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Alcune osservazioni sulla chiesa rupestre
della ‘Cava Ddieri’
di Vittorio Giovanni Rizzone*
Le prime indagini condotte nella ‘Cava Ddieri’, nel territorio
di Modica, si devono a Paolo Orsi il quale diede succinte notizie
dell’insediamento dell’antica età del bronzo e di quello rupestre,
identificando, altresì, la chiesa relativa a questo abitato di cui fornì anche
una breve descrizione[1].
Questa è separata dall’abitato, prevalentemente scavato nel
banco di roccia superiore, ed è ubicata nel secondo filare, raggiungibile
tramite un brevissimo diverticolo lungo i gradini di un viottolo che conduce verso
il fondovalle. L’ambiente della chiesa risulta scavato in una grotta naturale
della quale resta un anfratto nella parete di fondo dell’ambiente ipogeico
(fig. 1). Ben prima che questa grotta venisse trasformata in chiesa essa fu
adibita a ipogeo funerario tardoromano di esso rimangono quattro formae:
una ricavata nel piano di calpestio dell’anfratto naturale di cui si è detto,
lunga m. 2,15, larga m. 0,76 e profonda m. 0,77; due nel piano di calpestio
della futura chiesa, una scavata lungo la parete settentrionale, larga m. 0,56,
lunga m. 1,77 e profonda m. 0,46; la seconda, a differenza delle altre scavata
in senso N-S, è ubicata quasi al centro dell’ambiente ipogeico, è la larga m.
0,55, lunga m. 1,51 e profonda m. 0,29 e presenta tracce di un approfondimento
successivo (m. 0,57). Il quarto loculo (largo m. 0,69, lungo m. 1,81 e profondo
m. 0,49) è scavato in un bancone di roccia il cui piano è rialzato di m. 0,40
rispetto al piano di calpestio della chiesa, il cui dislivello è superato per
mezzo di due gradini di sagoma semicircolare. Quantunque l’ipogeo sia isolato
e, allo stato attuale delle ricerche, non si hanno notizie di altre sepolture
nelle immediate vicinanze e nel complesso dell’insediamento trogloditico non si
ha evidenza di casi di riutilizzazioni di ipogei precedenti per via anche delle
trasformazioni e degli adattamenti dovuti al successivo insediamento, una
sicura testimonianza di necropoli tardo-romana proviene dal soprastante pianoro
della Caitina dove, in proprietà Arena, è stata rinvenuta una sepoltura,
provvista di corredo ed accompagnata da un titolo funerario[2].
Si ha notizia, inoltre, di un’altra epigrafe sempre riferibile a questo
periodo, purtroppo inedita ed ora dispersa, rinvenuta in proprietà Giardina,
nel vallone della Fiumara sottostante allo sperone della Cava Ddieri di cui
diede notizia Salvatore Minardo[3].
La chiesa pertanto risulta adattata in un ipogeo
funerario tardo romano secondo una pratica piuttosto comune: si possono ricordare,
già nel solo circondario di Modica, i casi di Santa Venera[4],
della Spezieria[5],
dell’anonima chiesa di contrada Muraglie Mandorle[6]
ai quali si può aggiungere forse anche quello della chiesa di San Silvestro
nelle grotte della Fasana[7].
Quando si decise di installare la chiesa, pertanto, venne utilizzato
un ambiente che in precedenza aveva avuto tutt’altra destinazione: le esigenze
cultuali comportarono delle difficoltà che vennero superate per mezzo di
ulteriori ampliamenti: l’ipogeo fu allargato fino a creare un ambiente dal
soffitto piano, approssimativamente rettangolare di m. 6,60 x m. 5,30, alto m.
3,35 circa, con l’appendice dell’anfratto naturale profondo fino a m. 3,00
circa, ed un secondo vano di minori dimensioni (m. 2,30 in senso E-W x m. 3,80
in senso N-S) che si apre nella parete settentrionale; gli elementi funzionali
della chiesa vennero ottenuti provvedendo a ricavarli per risparmio
dell’abbassamento del piano di calpestio (asportazione di una fetta di roccia
spessa da 35 a 40 cm. circa)[8]
e inserendo infrastrutture in legno.
L’ingresso (Fig. 2), aperto ad occidente, è preceduto da
un largo invaso ed è costituito da un’apertura di forma rettangolare (alta m.
