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STUDI *

 

Ricerca universitaria e invenzioni brevettabili

di Giorgio Floridia**

 

1. - Università e ricerca

 

     L’art. 63 D.P.R. n. 382/80 (c.d. Legge di riforma universitaria) stabilisce e ribadisce che l’università è la sede primaria della ricerca scientifica. A tal fine è preordinata la creazione dei dipartimenti e l’istituzione di due distinti fondi gestiti da appositi organi, i Comitati consultivi del CUN, che attuano l’autonomia finanziaria dell’università in questo campo. Il Ministero competente provvede alla promozione dei “progetti di ricerca di interesse nazionale e di rilevante interesse per lo sviluppo delle scienze”. A questi progetti è destinata una quota pari al 40% del fondo annualmente disponibile per la ricerca universitaria, e questi progetti sono presentati da gruppi di docenti e ricercatori o da istituti o dipartimenti. Il Ministero inoltre ripartisce tra tutte le università la quota rimanente del 60% sulla base dei criteri elaborati dal CUN; sono poi le stesse università che provvedono a soddisfare le richieste di finanziamento provenienti da gruppi di docenti e ricercatori, istituti e dipartimenti, ma anche da singoli ricercatori.

 

     Questo tipo di ricerca universitaria deve essere tenuto distinto dalla ricerca che le università possono compiere sulla base di contratti e convenzioni nell’interesse di altri soggetti anche privati. Questa possibilità derivava già da un’interpretazione estensiva delle disposizioni contenute nel T.U. delle leggi sull’istruzione superiore approvato con il R.D. 31.8.1933, n. 1592 il cui art. 49 recitava:

     “Gli istituti scientifici delle università e degli istituti superiori, compatibilmente con la loro funzione scientifica e didattica, possono eseguire, su commissione di pubbliche amministrazioni o di privati analisi, controlli, tarature ed esperienze”.

     Con la riforma universitaria questa possibilità è stata contemplata in termini più ampi dall’art. 66 D.P.R. n. 382/80 il quale dispone che:

     “Le università, purché non vi osti lo svolgimento della loro funzione scientifica didattica, possono eseguire attività di ricerca e consulenza stabilite mediante contratti e convenzioni con enti pubblici e privati. L’esecuzione di tali contratti e convenzioni sarà affidata, di norma, ai dipartimenti o, qualora questi non siano costituiti, agli istituti o alle cliniche universitarie o ai singoli docenti a tempo pieno. I proventi delle prestazioni dei contratti e convenzioni sono ripartiti secondo regolamento approvato dal Consiglio di Amministrazione dell’Università”.

 

     Il regolamento di applicazione della legge di riforma universitaria, emanato con decreto del Ministro per la Pubblica Istruzuzione il 30.12.1981, stabilisce i criteri per la determinazione dei corrispettivi e l’impiego degli utili precisando che l’art. 66 del D:P:R: n. 382/80 sono quelli che disciplinano i rapporti in base ai quali l’università, avvalendosi delle proprie strutture, eseguono prestazioni che non rientrano nei loro compiti istituzionali e nelle quali l’interesse del committente sia prevalente.

     Compito della presente relazione è quello di stabilire i criteri giuridici in base ai quali il problema dell’appartenenza dei risultati della ricerca universitaria svolta secondo l’uno o l’altro dei due modelli testé sinteticamente appena descritti: risultati costituiti ovviamente da creazioni intellettuali.

 

 

2- Ricerca universitaria e creazioni intellettuali

 

     L’attività di ricerca produce creazioni intellettuali ma non tutte le creazioni intellettuali sono beni in senso giuridico. Nel nostro ordinamento infatti vige tuttora il principio secondo il quale le creazioni intellettuali protette costituiscono un numero chiuso, fuori del quale non essendoci protezione non vi è neppure l’appartenenza come bene.

