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Storia di una quérelle politico-diplomatica. la Contea di Modica nel periodo del governo sabaudo in Sicilia (1713-1720)*

 

di Giancarlo Poidomani**

 

 

1. La morte, nel 1700, del re di Spagna Carlo II, fu all’origine di un conflitto che avrebbe coinvolto le principali potenze europee e ridisegnato, con le successive paci di Utrecht e di Rastadt, l’assetto geopolitico continentale.

Già da qualche anno, prevedendo l’estinzione degli Asburgo di Spagna con la morte di Carlo (privo di figli e di salute malferma), le potenze europee avevano avviato delle trattative per una spartizione dell’eredità spagnola.

In linea diretta il trono sarebbe toccato alla sorella maggiore, Maria Teresa, moglie del re di Francia Luigi XIV. Ma, al momento del matrimonio, questa aveva rinunciato ai suoi diritti e in compenso Luigi XIV aveva ottenuto la promessa di un cospicuo indennizzo in denaro (mai pagato).

L’eventualità che l’impero spagnolo passasse sotto il controllo della monarchia francese era naturalmente temuta e avversata da tutti gli Stati europei che avevano appena finito di combattere contro le mire espansionistiche di Luigi.

D’altra parte il trono sarebbe potuto toccare anche al ramo austriaco degli Asburgo: l’imperatore Leopoldo, infatti, aveva sposato un’altra sorella di Carlo II e per la successione spagnola sosteneva la candidatura del proprio figlio Carlo.

Quando, dopo la morte del sovrano, fu reso pubblico il testamento che dichiarava erede universale Filippo di Borbone, nipote di Luigi XIV, questi abbandonò le trattative e spinse il nipote ad assumere la corona con il titolo di Filippo V di Spagna.

Il timore della nascita di una grandissima potenza franco-spagnola diede origine ad una alleanza fra Inghilterra, Austria, Olanda e Prussia. Il fronte avversario costituito da Francia, Spagna e Piemonte ben presto si indebolì per la defezione del duca sabaudo Vittorio Amedeo II - che, sperando di ottenere maggiori compensi territoriali passò dalla parte dell’imperatore - e del Portogallo che consegnò alla marina inglese i propri porti e scali commerciali in tutto il mondo.

La guerra per la successione spagnola durò dal 1702 al 1713. I Borboni vennero attaccati su tutti i fronti: i domini spagnoli in Italia (stato di Milano e Regno di Napoli) furono occupati dagli austriaci; gli inglesi occuparono la Sardegna, le Baleari e Gibilterra, assumendo così il controllo del passaggio tra Atlantico e Mediterraneo. Le trattative di pace durarono dal 1712 al 1714 e si conclusero con una serie di trattati firmati a Utrecht (1713) e a Rastadt (1714).

Filippo V mantenne il trono di Spagna e l’impero coloniale; il pretendente austriaco, Carlo d’Asburgo, divenuto nel frattempo imperatore d’Austria con il nome di Carlo VI, ottenne la maggior parte dei possessi spagnoli in Italia (Milano, Regno di Napoli e Sardegna). Il Monferrato e il Regno di Sicilia andarono ai Savoia i quali, in tal modo, acquisirono il titolo regale.

 

2. Fu a partire da questo momento che la contea di Modica venne a trovarsi al centro di una complessa vicenda politico diplomatica. Per cinque anni, dal 1713 al 1718, sarebbe stata una vera e propria spina nel fianco del governo sabaudo in Sicilia.

Nel 1702 Filippo V aveva inviato Giovanni Tommaso Enriquez-Cabrera, almirante di Castiglia e conte di Modica, come primo ambasciatore presso la corte francese. Ma l’Almirante, recatosi in Portogallo presso i fautori del granduca d’Austria, si schierò apertamente per il pretendente asburgico***. Accusato di fellonia e tradimento, fu condannato a morte in contumacia e gli furono confiscati tutti i beni, cosicché anche la contea di Modica fu incorporata al demanio regio.

