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Servizio militare, uniformi, armi, cavalli e cavalieri nella Contea di Modica nel sec. XVII

di Giuseppe Raniolo*

 

A complemento del saggio sul Castello di Modica pubblichiamo il frutto di una ricerca del prof. Giuseppe Raniolo sul reclutamento militare e sui principali corpi militari della Contea nonché sulle loro uniformi e sul ‘guarnimento’ dei cavalli. Riteniamo con tale pubblicazione di far cosa gradita ai Lettori anche in funzione dell’utilizzo didattico degli studi proposti che costituisce uno degli scopi della Rivista.

Si ringrazia il prof Giuseppe Micciché presidente del Centro Studi ‘F. Rossitto’ di Ragusa per aver consentito tale pubblicazione rivisitata ed ampliata dall’Autore rispetto a quella effettuata su ‘Pagine dal Sud’ (n. 2/1996).

 

 

1. I Conti di Modica, come gli altri feudatari del Regno di Sicilia, erano tenuti a porre a disposizione della Maestà del Re un contingente di soldati a cavallo, il cui numero era proporzionato all’estensione del territorio ed in particolare alla rendita del feudo, accertata all’atto della sua concessione.

Secondo Raffaele Solarino (1), Manfredi II Chiaramonte, conte di Modica, nel Ruolo d’addoamento, compilato da re Lodovico nel 1343, compare tassato per cinquanta militi armati; doveva cioè conferire un cavaliere armato con armigero e due scudieri e perciò anche quattro cavalli per ogni venti onze di oro di rendita attribuita al feudo.

Nel Cinquecento la prestazione del servizio militare a favore del Regno fu modificata fissando per i feudatari, secondo lo storico Gregorio (2), il servizio di un cavallo soltanto per ogni venti onze di rendita e per la durata di soli tre mesi l’anno, oppure il pagamento di onze dieci e tarì 15 come ‘addoamento’ (compenso in denaro) per ogni cavaliere che non si presentava per servire il Re.

Per il reclutamento generale si stabilì, come dice lo stesso Gregorio, un esercito regio che dal 1573, secondo la riforma del duca di Terranova don Carlo d’Aragona e Tagliavia, contava su milleseicento soldati a cavallo e diecimila fanti (e più o meno in seguito), i quali tutti erano forniti dalle dieci sergenterie istituite nell’Isola col nome di Terzi. Queste avevano sempre disponibile un contingente di truppa, a cavallo e a piedi, superiore per numero a quello che di volta in volta veniva richiesto dal Viceré per fare fronte ad eventuali assalti di nemici, specie i Turchi, in qualsiasi luogo della Sicilia. Tale truppa veniva costituita con l’arruolamento di uomini, dai diciotto ai cinquanta anni, risultanti dai riveli (denunce) dei beni e delle ‘anime’ (abitanti) tenuti periodicamente in tutta l’Isola, come quelli voluti col nome di ‘numerazione delle anime’ dal viceré Giovanni de Vega nel 1548.

 

Nella Contea di Modica si ebbe (1535), con il ‘Terzo’, avente sede a Scicli, la quarta sergenteria del Regno, al comando prima di un sergente maggiore - sempre comunque in rapporto col Governatore della Contea - ed in seguito direttamente dello stesso Governatore, che dal Viceré fu nominato (1736) a tal uopo Capitano d’armi ‘a guerra’, ossia capo delle truppe con pieni poteri, e con giurisdizione militare anche per le Terre di Giarratana, Comiso e Biscari (Acate). Pare che tale Terzo avesse in forza tre compagnie di fanti, cioè 673 uomini, e quattro di cavalleria con 212 cavalieri.

 

2. L’arruolamento degli uomini formanti una compagnia veniva fatto utilizzando appositi elenchi di nominativi di cittadini dimoranti nelle varie Terre della Contea e secondo i quartieri in cui ognuna era divisa. Gli uomini abili al servizio militare erano quindi già noti, tanto più che in ogni quartiere - quattro per ogni Terra (paese) - vi era un capitano, appositamente nominato per adunare in caso di necessità le persone disponibili soggette all’arruolamento; chi per gravi giustificati motivi era impedito, poteva farsi sostituire da un altro disposto a farlo.

Ciò è intuibile da un bando emanato nel mese di aprile del 1626 dal Governatore della Contea, Paolo La Rèstia, preoccupato della minaccia di un assalto contro le coste della Sicilia da parte di molti vascelli di pirati e quindi deciso “a stare con molta vigilanza con la milicia di cavalli e di fanti”.