     La protezione giuridica delle creazioni intellettuali nel nostro ordinamento è accordata nell’ambito di due sistemi: quello del diritto d’autore e quello brevettuale. Il primo definisce l’oggetto della protezione in funzione di due elementi, di cui uno - il carattere creativo - è requisito intrinseco la cui applicazione garantisce la derivazione dell’opera dal soggetto o dai soggetti che ne invocano protezione, mentre il secondo elemento è dato dalla definizione normativa (art. 1 della Legge n. 633/41) delle opere protette in ragione della loro appartenenza, da un punto di vista fenomenologico, ad una delle categorie elencate, sicché sono proteggibili soltanto quelle opere che appartengono alla letteratura, alla musica, e arti figurative ecc. Il secondo sistema, quello brevettuale, definisce esso pure l’oggetto della protezione in funzione di requisiti intrinseci e dell’appartenenza della creazione intellettuale a due categorie precisamente individuate che, in questo contesto puramente informativo, possono essere fatte consistere in “prodotti” e “procedimenti”.

     I due sistemi, così sinteticamente tratteggiati, hanno in comune questa sola caratteristica: che la protezione da essi apprestata all’avente diritto si risolve nell’esclusiva di utilizzazione economica della creazione intellettuale e nel riconoscimento della paternità della stessa. L’esclusiva consiste a sua volta nello ‘jus escludendi alios’ dall’esercizio delle facoltà che di volta in volta integrano sfruttamento economico delle creazioni intellettuali, ma con questa fondamentale differenza: che l’esclusiva del diritto d’autore concerne unicamente la forma di espressione della creazione intellettuale, mentre l’esclusiva brevettuale concerne il contenuto della creazione intellettuale.

     Per spiegare concettualmente questa essenziale differenza, e anche per porre alcune premesse indispensabili alla prosecuzione del discorso sul rapporto fra ricerca universitaria e brevetti, è opportuno considerare il caso specifico della letteratura scientifica. I risultati della ricerca scientifica sono espressi dal ricercatore in una forma letteraria la quale è certamente riconducibile nell’omonima categoria espressamente contemplata dalla Legge sul Diritto d’Autore. L’opera della letteratura scientifica ha quindi una forma esterna e un contenuto che, per essere scientifico, la distingue dalle altre opere di letteratura. In relazione ad essa si pone quindi il problema sia della protezione della forma e sia della proteggibilità del contenuto. Quanto alla forma la protezione è data pacificamente dal diritto d’autore e si risolve nella facoltà di impedire a chiunque di riprodurre la forma dell’opera scientifica riproducendola in una pluralità di copie da vendere al pubblico. Quanto invece al contenuto la protezione potrebbe essere accordata unicamente dal diritto di brevetto, se non fosse che l’art. 12 della Legge sulle invenzioni industriali (R.D.29.6.1939, n. 1127 come modificato dal D.P.R. n. 338/79) espressamente dispone che: “Non sono considerate come invenzioni le scoperte e le teorie scientifiche”. Se non ci fosse questa esclusione la protezione del contenuto si risolverebbe nella facoltà di impedire a qualsiasi terzo l’applicazione della scoperta o del principio scientifico risalente all’opera del ricercatore. Naturalmente sulla distinzione fra scoperta e teoria scientifica non proteggibili e invenzioni industriali proteggibili bisognerà ritornare, ma qui l’esempio è significativo della diversità fra le due tutele dell’autore e dell’inventore, le quali hanno in comune il fatto che il diritto è di esclusiva, ma questa esclusiva è però ben diversa perché attiene in un caso alla forma e nell’altro al contenuto della creazione intellettuale.

 

 

3. - Ricerca universitaria e invenzioni brevettabili

 

     Quelle che ho testé illustrato sono nozioni elementari che ci consentono di ritornare al programma della presente relazione che è quello di selezionare i profili rilevanti per definire il rapporto fra ricerca e risultati brevettabili, e da qui per individuare i criteri di attribuzione dei risultati brevettabili derivanti dalla ricerca universitaria.