Quando Filippo V, con l’articolo quinto del trattato di Utrecht, cedette la Sicilia ad Amedeo di Savoia, fece introdurre una clausola (articolo X) secondo la quale «tutte le dignità, le rendite, signorie e sostanze di ogni genere che si trovassero confiscate in Sicilia all’almirante di Castiglia, al duca di Monteleone, al contestabile Colonna, al Principe di Bisignano ed altri personaggi laici incorsi nel delitto di fellonia, avendo seguito la causa dell’arciduca Carlo, dovessero rimanere a libito di Sua Maestà Cattolica, in mano degli stessi ufficiali che le amministravano attualmente e per farsene l’uso che più alla S.M.C. sembrasse opportuno» (1) .

Si venne a creare così la strana situazione dell’esistenza di un feudo del re di Spagna nel regno di Vittorio Amedeo. Filippo V poteva essere considerato (e questo avvenne effettivamente) come un barone spagnolo soggetto al re sabaudo (2).

Era chiaro che i beni confiscati in Sicilia, che costituivano la decima parte dell’Isola, rappresentavano per Filippo V una base per una futura ed eventuale riconquista. Secondo lo storico Garufi, Vittorio Amedeo non «era certamente uomo cui potesse sfuggire il fine ultimo delle nuove pretese; ma egli stesso riteneva ‘che il miglior partito fosse di dissimulare il torto che riceveva; poiché nell’acquisto dei regni nulla è più difficile della prima salita e, superata questa, tutto cede» (3).

In realtà, nel corso dei quattro anni e nove mesi di dominio sabaudo in Sicilia, Amedeo avrebbe avuto modo di rimpiangere amaramente l’accettazione di quella clausola. Questa infatti pose le premesse per una disputa snervante e logorante sulla Contea tra gli amministratori dei beni di Filippo V e i funzionari sabaudi.

Una disputa fomentata da continue pretese, rivendicazioni, reclami e condanne di ingerenza dei ministri sabaudi negli affari interni dei possedimenti confiscati, da parte degli amministratori spagnoli.

La Contea insomma divenne una vera e propria enclave spagnola nella Sicilia piemontese, fonte di preoccupazioni e di timori per eventuali complotti e congiure contro il governo sabaudo.

Ben presto i ministri sabaudi sospettarono che Filippo tramasse per restituire la Contea al marchese di Alcagnizes, suddito spagnolo e nipote dell’almirante di Castiglia, il quale avrebbe potuto rivendicarne il possesso pieno in base all’investitura del re Martino a Bernardo Cabrera.

Infatti, secondo il parere degli avvocati di Vittorio Amedeo, Filippo V non poteva pretendere personalmente i privilegi e il potere goduti dai conti poiché, «se il delitto dl fellonia aveva comportato l’annessione della contea al regio demanio, non esisteva più feudo né i diritti connessi ad esso» (4).

 

Nell’azione di disturbo e nelle continue rimostranze nei confronti del governo piemontese, gli amministratori di Filippo V ebbero man forte da parte della nobiltà e delle famiglie più potenti della Contea, della quale l’assolutismo e il centralismo sabaudi tentavano di mettere in discussione privilegi e autonomie, godute per secoli (4bis). E, quando nel 1718 la Spagna, per iniziativa del cardinale Alberoni, tentò di sottrarre la Sicilia a Vittorio Amedeo con una azione militare, molti nobili e patrizi modicani parteciparono attivamente all’impresa mandando aiuti di ogni genere (vettovaglie, cavalli ecc.).

 

3. I documenti dell’Archivio di Stato di Torino riguardanti il Regno di Sicilia sono divisi in due Inventari: il primo è composto di 8 Categorie (5), il secondo di 12 (6). Di queste ultime, una (la IX) è interamente dedicata alla contea di Modica a riprova del particolare ruolo che questa parte della Sicilia sud orientale giocò nei pochi anni del governo sabaudo. La categoria risulta costituita da tre mazzi per un totale di 35 fascicoli. Altri 4 fascicoli riguardanti la Contea si trovano nel mazzo n° 2 della I Categoria e nei mazzi n° 4 e 6 della II Categoria del I Inventario (7).

Questi documenti trattano quasi per intero proprio dei problemi originati dalla gestione politica e amministrativa della Contea, delle varie pretese degli amministratori spagnoli, dell’insofferenza delle élites locali nei confronti dei ministri piemontesi e infine dei vari tentativi di questi ultimi di imporre la propria autorità.