Per tale bando lo stesso Governatore “... ordena et comanda che tutti soldati di cavallo et de fanti habbiano de stare in ordene e pronti con loro cavalli e armi senza puotere uscire dello territorio, ma havere da venire sutto l’insegna (o bandiera) a primo sono di tamburo o di tromba. E poiché per respecto (a causa) del contaggio de Scicli non si ha preso (non si è fatta) mostra generale, non si sanno che sostituti presentano li principali soldati de cavallo, s’ordena che per Domenica ultima di aprile, che saranno li 26, si habbiano da presentare sotto lo stendardo con li loro cavalli e arme, avvertendo che nessun bordonaro, trapitaro, lavoratore né giornataro si possa presentare per sostituto, ma che siano genti di piazza (piazza d’armi o di fortezza) et atti all’armi et haversi a resignare (ad arruolarsi) per tutto l’anno per se stessi e non per altri sotto pena di quattro tratti di corda”. Per i cavalli è detto che siano “atti a guerra” senza essere adoperati per attività “vili”. Per i fanti è detto che devono presentarsi “sotto la loro bandiera” la prima domenica di maggio.

 

3. Il riferimento del predetto documento alla ‘mostra’ induce a rilevare che i Conti dovevano tenere sempre a disposizione del re, come obbligo feudale, trentacinque uomini a cavallo debitamente armati da inviare, quando non urgeva un intervento generale di truppe per la difesa dell’Isola, in qualche città, opportunamente scelta dal viceré, per ‘mostre’ o rassegne delle truppe a servizio del Re.

Una nota del volume di Lettere Patenti (5) accenna, ad esempio, all’ordine che “... s’havessero a retrovar a la cità de Plaza (Piazza Armerina) li 35 cavalli... a li 28 de Augusto 1594”. Tali soldati furono sottoposti prima dopo essere stati preparati ed armati, ad ispezione, compresi il capitano (che ne aveva il comando), il tenente e l’alfiere. Ai trentacinque uomini era aggiunta la ‘trombetta’, cioè il trombettiere.

I tre ufficiali suddetti erano nominati dal Governatore, in quanto capo militare della Contea, come risulta da varie ‘patenti’ rilasciate all’uopo. Fra di esse si ricorda quella rilasciata il 7 settembre 1636 dal governatore Bernardo Valseca, barone di S. Filippo e Cadimele, a Giacomo Carrera. In essa fra l’altro è detto: “... havendo stato ordinato per S. E. (il Viceré) s’havesse di dar mostra del servizio militare nella città di Calatagirone (Caltagirone) e convenendo... eligersi persona di confidenza, essendo informati della habiltà (abilità, capacità) di voi Giacomo Carrera, in virtù della presente vi eligiamo e nominamo per capitano di detti trentacinque soldati di cavalli di detto servitio con tutti quelli honori gratie, dignità, preheminentii, exentioni, lucri, emolumenti spettanti e pertinenti a ditto officio di capitano... ordinando per li presenti...”.

La nomina su riferita di Giacomo Carrera a Capitano militare (da non identificare col ‘Capitano d’armi a guerra’), per assumere il comando dei trentacinque uomini a cavallo da inviare a Caltagirone, è seguita, nello stesso volume di Lettere Patenti (4), da una lista di “robbe di servizio militare”, consegnate per la custodia a mastro Vincenzo Caxia, cioè di armi e attrezzature inerenti all’armamento della suddetta compagnia di soldati. Tale lista è interessante per l’informazione che ci dà sulle armi e l’abbigliamento militare del tempo, indicando nell’ordine:

- “Robigli (vestiti) di rasetto turchino fodarati di trizzanello (seta) arancino” (usati per gli ufficiali) n. 2, “insieme ad un’altra (veste) di damasco turchino ornata di passamano d’oro fino con bottoni simili” (forse per il capitano). Per i soldati sono disponibili 34 “robigli di panno turchino”.