2,15, larga m. 1,14) che, disassata, si apre in un arco in parte cieco, alto al
colmo m. 3,23. Oltre la soglia si conservano gli scassi per l’alloggiamento dei
cardini della porta che si apriva verso l’interno ed è presumibile che essa
fosse a doppio battente.
La zona orientale della chiesa è riservata al
presbiterio: l’anfratto naturale, però, venne obliterato nascondendolo con un
velario per trattenere il quale furono praticati degli anelli lungo i margini
esterni della cavità (due per lato, uno in alto oltre ad un sesto lasciato allo
stato incoativo); in questo si mantiene l’originario piano di calpestio più
alto di m. 0,38 rispetto a quello dell’aula della chiesa; durante le operazioni
di abbassamento del piano di calpestio, documentato dalla riduzione della
profondità delle formae presenti nell’aula, a differenza di quella
presente nell’anfratto, venne risparmiata una porzione destinata al basamento
dell’altare. Questo è eccentrico rispetto alla parete di fondo in quanto si
trova all’angolo fra questa e la parete destra, ma rigorosamente ossequente
all’orientamento canonico e in asse con l’invaso della cripta. È alto fino a m.
0,40, di forma pressocché quadrata (lato di circa m. 1,50), ma con il lato
settentrionale raccordato con una curva alla parete di fondo. Sul piano del
basamento sono presenti due scassi paralleli fra i quali si apre un incavo di
sagoma circolare; questi scassi fanno sistema e chiaramente servivano
all’alloggiamento del dado dell’altare in legno il cui lato è lungo m. 0,60
circa. Una piccola nicchia, alta m. 0,43, larga m. 0,46 e profonda m. 0,28,
forse con funzione di repositorium, si trova scavata sul basamento
dell’altare, nella parete meridionale.
Non potendo ricavare un templon litico, non previsto
dall’ipogeo, si supplì alla delimitazione della zona presbiteriale mediante
un’iconostasi lignea della quale restano gli scassi per l’alloggiamento delle travi
portanti, praticati sulla parete meridionale (scasso rettangolare a terra e
quindi un altro all’altezza di m. 1,15 ed un terzo all’altezza di m. 2,04),
sulla parete settentrionale (uno all’altezza di m. 1,14 ed un secondo -
piuttosto allargato - a m. 2,06 da terra) e sul piano di calpestio (a m. 0,64
dallo scasso di terra della parete meridionale e a m. 0,74 dal subsellium).
La profondità del presbiterio è approssimativamente di 2 m. Tale soluzione
della pergula lignea è documentata nelle chiese rupestri di rito
orientale di Santa Maria della Grotta a Siracusa[9],
di Bibbinello presso Palazzolo Acreide[10]
e di San Pietro a Buscemi[11],
e forse anche in quella di Sant’Elia ad Avola Antica[12],
chiese ottenute dall’adattamento in ipogei funerari tardo-romani.
Lungo la parete settentrionale venne risparmiato un subsellium
(lungo m. 4,06, largo m. 0,40 e alto m. 0,37), diviso dall’iconostasi fra
il presbiterio e l’aula. Questa è dotata di due nicchie arcuate nella parte
superiore: una, al centro alta al colmo m. 0,71, larga m. 0,81 e profonda m.
0,41, praticata a m. 0,89 dal piano di calpestio; un’altra nicchia, di maggiori
dimensioni (altezza al colmo m. 0,97, larghezza m. 0,61 e profondità max. m.
0,40) è scavata sulla stessa parete, sulla tomba scavata nel bancone di roccia
posto ad angolo con la parete occidentale. Appare veramente singolare il
risparmio di questa tomba: esclusa l’ipotesi che fosse stata preservata per una
sorta di rispetto al defunto ivi seppellito o di una riutilizzazione con la
medesima funzione, si può supporre che assolvesse la funzione di vasca
battesimale, «monumentalizzata» dai due gradini di cui si è detto,
nonostante manchino elementi per la ritenzione dell’acqua che veniva senza
dubbio ben presto assorbita dal pulvurulento calcare. Non è ignota, del resto,
la pratica di ricavare fonti battesimali da loculi, in particolare nei
monumentali sepolcri a baldacchino: si possono ricordare i casi della grotta di
contrada Petracca nell’agro netino[13]
e della chiesa rupestre sotto il palazzo Platamone a Rosolini[14].