 

4. A dimostrazione del fatto che la clausola X fatta inserire nell’articolo V del trattato di Utrecht da Filippo V avrebbe ben presto creato incomprensioni e problemi di interpretazione tra la Spagna e il governo sabaudo, il primo fascicolo del primo Mazzo della IX Categoria è intitolato ‘Vero senso dell’articolo X del trattato di cessione della Sicilia’.

In realtà non esisteva un unico vero senso dell’articolo ma due diverse interpretazioni, della giunta di Spagna da una parte e dei ministri sabaudi dall’altra (8). Gli spagnoli ritenevano che a Filippo V spettassero «tutta la giurisdizione e tutti i privileggi fiscali concernenti il Patrimonio di detti Stati e beni confiscati»; Vittorio Amedeo rispondeva che «il Re di Sicilia ha la giurisdizione suprema et il diretto dominio in ordine al Vassallaggio ed il Re di Spagna la giurisdizione suprema e senza appellazione rispetto solamente all ‘economico de’ Stati e beni riservati et alle attioni che si ponno promuovere contro detti beni» (9).

Naturalmente questi due differenti modi di interpretare i poteri del re di Spagna sui beni siciliani avrebbero determinato continue frizioni e malumori tra i funzionari di una parte e quelli dell’altra, amplificando il malumore già serpeggiante tra i maggiorenti della Contea per il tentativo del re sabaudo di introdurre nell’Isola un regime fiscale centralizzato e più moderno, privo di esenzioni e privilegi.

 

5. Una delle principali cause di conflitto e di scontri diplomatici fu rappresentato dai diritti doganali sulle merci esportate dalla contea di Modica e da altri ‘scari’ (porti) di proprietà del re Cattolico (10).

Il procuratore generale di Filippo V in Sicilia, don Gaspare Narbona, pretendeva che il diritto di cassa (imposta) per le importazioni e le esportazioni delle merci dalla contea di Modica ‘per dentro e fuori il Regno’ si dovesse corrispondere agli arrendatari (amministratori-esattori) della Contea e non alla corte piemontese. Come prova adduceva il possesso legittimo di tale diritto sin dalla concessione fatta dal re Martino nel 1392 all’almirante di Castiglia Bernardo Cabrera, riconfermata dal re Alfonso nel 1457.

Il Consiglio di Sicilia, i ministri e il consultore del vicerè, conte di Robilant, negarono con forza la fondatezza di tale pretesa affermando che il diritto di cassa d’extra regno spettava incontrovertibilmente alla regia corte per il semplice fatto che esso era stato imposto nel 1562 dal Parlamento (quindi due secoli dopo l’infeudazione della Contea) per dieci anni ed era stato in seguito prorogato di decennio in decennio fino al 1636, anno in cui era stato reso perpetuo.

Alla Contea spettava - essi sostenevano - soltanto il diritto di cassa d’infra regno, e per giunta solo per la vendita di beni stabili (a ragione di tari 1 per ogni onza del prezzo del bene) e non per le merci. Il consultore coglieva l’occasione per segnalare la ‘prepotenza’ dei conti di Modica che, senza alcun titolo, avevano fino ad allora percepito i proventi di tali diritti.

I piemontesi, insomma, non avrebbero potuto in nessun modo riconoscere al conte di Modica (e cioè a Filippo V) il diritto di cassa d’extra regno poiché si trattava di una regalìa troppo importante e tale da diminuire eccessivamente l’autorità regia per potere essere dedotta da clausole vaghe; secondo loro, lo stesso re Martino non aveva affatto abdicato alle sue prerogative regie (11). Il fatto stesso che, nell’atto di concessione del feudo a Bernardo Cabrera, Martino avesse permesso al conte il privilegio di estrarre (cioè di esportare fuori dai confini della Contea, senza pagamento di dogana) ‘soltanto’ 12.000 salme di frumento (‘tantum’ tractas duodecim mille), provava che veniva esclusa qualsiasi altra estrazione.