- “Pixtoli e scupittuni” con loro tappi, crocchi con solo cinque manigli, n. 16; altri pistoli e scupittuni con loro grilli (grilletti) e crocchi senza chavioli (chiavette?), n. 16;

- n. 30 “pezzi di faudigli di armetto (sopravveste sotto l’armatura);

- n. 31 “bracciali; n. 24 spallali”, gli uni e gli altri sagomati in ferro; n. 33 “spallari e petti”; n. 32  “guli” o coprigola in metallo; n. 33 “birriuni” o verghe lunghe di ferro, come aste o picche;

- n. 7 cappelli neri; 12 paia di stivali; n. 5 “listali” o gruppi di liste o strisce per ornamento dei cavalli;

- n. 5 paia di “rètini” o briglie;

- n. 6 “caduti di grupera” o drappi affibbiati all’estremità in basso della groppiera, con la quale si copriva il dorso del cavallo fino alla coda; quindi un pettorale, due paia di gambali, “lo cocavo” cioè l’incavo per innestarvi lo stendardo della compagnia.

A tale elenco fa riscontro in parte quello delle armi e suppelletile varia assegnate alla stessa compagnia il 25 giugno 1645 (5). Così il capitano Giacomo Carrera ebbe due pistole a ruota con relativi cucchiai, l’armetto (o armatura del corpo), il “murrione” o elmo, la “gola”, i bracciali, gli stivali ed una veste di seta; lo stesso il tenente Fabio Leva e l’alfiere Vincenzo Giallongo.

I soldati a cavallo ebbero, oltre alle pistole a ruota, l’armetto, il murrione (o elmo), gli stivali, scopittoni a grillo oppure a toppa, una casacca per ciascuno.

Alcuni di tali soldati, forniti di cavallo proprio, e quindi scelti fra persone fornite di un discreto reddito e ceto più elevato di quello dei semplici lavoratori o dei bottegai, ricevettero anche, forse perché ne erano privi, una sella con relativo “guarnimento” per abbigliare opportunamente, come si usava nei tornei, il cavallo; Santoro Cerruto ebbe un “testale”, Andrea Pulino le redini e i gambali; Geronimo Cannata ricevette un “guarnimento senza cudera”, cioè senza copertura della coda, Luca Moncada un “guarnimento” bianco, cioè testali, retini (redini), gambali, pettorali.

All’arrivo al luogo di raduno, cioè Piazza (Piazza Armerina) (6), i medesimi soldati compaiono tutti su cavalli di vario colore (morello, baio, baio castagno oscuro, baio con stella in fronte, stornello bianco e nero) armati con “petto, spalle, morrione, pistole ecc”.

 

4. Per quanto riguarda altri servizi, oltre quello militare strettamente inteso, ricordiamo che sono da considerare, non meno importanti:

a) quelli relativi alla difesa dei castelli, simbolo del potere feudale e con l’ufficio fondamentale della difesa delle città. I castelli erano affidati al comando di un Castellano, dal quale dipendeva un certo numero di uomini detti ‘Campisi’ (in spagnolo ‘campeçes’). Questi avevano il compito, usando i cannoni e le armi a disposizione, di respingere eventuali attacchi nemici - come avvenne più volte a Pozzallo, la cui Torre Cabrera fu soggetta a vari assalti dei Musulmani - e di custodire entro le carceri i detenuti inviati dalle Corti di Giustizia locali.

Nella Contea i castelli più importanti erano i tre esistenti a Modica, Ragusa e Scicli, mentre di minore rilievo erano quelli di Monterosso, Chiaramonte e Vittoria.

b) la Corte Capitanale, retta da un Capitano di Giustizia assistito da un avvocato detto ‘Consultore’. Aveva a sua disposizione dieci uomini armarti detti ‘Algoziri’, i quali in ogni città o paese della Contea provvedevano all’arresto delle persone accusate di reati più o meno gravi o denunciate da vassalli offesi in modo vario. Gli arrestati venivano poi condotti in carcere e sottoposti a procedimento giudiziario; se il reato commesso era seguito da remissione di querela - purché non perseguibile per legge - l’imputato veniva rimesso in libertà, dopo avere pagato, in certi casi, un diritto di ‘composizione’ (o accordo) - in gran parte intascato dall’erario - alla parte accusatrice, diritto che fu aggiunto sovente agli introiti delle gabelle come ulteriore entrata dei Conti;

c) il Capitano di Campagna, detto anche ‘bargello’, costituiva con i suoi soldati o ‘compagni’ un altro corpo di polizia, con il compito specifico di sorvegliare il territorio in tutta la Contea e di catturare, se necessario anche attraverso un conflitto a fuoco, i delinquenti che saccheggiavano le campagne e commettevano violenze contro contadini ed agricoltori inermi fino al sequestro di persona.