     È evidente, infatti, dopo quello che si è detto, che tutta la ricerca umanistica non è suscettibile di produrre risultati brevettabili anche se produce risultati proteggibili con lo strumento del diritto d’autore per ciò solo che si tratta di risultati riconducibili ad una delle categorie dell’esperienza artistica e culturale alla quale la Legge sul Diritto d’Autore accorda protezione. Verosimilmente la categoria più rilevante sarà quella della letteratura; per altro l’ampiezza di questa categoria, dovuta alla rilevanza del contenuto ai fini della protezione, farà si che siano proteggibili la gran parte, se non la totalità, dei contributi che rispecchiano l’esito di qualsiasi ricerca universitaria di carattere umanistico.

     La ricerca universitaria cosiddetta non umanistica, in tutte le sue direzioni, può condurre a risultati inventivi e brevettabili: ma sarebbe un errore cercare di classificare e individuare questi risultati in funzione del tipo di ricerca che li potrebbe determinare, dato che la legge ha adottato il metodo inverso: e cioè quello di porre il concetto di invenzione brevettabile dal quale è possibile risalire alla ricerca come fattore produttivo, per sé irrilevante, del bene oggetto della protezione brevettuale.

     Se si procedesse alla classificazione delle invenzioni dal punto di vista delle scienze a cui ineriscono, avremmo le invenzioni fisiche, quelle chimiche, quelle ingegneristiche, quelle biologiche e mediche ecc., e invece abbiamo un concetto giuridico unitario di invenzione come fattispecie alla quale è applicabile una disciplina unica, non differenziata per aree disciplinari e neppure per caratteristiche ontologiche del risultato inventivo. Questa ‘uniformità’ è storicamente spiegabile considerando che la tutela delle invenzioni è nata e si è sviluppata avendo come unico modelli l’invenzione meccanica, sicché l’estensione della tutela ai nuovi tipi di invenzioni qualche volta presenta problemi di adattamento. Resta il fatto che la scelta unitaria è stata ribadita anche di recente a livello nazionale e internazionale (v. ad es. gli Accordi TRIP’s allegati al Trattato GATT) e perciò l’interprete deve procedere necessariamente alla formulazione di regole capaci di “funzionare” per ogni tipo di invenzione, tranne che la regola sia dettata specificamente per un tipo determinato.

     Se il rilievo metodologico che precede è pertinente sotto il profilo dell’irrilevanza giuridica della diversità delle singole scienze, lo è pure - e forse ancor di più - sotto il profilo dell’irrilevanza della distinzione fra ricerca di base e ricerca applicata. Si dice comunemente che la ricerca di base è rivolta “alla comprensione dei fenomeni e all’organizzazione concettuale e sistematica dei dati scoperti e delle ipotesi interpretative”, che per contro la ricerca applicata “partendo dalle acquisizioni della ricerca di base perviene al progetto di dispositivi e metodologiche utilizzabili a scopi innovativi”. Qualcuno poi distingue nell’ambito della ricerca di base la ricerca fondamentale, alla quale viene assegnato il compito di incrementare la ricerca scientifica come processo autonomo di maggiore e migliore conoscenza indifferente all’uso che può essere fatto dei suoi risultati, e la ricerca orientata perché finalizzata a precisi obiettivi di carattere sociale che interessano in genere la vita della collettività o specificamente la produzione di beni o di servizi. Non pochi infine delimitano a parte la c.d. ‘ricerca e sviluppo’ per indicare un’attività innovativa che non è diretta a produrre nuovi dispositivi o nuove metodologie bensì l’adattamento di quelli noti alle esigenze dell’innovazione imprenditoriale nei vari settori dell’attività economica.

     Orbene, queste distinzioni possono avere, ed hanno, una loro utilità se ed in quanto favoriscono l’adeguamento funzionale delle diverse strutture di ricerca alle finalità riconducibili in ciascuna delle definizioni riferite, ma non hanno alcuna utilità per accertare se e quando la ricerca abbia dato origine ad un’invenzione brevettabile. L’invenzione, in altre parole, non può essere negata o affermata a seconda della ricerca compiuta per realizzarla, oppure a seconda delle strutture dell’organismo che ha svolto la ricerca stessa. Nulla vieta che una ricerca fondamentale dia origine ad un’invenzione brevettabile e che un’attività di ricerca e sviluppo sia l’occasione di una scoperta scientifica. Perciò non vi sono organismi ed enti di ricerca esclusi pregiudizialmente dal beneficio della protezione brevettuale e questo vale naturalmente anche per l’università, anche a prescindere dalla constatazione che essa, pur rimanendo la sede tipica e naturale dell’attività di ricerca pura o fondamentale, è oggi sempre più aperta allo svolgimento di ricerche applicate decise autonomamente oppure commissionate dall’esterno.