Nella parete settentrionale si apre l’ambiente minore:
anche qui, come nel subsellium, nell’anfratto e nel bancone della vasca
battesimale, si mantiene quello che doveva approssimativamente essere il piano
di calpestio dell’originario ipogeo, più alto di m. 0,35 rispetto a quello
dell’aula. Le pareti di questo secondo vano presentano delle nicchie: quella
occidentale ne ha due (la prima alta m. 0,57, larga m. 0,48 e profonda m. 0,24;
la seconda è alta m. 0,63, larga m. 0,48 e profonda m. 0,23) e presenta anche
una fenditura naturale della roccia che percorre parte del piano di calpestio.
La parete settentrionale ha una sola nicchia (alta m. 0,70, larga m. 0,47 e
profonda m. 0,23); quella orientale, oltre ad una mensola reggilucerne ad angolo
con la parete Nord e a vari scassi, ha due nicchiette (una di forma
rettangolare alta m. 0,36, larga m. 0,43 e profonda m. 0,17; la seconda larga
m. 0,41, alta al colmo m. 0,38 e profonda m. 0,21). In questo ambiente è da
ravvisarsi un parekklesion.
Si mantengono ancora tracce degli affreschi che decoravano le
pareti: due pannelli dei quali rimangono frustuli della cornice di colore nero
(o blu degradato) erano nelle pareti orientale e meridionale sul basamento
dell’altare; in quello sopra l’altare è possibile distinguere un nimbo dorato
delimitato da una larga filettatura nera. Un altro pannello era sulla parete
orientale a nord dell’anfratto, ma resti di intonaco affrescato si riscontrano
nella parete sul subsellium e su quella opposta.
Attiguo alla chiesa è un secondo ambiente ipogeico di pianta
quadrangolare di m. 2,38 (E-W) x m. 2,45 (N-S), alto m. 2,06. Vi si accede
attraverso un ingresso di sagoma rettangolare (m. 1,62 x 0,79), già fornito di
porta della quale restano gli scassi per i cardini. All’interno è presente un
altare (alto m. 1,09, largo m. 0,67) a nicchia posta al di sopra di tre alzate,
ricavato nella parete settentrionale di roccia che separa questo ambiente dalla
chiesa. Un foro di aereazione è praticato all’angolo sudoccidentale del
soffitto. Resta valida l’interpretazione di Orsi che suggerì di riconoscere in
questo ambiente «l’abitazione dell’officiante». Confronti si possono istituire
con la cella eremitica individuata presso la chiesa di Santa Maria della Grotta
sul teatro antico di Siracusa, sopra ricordata[15].
L’anonima chiesa di Cava Ddieri, della quale non si è serbato
alcun ricordo, sembra aver avuto una breve vita. Dal punto di vista della
cronologia relativa la stessa posizione decentrata della chiesa rispetto al
resto dell’abitato, induce a supporre che essa non fosse prevista quando
l’insediamento si sviluppò nel più alto banco roccioso del pendio e che essa fu
installata soltanto in un secondo momento, ovvero al tempo della
ricristianizzazione dell’abitato che, come risulta evidente già dallo
stesso nome del sito[16],
certamente fu occupato e verosimilmente sorse durante il periodo della
dominazione araba. La chiesa rupestre di Cava Ddieri va quindi raffrontata con
le altre chiese sorte dopo l’avvento dei Normanni ed in particolare con quelle
di rito orientale, di cui vi è una ricca documentazione nel circondario
di Modica: se le chiese di San Nicolò Inferiore e di Santa Venera, nell’ambito
dell’attuale centro urbano, hanno subìto notevoli rifacimenti nei secoli
successivi[17], diverso
è il caso di quelle più antiche della Cava d’Ispica: la Grotta dei Santi, la
‘Spezieria’ e la chiesa cosiddetta di Santa Maria nel tratto settentrionale
della Cava d’Ispica[18].