Si trattava spesso di banditi colpevoli già di gravi reati, datisi alla latitanza per non essere imprigionati; erano detti perciò ‘forgiudicati’, cioè contumaci, e potevano essere soppressi in tutti i modi;

d) per quanto riguarda la ‘sorveglianza’ delle coste marine, risultano due persone, indicate come ‘soldati di marina’, inviate a Pozzallo;

e) per la guardia notturna delle città - sono ricordate solo Modica, Ragusa e Scicli - furono annualmente nominati due ‘sciurteri’ o impiegati della ‘xurta’, termine derivato dall’arabo, relativo anche alla gabella (sciurta) col medesimo nome. Infatti per tale servizio di custodia notturna i cittadini ‘non franchi’, cioè non privilegiati, dovevano pagare un tarì e mezzo come tributo annuo;

f) un accenno, infine, agli ‘alabardieri’ o ‘alapardieri’ (7). Questi - in numero di 12 - costituivano il corpo di guardie che, “per maggiore honranza al governo di questo Stato”, facevano parte del corteo del Conte o del Governatore, quando questi usciva dal castello o per ispezioni o per cerimonie solenni di vario genere, ad esempio in occasione della ‘Cappella di Corte’ o ‘Cappella quasi reale’*.

 

 

 

 

NOTE

 

* (Ragusa, 1918). Si laurea in Lettere classiche nel 1942. Ritornato dalla deportazione in Germania, ha insegnato materie letterarie prima presso diverse Scuole Medie, poi presso l’Istituto Magistrale G. Verga di Modica.

Dal 1980 si è dedicato alla ricerca storica, frequentando vari Archivi siciliani e, in particolare, quello presente nella sede di Modica.

Indagando con assiduità e padronanza nell’amplissimo Archivio di Stato modicano, Egli ha potuto avviare una serie di documentate pubblicazioni su riviste locali e con organiche cospicue opere.

Ha pubblicato: La Riforma del Diritto di Prelazione in un’ordinanza del Conte Bernardo Cabrera (1983); Introduzione alle Consuetudini ed agli Istituti della Contea di Modica (parte I, 1985; parte II, 1987); La nuova Terra di Vittoria dagli albori al Settecento (1986, 2a ed. 1990); La Contea di Modica nel regno di Sicilia - lineamenti storici (l993; 2a ed. 1997).

Risiede a Modica, via N. Sauro, 39. Tel. 941913.

 

(1) R. Solarino, La Contea di Modica, voll. 2, Piccitto e Antoci, Ragusa 1904; ristampa 1973; vol. 2°, p. 78.

(2) Cfr. Gregorio Rosario, Considerazioni sopra la storia di Sicilia, Ediz. Regione Siciliana, vol. II, p. 201.

(3) Archivio di Stato, Modica, Lettere Patenti, reg. IV, f. 137v.

(4) A. S. M., Lettere Patenti, reg. VII, f. 28r.

(5) A. S. M., Lettere Patenti, vol. VII, ff. 178 e segg.

(6) A. S. M., Lettere Patenti, vol. VIII, f. 180 r-v.

(7) Su tale corpo di guardia abbiamo dei “... provvedimenti relativi all’Università di Modica” emanati d’ordine della Corte del Patrimonio e per essa dal Governatore e Armorum Capitaneus Francesco d’Echebelz il 19 novembre 1644, provvedimenti inviati ai Giurati di tutte le città e terre della Contea. La lettera relativa spiega che, essendo stato concesso dal Viceré “per maggior honranza al governo di questo Stato [di Modica] l’uso di dodici alaparderi per guardia del Governatore di ditto Stato, li salari delli quali vanno a spesi dell’ecc.mo Signor Almiranti...” toccano alle singole Università della medesima Contea “...la spesa delli vestiti di detti alaparderi...”, secondo l’ordine dato dalla contessa Luisa de Sandoval (moglie del conte Giovanni Alfonso e sua sostituta nell’amministrazione della Contea nel periodo in cui il marito esercitò la carica di Viceré della Sicilia, dal 1641 al 1646, compreso il periodo in cui resse il Regno di Napoli). Tale spesa riguarda ogni due anni l’acquisto di “calzi, calzetti, casacca, firriolo (mantello senza maniche), cappelli, gipponi, giubbe”. A.S.M. - Lettere Patenti, reg. VII, f. 162 r.

 

* La ‘Cappella di Corte’ o ‘Cappella quasi reale’ aveva luogo nella capitale della Contea in occasione delle festività religiose più rilevanti: riti della Settimana santa, Pasqua, Natale, S. Giorgio.