     Tutto ciò che si può dire in ordine alla relazione fra il tipo di ricerca e la realizzazione delle invenzioni è che questa è più probabile quando la ricerca viene pianificata dai responsabili in vista dell’ottenimento di risultati brevettabili. Nulla di più.

 

 

4. - Ricerca universitaria ‘libera’ e appartenenza delle invenzioni al ricercatore

 

     Si è chiarito nel par. 1 che la ricerca universitaria avviene secondo due modelli di organizzazione che differiscono secondo il tipo di collegamento che intercorre fra il ricercatore o l’équipe di ricercatori e l’università nella quale essi sono organicamente inseriti: nel primo modello la ricerca è “libera” nel secondo è per contro “vincolata”.

     È libera la ricerca che, pur essendo svolta nell’ambito della struttura universitaria e pur essendo finanziata con denaro pubblico, non comporta nessun vincolo di prestazione a carico dei ricercatori.

     A questo riguardo è innanzitutto opportuno chiarire - benché ciò sia superfluo - che le funzioni di ricerca nelle università non sono compito esclusivo dei ‘ricercatori’ il cui ruolo è stato istituito per riassorbire le figure precarie dei borsisti e dei contrattisti. Al contrario per l’accesso a tutti e tre i livelli nei quali è distribuito il personale universitario è prevista una valutazione dei titoli scientifici dei candidati ed è ovvio che questa valutazione postula necessariamente lo svolgimento di un’attività di ricerca come momento strumentale alla predisposizione dei titoli scientifici. Sennonché agli effetti del problema dell’appartenenza delle invenzioni, la cui ideazione sia compresa nei titoli scientifici prodotti con la ricerca, è assorbente quel profilo dell’organizzazione universitaria che si incentra nel modello dell’autogoverno e lo attua pienamente. Questo modello trova infatti riscontro sia nella piena autonomia del singolo nella programmazione individuale della sua attività di ricerca, sia nell’autonomia di tutte le sedi istituzionali nelle quali viene programmata la ricerca delle singole università, come dei singoli dipartimenti, a partire dalla stessa sede nazionale, il Consiglio Universitario Nazionale e i suoi Comitati consultivi, al quale è affidata la ripartizione dei fondi per il 60% dello stanziamento annuale e l’esame dei “progetti di interesse nazionale e rilevante interesse per lo sviluppo delle scienze”. In altri termini, autogoverno della comunità scientifica nell’ambito universitario spezza ogni collegamento tra i ricercatori di tutte le fasce e lo Stato come persona giuridica con la quale pure intercorre il rapporto di pubblico impiego. Pertanto le invenzioni dei ricercatori universitari non sono giuridicamente invenzioni di dipendenti, fin tanto che sono realizzate nell’ambito della ricerca individuale o di gruppo che viene svolta liberamente, o meglio che viene svolta nel modo autogestito che è proprio della comunità scientifica universitaria.

     Le invenzioni dei ricercatori universitari che operano secondo il modello testé disegnato non sono quindi riconducibili nel rapporto di pubblico impiego, ed esulano dalla disciplina dell’art. 34 D.P.R. 10.1.1957, n. 10 che - com’è noto - ricalca quella delle invenzioni dei dipendenti d’impresa di cui agli artt. 23-26 L.I.