Queste, al pari della chiesa della Cava Ddieri, sono state precocemente abbandonate,
forse al tempo della crisi per le lotte feudali del XIV secolo, e mantengono le
caratteristiche delle chiese di rito orientale. Se quelle della “Spezieria” e
Santa Maria, con soluzioni singolari per un’architettura ottenuta “per via di
levare”, sono distanti dalla semplicità planivolumetrica della chiesa della
Cava Ddieri, molto simile è, invece, la chiesa della Grotta dei Santi, dove
l’area presbiteriale ed il templon litico che la delimita sembrano
ottenuti attraverso un ulteriore sfondamento della parete di fondo di una
precedente grotta a semplice pianta rettangolare. Esse rappresentano una viva
testimonianza di quel sostrato greco che, sopravvissuto durante la
dominazione araba, verrà successivamente assorbito durante il processo
di completa occidentalizzazione avviato con la conquista normanna della
Sicilia, dopo aver avuto un ruolo di primo piano nella ricostituzione della
cristianità dell’isola.
NOTE
*
(Ragusa, 1967). Dopo avere frequentato il Liceo classico di Modica, ha
conseguito la laurea in Lettere classiche (indirizzo archeologico) presso
l’Università di Catania, ove ha poi conseguito il diploma di specializzazione
in Archeologia classica.
Ha
partecipato negli anni ‘88, ‘89, ‘90, ‘91, ‘92, ‘93, ‘95 e ‘96 alle campagne di
scavo della Missione Archeologica Italiana a Paphos (Cipro) diretta dal Prof.
Filippo Giudice, ordinario di Archeologia e Storia dell’Arte Greca presso
l’Università di Catania.
Ha
collaborato (1995-1996) con la Soprintendenza ai BB.CC.AA. di Siracusa per la catalogazione
dei reperti di Eloro e Noto Antica; successivamente per lo scavo archeologico
di un ipogeo funerario tardoromano in contrada Cuba (Noto). Attualmente
collabora con l’Istituto di Archeologia dell’Università di Catania per lo
studio e la schedatura di vasi attici, per studi riguardanti problemi di
distribuzione della ceramica attica, per la pubblicazione dei vasi della stipe
della Mannella di Locri Epizefiri, per l’edizione delle anfore rinvenute negli
scavi di Nea Paphos e dei reperti della necropoli Carrara di Crotone.
È
membro supplente della Commissione di esami di Archeologia e Storia dell’Arte
Greca e di Archeologia ed Antichità della Magna Grecia all’Università di
Catania.
Conosce
le lingue neoellenica ed inglese. Ha pubblicato: Ceramica corinzia, in
F. Giudice - S. Tusa - V. Tusa, La collezione archeologica del Banco di
Sicilia, Palermo 1992, pagg. 43-76; sub “Ceramica calcidese, ionica”,
ibidem, pagg. 201-202; Un’anonima chiesa rupestre nell’agro modicano,
Modica 1995; Le rotte di approvvigionamento, in F. Giudice, I vasi
attici della prima metà del V secolo in Sicilia: il quadro di riferimento,
in AA.VV., Lo stile severo in Grecia ed in Occidente. Aspetti e Problemi,
Roma 1995, pagg. 165-171; Analisi della distribuzione dei vasi corinzi nel
Mediterraneo (630-550 a.C:), Catania 1996; Le anfore, in F. Giudice
et alii, Paphos, Garrison’s Camp. Campagna 1992, in Report of the
Department of Antiquities of Cyprus, Nicosia 1996, in c.d.s.
Risiede
a Modica in via C/le Serrauccelli, 6.
[1] P. Orsi, Necropoli sicula e villaggio
trogloditico bizantino, in Notizie degli Scavi di Antichità, 1905, pagg.
430-431. È incerto se la menzione di Carrafa degli antri “nei campi della
famiglia Mazzara” (P. Carrafa, Motucae illustratae descriptio seu delineatio,
Palermo 1653 volgarizzato da F. Renda, Prospetto corografico istorico di
Modica, Modica 1869, rist. anast. Bologna 1977, pag. 41) recentemente
richiamata da Messina 1994, pag. 51, si riferisca al complesso rupestre di Cava
Ddieri: sotto il pianoro della Caitina, dove la famiglia Mazzara possedeva dei
terreni, infatti, si trovano altri complessi rupestri: nel versante della
Fiumara di Modica già segnalato in rovina (S. Minardo, Modica antica
Ricerche topografiche, archeologiche e storiche, Palermo 1952, pagg.