Ma il Narbona non aveva alcuna intenzione di desistere. Era evidente che il compito affidatogli dal re di Spagna era quello di creare continuamente difficoltà al governo sabaudo, avanzando richieste e pretese - a volte infondate a volte corroborate da consuetudini secolari, da privilegi e da concessioni ormai acquisite nel corso del lungo dominio spagnolo nell’Isola - , agendo da plenipotenziario del re cattolico in Sicilia e ponendosi come vero e unico referente per i funzionari della contea di Modica e degli altri possedimenti che Filippo V si era riservato con la clausola X dell’articolo V del trattato di Utrecht. L’intento del re spagnolo era quello «di avere uno stato nello stato e di avere non solo un piede nel suo ex regno ma un vero e proprio dominio indipendente» (12).

 

6. Nel giugno del 1717 (si avvicinava la resa dei conti) il Narbona ordinò agli ufficiali della Contea di esigere e fare esigere il diritto di cassa d’extra e d’infra regno per conto di Sua Maestà Cattolica («per spettare il medesimo al Patrimonio di Modica»). Per vigilare sui contrabbandi, sulle esportazioni e importazioni delle merci soggette a tale diritto predispose inoltre l’elezione di tre soprastanti: uno per lo scaro di Scoglitti, uno per quello di Mazzarelli e l’altro per quello di Pozzallo. Ognuno di essi avrebbe avuto a disposizione dei soldati a cavallo per sequestrare tutte le navi e le imbarcazioni sorprese a trasportare merci senza l’autorizzazione dei corrispettivi ‘depositari’ («quali eligerete per li suddetti introiti che siino ben stanti e ben visti a cotesto Patrimonio»).

Per fugare dubbi o eventuali timori degli ufficiali di Modica (che invero erano felicissimi degli ordini del Narbona), richiamandosi alla X clausola dell’atto di cessione il procuratore generale di Filippo V sottolineava che i ministri e i tribunali del regno sabaudo non potevano intromettersi negli affari che riguardavano il diritto di cassa e che sarebbero stati considerati veri e propri attentati, e quindi dichiarati ‘cassi, irriti e nulli’, i divieti del Real patrimonio diretti agli ufficiali della Contea sull’esigenza del riferito diritto di cassa e le nomine di nuovi ufficiali (13).

Di fronte a una simile provocazione si ebbe un vero e proprio giro di vite dell’amministrazione sabauda contro i funzionari del re spagnolo operanti in Sicilia. Il regio Secreto di Noto, barone don Giovanni Di Lorenzo, fu immediatamente spedito a Modica in qualità di commissario generale del re sabaudo con la patente di capitano d’armi straordinario per «riparare l’attentato compiuto dal Narbona alla Regia giurisdizione». Il Di Lorenzo avrebbe dovuto raccogliere informazioni contro le persone coinvolte, incarcerando quegli ufficiali che avevano eseguito gli ordini del Narbona e, in particolare, i collettori preposti all’esigenza del diritto di cassa. Nel caso in cui qualcuno dei regi collettori, eletti dal Real patrimonio del regno per la riscossione del diritto di cassa d’extra regno, si fosse dimesso per intimazioni o minacce ricevute dagli ufficiali di Modica, il commissario generale lo avrebbe prontamente ristabilito nelle proprie funzioni. Consapevole dei rischi che il Di Lorenzo avrebbe potuto correre in un territorio ancora fortemente controllato dagli spagnoli, il vicerè gli assegnò una scorta di 24 soldati. Al capitano di giustizia di Vittoria don Andrea Porcelli, reo di aver disubbidito agli ordini di Vittorio Amedeo I1, fu ingiunto di presentarsi carcerato a Messina (14).

Al Di Lorenzo venne inoltre concessa la facoltà di incarcerare il governatore di Modica don Amedeo Ansaldo (15), nel caso in cui questi avesse ostacolato la sua azione. Gli attentati del Narbona alla sovranità di Vittorio Amedeo II nella contea di Modica venivano così sintetizzati nelle istruzioni al commissario generale: «Inoltrandosi in recar pregiudizi alla suprema giurisdizione dei magistrati di questo regno, tentando or con industrie or con insinuazioni di imprimere negli animi degli ufficiali del contado di Modica e di quei vassalli del re nostro signore non solamente un raffreddamento nella dovuta e naturale rassegnazione, ma pure una positiva disubbidienza agli ordini e disposizioni dei supremi magistrati (...) Proponendo nascostamente tutti gli impedimenti per non far comparire i loro ricorsi (...) Può in codesti aver avuto luogo una moderata dissimulazione». L’azione di provocazione e di disturbo dell’agente di Filippo V era stata scoperta e da quel momento i funzionari del governo sabaudo avrebbero aumentato la pressione e il controllo sugli atti degli ufficiali della Contea, considerando un vero e proprio atto di ribellione una lettera di supplica scritta da un buon numero di essi.