     Questa esclusione, peraltro, non dipende dall’assenza di relazione causale tra l’attività del pubblico dipendente universitario e l’invenzione realizzata, e neppure dalla non inerenza dell’attività di ricerca alle funzioni proprie e specifiche del ricercatore, ma dal fatto che questa funzione l’attività di ricerca che ne concretizza lo svolgimento, si ricollegano allo sviluppo della scienza come obiettivo di carattere generale al quale è estraneo il problema dell’appartenenza dell’eventuale risultato inventivo. In questo specifico ambito il finanziamento pubblico non è finalizzato ad alcun risultato ulteriore che non sia quello di creare le condizioni affinché l’università sia la sede primaria della ricerca scientifica: sede, quindi luogo, e non invece soggetto aventi compiti istituzionali diretti a conseguire risultati di ricerca scientifica. Questi risultati sono invece imputabili unicamente ai ricercatori come soggetti che operano nella sede all’uopo strutturata, ma che non assumono alcun obbligo di prestazione al riguardo. Ed invero anche le forme di finanziamento della ricerca universitaria risentono di questa connotazione specifica, dato che altro è il contributo alla ‘ricerca libera’ nel senso che si è precisato, altro è invece il finanziamento della ‘ricerca finalizzata’ che - come si vedrà - è associato al contratto o alla convenzione, e assume quindi la ben diversa configurazione di corrispettivo di una prestazione precisamente definita.

 

 

5. - La ricerca universitaria come attività di prestazione e l’art. 34 D.P.R. n. 3/57

 

     Come si è già detto nel par. 1, nell’università si svolge anche un altro tipo di ricerca, quella cioè che in base all’art. 66 della Legge di riforma universitaria è finalizzata all’esecuzione di commesse di ricerca e che l’università può svolgere o per mezzo dei dipartimenti e degli istituti ovvero per mezzo dei singoli docenti: ricerca che abbiamo ora definito vincolata. Quando il contratto sia stipulato dal committente, anziché con l’università, direttamente con il professore universitario, occorrerà tener conto dell’art. 11 della Legge di riforma universitaria che indica le conseguenze derivanti dalla scelta del professore fra il regime del tempo pieno e quello del tempo definito. Mentre quest’ultimo è compatibile con lo svolgimento di attività professionali e di attività di consulenza anche continuativa esterne e con l’assunzione di incarichi retribuiti, il regime a tempo pieno è incompatibile con lo svolgimento di qualsiasi attività professionale e di consulenza esterna e con l’assunzione di qualsiasi incarico retribuito fatte salve la partecipazione ad organi di consulenza tecnico-scientifica dello Stato e degli enti pubblici territoriali e degli enti di ricerca nonché le attività, ovunque svolte, per conto di amministrazioni dello Stato, enti pubblici e organismi a prevalente partecipazione statale, purché si tratti di attività prestate in quanto esperti nel proprio campo disciplinare e compatibilmente con l’assorbimento dei propri compiti istituzionali. Lo stesso citato art. 11 aggiunge però che anche il regime a tempo pieno è compatibile con lo svolgimento di attività scientifiche e pubblicistiche espletate al di fuori di compiti istituzionali, purché non corrispondano ad alcun esercizio professionale, sicché - com’è stato osservato - non sembra del tutto esclusa la possibilità, anche per i professori a tempo pieno, di svolgere ricerche a titolo di prestazione occasionale purché essi non si avvalgano dell’organizzazione e dei mezzi dell’università e purché tali attività siano compatibili con l’assolvimento dei compiti istituzionali.

     Quando il ricercatore universitario compie attività di ricerca vincolata nel quadro del suo rapporto di pubblico impiego, in linea di principio è applicabile la disciplina del già citato art. 34 del D.P.R. n. 3/57 meglio noto come Statuto degli impiegati civili dello Stato (d’ora in avanti: Statuto) il quale - com’è noto - così dispone:

 

     “I diritti derivanti dall’invenzione industriale fatta nell’esercizio del rapporto d’impiego, in cui l’attività inventiva è prevista come oggetto del rapporto e a tale scopo retribuita appartengono allo Stato, salvo il diritto spettante all’inventore di essere riconosciuto autore. Se non è prevista la retribuzione spetta all’inventore anche un equo premio, per la determinazione del quale si tiene conto dell’importanza dell’invenzione.