148-149) e nel versante del San Liberale, sotto la chiesa di Santa Maria di
Monserrato: qui l’insediamento trogloditico sfrutta delle tombe a grotticella
artificiale preistoriche; si segnala, in particolare, anche un complesso
articolato su tre livelli collegati da corridoi e da rampe di scale, per il
quale cfr. il Ddieri piccolo di Bauly: G.M. Curcio, I “Ddieri” di Bauly,
in Arch. Stor. Sirac. V-VI, 1959-‘60, pagg. 133-134.
[2] P. Orsi, Relazione preliminare sulle
scoperte archeologiche avvenute nel sud-est della Sicilia nel biennio 1/2 1905
- 1/2 1907 VI Modica, in Notizie degli Scavi di Antichità 1907, pag.
485. Un secondo titolo funerario, proveniente da un punto imprecisato del
“vallone sottostante alla stazione ferroviaria”, era stato già pubblicato dallo
stesso P. Orsi, Frammenti epigrafici sicelioti, in Rivista di Storia
Antica V, 1900, pagg. 58-59, n. 36.
[4] A.M. SAMMITO, Elementi topografici
sugli ipogei funerari del centro urbano di Modica, in Archivum
Historicum Mothycense 1, 1995, pagg. 33-35, fig.4.
[6] V.G. RIZZONE, Un’anonima chiesa
rupestre nell’agro modicano, Modica 1995, pag. 16; qui vengono riportati
altri casi di trasformazioni di ipogei, quali quello delle case Giusti e quello
di Cava Coda di Lupo, pag. 16 e note nn. 6 e 7.
[7] Carrafa, cit., pag. 32; F.L. Belgiorno,
Modica e le sue chiese, Modica 1953, pagg. 41, 191-192; G. Di Stefano, Recenti
lavori di manutenzione nelle catacombe dell’altopiano ibleo e nuove scoperte
nel territorio, in Atti del VI Congresso Nazionale di Archeologia
Cristiana, Pesaro-Ancona 19-23 settembre 1983, Firenze 1986, vol. II, pag.
679.
[8] Tale soluzione si ritrova, exempli
gratia, nella chiesa rupestre della Grotta dei Santi di contrada Alia a
Nord di Monterosso Almo, per cui v. da ultimo Messina 1994, pagg. 104-107.
[9] S.L. Agnello- G. Marchese, La necropoli
tardo-romana, in AA.VV., Il teatro antico di Siracusa, pars altera,
a cura di L. Polacco, Rimini 1991, pagg. 68-69.
[10] G. Agnello, La necropoli e la chiesa
rupestre di Bibbinello, in Atti del I Congresso Nazionale di Archeologia
Cristiana, Roma 1952, pagg. 31-47; Idem, L’architettura bizantina in
Sicilia, Firenze 1952, pagg. 280-283; Messina 1979, pagg. 115-117; Messina
1994, pag. 20.
[13] A. Messina, Battisteri rupestri e vasche
battesimali nella Sicilia bizantina, in Archivio Storico Siracusano,
n.s. I, 1971, pagg. 9-12; Messina 1979, pagg. 132-133.
[16] Comunemente accettata è la spiegazione
dell’origine del toponimo ‘Ddieri’ dall’arabo ‘ad-diyâr’ = le case (v. C.
Avolio, Saggio di toponomastica siciliana, in Supplementi periodici
dell’Archivio Glottologico Italiano, 1899, pagg. 44-45), termine che sta a
designare, in particolare, un agglomerato di abitazioni con carattere rupestre;
esso è molto diffusso nella Sicilia orientale. Per la diffusione del toponimo,
cfr. D. Trischitta, Toponimi e paesaggio nella Sicilia orientale, Napoli
1983, pag. 149, cui adde la località ‘Addiera’ a Nord di Ragusa: G. Di
Stefano, Recenti indagini sugli insediamenti rupestri dell’area ragusana,
in AA. VV., La Sicilia rupestre nel contesto delle civiltà mediterranee,
Atti del VI Convegno Internazionale di Studio sulla civiltà rupestre
medievale nel Mezzogiorno d’Italia, Catania-Pantalica-Ispica, 7-12
settembre 1981, a cura di C. D. Fonseca, Galatina 1986, p. 265, tavv. LXXVI,
LXXXII e LXXXIII.