Consisteva nella celebrazione solenne della Messa, cui era presente - in qualità di rappresentante del Conte - il Governatore. Questi sedeva in apposito soglio “sotto baldacchino di seta”; di fronte avevano la loro sede il Capitano di Giustizia, il Sindaco ed i Giurati con i loro ‘messaggeri’. La Gran Corte e la Corte del Patrimonio sedevano in scanni predisposti. Partecipavano alla celebrazione pure gli insigniti di onorificenze. Assistevano inoltre i portieri della Città. Cfr. V. Amico, Lexicon Siculum, Ed. 1757; trad. di S. Di Marzo, Dizionario topografico della Sicilia, Ed. 1859, vol. 2°, pag. 147. (N.d.C.).

 

Nota di Matteo Grippaldi sul vestiario e l’equipaggiamento

 

Dalla lista “robbe di servizio militare” del 7 settembre 1636 possiamo ricavare alcuni elementi utili a ricostruire il vestiario, l’equipaggiamento e l’armamento del reparto del Cpaitano Carrera. Si può dedurre come questo reparto che, oltre a compiti militari, svolgeva anche funzioni che oggi chiameremmo di ‘di rappresentanza’, era armato e abbigliato in maniera non dissimile dalle soltatesche europee che nello stesso periodo si affrontavano nella lunga e sanguinosa Guerra dei Trent’anni.

Chi desidera avere un’immagine dei soldati dell’epoca può fare pertanto fondato riferimento alle incisioni di Callot, alle tele di Hals e Rembrandt e soprattutto al celebre quadro di Velasquez ‘La resa di Breda’.

Quanto alla compagnia del Capitano Carrera, possiamo rilevare che anche in Sicilia, e nella Contea di Modica, perdurava l’uso, almeno per i soldati a cavallo, dell’armatura di ferro più o meno completa, anche se lo sviluppo ed il perfezionamento delle armi da fuoco ne aveva ridotto l’efficacia difensiva.

Nella lista si fa riferimento solo alla parte superiore dell’armatura (gorgiere, spallacci, bracciali ecc.) ma possiamo pensare che anche le gambe fossero protette da piastre di ferro, come testimoniano le fonti iconografiche.

Per quanto riguarda il copricapo, nella lista si parla di ‘morione’, l’elmo tipico delle truppe spagnole e loro alleate; ma può darsi che il termine fosse usato in senso generico e che venissero usate anche altre fogge di elmo (zuccotti, borgognotte).

Passando all’armamento offensivo, sorprende l’assenza di qualsiasi riferimento alle spade, ma si può supporre che queste armi fossero di proprietà degli uomini e non fornite dalla compagnia.

Le armi da fuoco sono del tipo ‘a ruota’ messo a punto alla fine del ‘500 e assai più adatte, per soldati montati, del tipo ‘a miccia’ pure usate all’epoca.

Queste armi funzionavano grazie ad un meccanismo simile ad un attuale accendisigari: “una ruota dentata metallica, girevole su un asse centrale, messa in attrito, attraverso una fessura sul fondo dello scodellino, con un pezzo di pirite o selce stretto fra le ganasce del cane preventivamente abbassato, provoca le scintille che accendono l’innesto. La ruota si carica con una chiave e si scarica premendo il grilletto (V. Melegari: Armi e uniformi).

Per quanto riguarda il vestiario, si rileva, dal documento dell’Archivio di Stato di Modica, un fatto abbastanza inusuale per l’epoca: tutti, soldati e Ufficiali, indossano abiti dello stesso colore (‘inusuale’, perché è a partire dal 1660/1670 che si diffonde l’uso, in tutti gli eserciti europei, di vestire i militari in maniere uniforme). Il fatto che le stoffe siano colorate (turchine) sembra dunque doversi collegare alle sopraddette funzioni di rappresentanza poiché, ordinariamente, i soldati semplici - come il popolino - usavano stoffe grezze, dalla tinta grigio-brunastra.

Molto probabilmente la sopravveste, portata sotto la corazza e che serviva a proteggere i costosi farsetti azzurri, era in cuoio naturale giallastro, come gli stivali.

I semplici cappelli neri, indicati nella lista, sembrano destinati alla truppa; è probabile che gli Ufficiali, sfarzosamente abbigliati con abiti decorati di cordicelle e bottoni dorati, usassero copricapi ornati di piume, secondo la moda del tempo.

(Matteo Grippaldi)