     Qualora non ricorrano le condizioni previste dal comma precedente e si tratta di invenzione industriale che rientra nel campo di attività dell’amministrazione a cui è addetto l’inventore, l’amministrazione stessa ha il diritto di prelazione per l’uso esclusivo o non esclusivo dell’invenzione o per l’acquisto del brevetto nonché per la facoltà di chiedere o acquistare per la medesima invenzione brevetti all’estero, verso corresponsione del canone o del prezzo, da fissarsi con deduzione di una somma corrispondente agli aiuti che l’inventore abbia comunque ricevuti dall’amministrazione per pervenire all’invenzione”.

 

     Orbene, è evidente che questa disciplina è applicabile nel rapporto fra l’università e i ricercatori universitari in essa organicamente inseriti quando questi ultimi vengono impegnati ‘istituzionalmente’ in attività di ricerca che costituisce esecuzione di commesse che la stessa università si è obbligata ad eseguire su incarico di altri soggetti pubblici o privati che siano.

     Un approfondimento della disciplina dettata dall’art. 34 dello Statuto, con riferimento alla ricerca universitaria vincolata, può essere utile perché si tratta di fissare i principi generali rispetto ai quali norme settoriali o prassi contrattuali si pongono eventualmente in funzione di deroga e/o di complemento.

     Punto di partenza di questo approfondimento è il confronto tra la disciplina delle invenzioni del dipendente pubblico - ricercatore universitario - e quella delle invenzioni del dipendente privato.

     Le corrispondenze testuali dell’art. 34 dello Statuto e degli artt. 23-24 L.I. sono la dimostrazione migliore del fatto che, originariamente, si era fatta una scelta legislativa di perfetta uniformità di regolamentazione della materia, sul presupposto che la natura pubblica o privata del rapporto di subordinazione non fosse rilevante all’effetto di suggerire soluzioni differenziate in ordine alla definizione dei diritti nascenti dell’invenzione. Questa uniformità di disciplina è rispecchiata dalla prima interpretazione degli artt. 23-24 L.I. che trova infatti una conferma eloquente nella semplificazione redazionale del testo dell’art. 34 dello Statuto: potendosi dire in un certo senso che il legislatore, quando nel 1957 volle estendere la disciplina delle invenzioni dei dipendenti al pubblico impiego, lo fece adeguando il testo a quella che era stata fino ad allora l’interpretazione delle norme prese a modello. Secondo questa interpretazione l’art. 23 prevede una sola ipotesi, quella delle invenzioni di servizio, nella quale sussiste un preciso nesso di casualità fra la prestazione del dipendente assunto per inventare ed il risultato dell’invenzione conseguita: risultato certo sempre eventuale, essendo l’obbligazione di mezzi, ma previsto come tale fra le utilità sperate dal datore di lavoro. Secondo questa interpretazione, in altri termini, l’art. 23 contempla il contratto di ricerca inventiva come contratto tipico, nel quale cioè la ricerca inventiva è dedotta espressamente come oggetto della prestazione. Il dipendente perciò, nell’ambito di un’ipotesi così delineata, è un ricercatore assunto in questa sua specifica qualità il quale - agli effetti dell’applicazione della disciplina prevista nella norma - è divenuto inventore perché di fatto ha realizzato l’invenzione alla quale era protesa la sua attività di prestazione. La norma stabilisce, secondo questa interpretazione, che l’invenzione così realizzata appartiene sempre e soltanto al datore di lavoro a prescindere dal fatto che sia stata o no brevettata. E si capisce che sia così! Perché il contratto di ricerca postula una decisione di investimento ai fini di risultati inventivi brevettabili, ottenuti i quali, ovviamente, non sarebbe stato in nessun modo dubitabile l’appartenenza al soggetto che l’investimento abbia compiuto.

