2, 1996, pp.
33-48.
[33] F. Rotolo, Comiso,
la chiesa di S. Francesco d’Assisi, Palermo 1981, pags. 23-34; M. R.
Nobile, Architettura religiosa negli Iblei. Dal Rinascimento al Barocco,
Siracusa 1990, pags. 19-22: G. Pagnano, Un
organismo centrico della Maniera. Rilievo della cappella di
S. Antonio di Padova in Militello Val di Catania, in «Quaderno dell’Ist. Dipart. di
Architettura ed Urbanistica Univ. di
Catania», 13 (supplemento) 1983.