     Il problema, visto invece dal lato del ricercatore divenuto inventore, si poneva nei termini diversi volti a garantirgli una remunerazione adeguata al risultato conseguito. Sicché la norma dell’art. 23, partita dal presupposto di un’invenzione specificamente programmata nel regolamento negoziale e poi effettivamente ottenuta, ebbe cura di distinguere due ipotesi: quella del 1° comma nella quale non solo “l’attività inventiva è prevista come oggetto del contratto o del rapporto (ma è) a tale scopo retribuita” sicché al dipendente non spetta alcunché oltre la retribuzione pattuita; quella del 2° comma nella quale “non è prevista e stabilita una retribuzione in compenso dell’attività inventiva”, e nella quale dunque - diversamente che nella prima ipotesi - “spetta (al dipendente) un equo premio per la determinazione del quale si terrà conto dell’importanza dell’invenzione”.

     In questa ottica interpretativa (nitida e perfettamente aderente alla lettera e alla volontà storica del legislatore) è chiaro che la differenza tra le due ipotesi non sta nella presenza o nell’assenza di una retribuzione (dato che nessuno ha mai visto un contratto di lavoro a titolo gratuito!), ma di una retribuzione ‘adeguata’ al risultato prima sperato e poi ottenuto. Delle due l’una: o le parti si sono prefigurate questo risultato stabilendo preventivamente una retribuzione proporzionata, e allora nulla di più compete al dipendente inventore per il fatto di avere conseguito tale risultato; oppure le parti hanno stabilito una retribuzione ‘normale’, e allora questa deve essere integrata in proporzione dell’importanza economica del risultato ottenuto.

     Insomma, previsto e disciplinato in modo tipico il contratto di ricerca inventiva, il legislatore nell’art. 23 ha integrato il regolamento negoziale stabilendo i due effetti naturali ex lege: appartenenza al datore di lavoro dell’invenzione e diritto del dipendente ad una retribuzione adeguata o perché valutata ex ante oppure perché incrementata ex post.

     In questo contesto interpretativo la disciplina dell’art. 24 L.I. si riferisce all’invenzione realizzata da un dipendente che non fu assunto per inventare, e cioè che fu assunto con un contratto non di ricerca. In questa ipotesi il legislatore ha accordato al datore di lavoro il diritto di acquisire - ove lo voglia - l’invenzione, pagandone il prezzo.

     In altri termini, e per concludere, il sistema degli artt. 23 e 24 L.I., secondo questa interpretazione, prevede solo due ipotesi: le invenzioni di servizio e quelle occasionali purché fatte non nell’adempimento ma in occasione dell’adempimento.

     Orbene, non vi è il minimo dubbio che l’art. 34 dello Statuto abbia recepito la disciplina degli artt. 23 e 24 L.I., secondo lo schema interpretativo testé sinteticamente illustrato, tant’è vero che anche redazionalmente la norma dell’art. 34 inserisce le due ipotesi delle invenzioni di servizio adeguatamente e non adeguatamente retribuite all’interno del 1° comma, e non ne fa oggetto di due commi separati come invece nel testo dell’art. 23 L.I.

     Non è affatto vero dunque - come molti dicono - che la disciplina 66 delle invenzioni dei dipendenti nel pubblico impiego dettata dall’art. 34 dello Statuto sia esattamente uniforme a quella che oggi è considerata dai più la disciplina delle invenzioni dei dipendenti nell’impiego privato. Ed invero, mentre nell’interpretazione degli artt. 23-24 L.I. si è accreditata successivamente un’interpretazione basata su tre ipotesi, in forza della quale anche se non adeguatamente retribuite le invenzioni di servizio appartengono al datore di lavoro senza che al dipendente sia dovuto alcunché oltre la sua retribuzione (l’equo premio in base a questa interpretazione spettando al dipendente delle invenzioni realizzate in occasione della prestazione lavorativa), una siffatta evoluzione interpretativa sfavorevole ai dipendenti non è compatibile con l’art. 34 dello Statuto e non è perciò applicabile nel campo del pubblico impiego.

     Nel campo del pubblico impiego è dunque ‘invenzione di servizio’ soltanto quella prevista come oggetto della prestazione, l’equo premio spettando nel caso in cui la retribuzione, o meglio lo stipendio, non sia stato determinato in funzione della ricerca affidata al dipendente e in funzione dell’importanza del suo eventuale esito inventivo.

     In questo contesto, dato che la retribuzione del professore universitario è determinata comunemente in base a parametri tabellari che prescindono delle singole mansioni nelle quali si specifica l’attività di ricerca a lui richiesta dall’università che abbia accettato di eseguire commesse di ricerca affidate da terzi, l’equo premio diviene un istituto di carattere generale di cui la stessa università deve tener conto nelle condizioni che regolano il contratto o la convenzione di ricerca stipulati con i terzi.

     Resta dunque accertato che, quando il professore universitario compie attività di ricerca inventiva come attività di prestazione a lui richiesta dall’università per l’esecuzione di commesse che questa abbia accettato, a lui spetta un equo premio ad integrazione dello stipendio rapportato all’importanza dell’invenzione. La determinazione del premio è affidata al Ministro competente. Non è chiaro se sia possibile un accordo tra le parti, e cioè tra l’università ed il professore-inventore, prima di ricorrere alla determinazione del Ministro; al riguardo sembra comunque prevalere l’orientamento secondo il quale i compensi in questione debbono essere originariamente determinati dal Ministro il cui intervento non sarebbe previsto in relazione all’ipotesi di disaccordo tra le parti. Certo è infine che la deliberazione del Ministro non può essere considerata insindacabile ma è impugnabile a norma dell’art. 113 Cost.

     Le considerazioni che precedono valgono fin tanto che non vi sia una disciplina applicabile con carattere di specialità, come quella - ad esempio - che regola l’attività del CNR al quale è consentito affidare commesse di ricerca alle università mediante un contratto che contiene le disposizioni concernenti l’erogazioni del finanziamento e l’utilizzo dello stesso. Ma queste discipline speciali richiedono un’indagine ad hoc che è estranea alla presente relazione.

 

 



 

NOTE

 

 

     *  ... “Accanto a tali ‘sezioni’, che tendono a tenere viva la memoria storica, si è ritenuto dare notizia di alcune opere dei numerosi Docenti della nostra area culturale, operanti presso Atenei italiani. Non si tratta quindi di studi aventi necessariamente carattere storico, ma di pubblicazioni che, per il loro livello scientifico, esprimono il nobile prosieguo di una tradizione di studio nei diversi campi del Sapere; tali opere non possono restare non segnalate o sconosciute a Quanti operano di fatto a livello culturale in questo Territorio. A ciò si aggiunga il dovuto riconoscimento dei Concittadini ed il desiderio di invitare i nostri Docenti universitari a mantenere costanti rapporti con la loro Città natale.

     La presentazione di qualcuna di tali opere è affidata agli stessi Autori, che ne redigono un’ampia sintesi” (Dalla ‘Presentazione’ di ‘Archivum Historium Motycense’, n. l/1995, pagg. 3-4).

 

     ** (Modica, 1940). Fra i maggiori studiosi italiani di Diritto industriale, ne è Professore Ordinario presso la facoltà di Economia e Commercio dell’Università Cattolica di Milano.

     È stato magistrato presso il Tribunale e la Corte d’Appello di Milano, dal 1965 al 1984, nella materia del Diritto Industriale; presidente della Commissione ministeriale per la riforma della Legislazione nazionale delle invenzioni; membro delle Commissioni ministeriali per la riforma della legge sui marchi e per l’attuazione dell’accordo TRIP’s. Dal 1978 è membro del Giurì dell’Autodisciplina Pubblicitaria, di cui attualmente è vicepresidente.

     È direttore scientifico della Rivista “Il Diritto Industriale” Ipsoa. È autore di numerose pubblicazioni, fra cui Certezza e responsabilità dell’Impresa, Milano, Giuffré 1982; La proprietà industriale nel Mercato Comune, Padova, Cedam 1982; L’invenzione farmaceutica nel sistema italiano dei brevetti, Milano, Giuffré 1985. Numerosi, in particolare, i suoi studi sull’autodisciplina pubblicitaria.

     Risiede a Milano (studio legale in Via Freguglia, 10).

     Il corsivo è della Redazione.