 

8. Il primo di agosto del 1717, infatti, gli ufficiali della Contea inviarono al barone Di Lorenzo una lettera nella quale rilevavano che la ‘patente’, con la quale questi era stato inviato nella Contea come commissario generale del re Vittorio Amedeo, ledeva non solo i diritti e i privilegi della Contea ma la stessa clausola X del trattato di cessione. Inoltre, forti degli ‘ordini’ ricevuti dal Narbona, «intimavano giudizialmente» al suddetto Di Lorenzo di non ingerirsi nelle materie giurisdizionali, di non interessarsi delle cause civili e criminali, «né del Patrimonio dell’Università e dei diritti del re Cattolico, sue regalie, real azienda, né altro e specialmente si astenesse dal perturbare, e sotto qualsivoglia pretesto, di impedire l’esigenza del diritto di cassa d’infra e d’extra regno» (16).

Qualsiasi tentativo del funzionario sabaudo di insistere nella propria missione sarebbe stato considerato un attentato ai diritti di Filippo V e una aperta violazione del trattato di cessione. La lettera era firmata dal governatore don Amedeo Ansaldo; da Romualdo Porcelli e Placido Carafa giudici della Gran corte; dai baroni Andrea Porcelli e Silvestro Leva maestri razionali e Filippo Renda, conservatore e avvocato fiscale del Tribunale del Real patrimonio; da Francesco Maria Grana avvocato fiscale della Gran Corte, Raimondo Arezzo protonotaro, Giuseppe Zacco Ascenzo giudice della Corte d’appello, Giovanni Salemi capitano di giustizia; dai baroni Luigi Manenti, Erasmo Arezzo, Ignazio Rosso e Grimaldo Grimaldi, giudici giurati della città; dal barone Eduardo Zacco sindaco e dai giudici assessori Carlo Rizzone e Giulio Cinnirelli.

Il giorno dopo una lettera dello stesso tenore fu inviata al Di Lorenzo dal notaio Carlo Antonio Ficili procuratore fiscale del Tribunale del Patrimonio (17). Con una relazione del 2 agosto il Di Lorenzo informa i suoi superiori della protesta degli ufficiali modicani (18) sottolineando la difficoltà della sua missione di fronte all’ostruzionismo praticato dai suddetti, sobillati dal Narbona. Già qualche giorno prima il funzionario sabaudo si era sentito isolato e il 25 luglio aveva scritto al re: «Mandatemi un corriere da Noto per non potermi fidare delle persone di qui (...), priego di poter carcerare qualcuno, il più ripugnante. Io qui mi trovo meco 6 soldati della compagnia di Piazza non avendone fatto venire maggior numero, così per non essere più strepitosa sul principio la mia condotta»; gli era stato infatti ordinato di limitarsi ad assumere informazioni «senza strepito e senza carcerare alcuno».

Il 6 agosto il Di Lorenzo ricevette istruzioni dal consultore del regno Di Gregorio il quale lo invitava a proseguire «la sua commissione senza dimora alcuna a tenore degli ordini avuti, nonostante suppliche e proteste» (19).

Passa qualche settimana di relativa calma poi, il 19 agosto, gli ufficiali della Contea scrivono un’altra lettera nella quale respingono l’accusa di disubbidienza a Vittorio Amedeo e ribadiscono i propri obblighi nei confronti di Filippo V, la necessità dell’osservanza dei secolari privilegi della Contea e del trattato di cessione. Accusano il Di Lorenzo di aver manifestato apertamente l’intenzione di voler processare e catturare tutti gli autori della precedente lettera, chiedono la sospensione dell’ordine di carcerazione per il maestro razionale Porcelli e la revoca del commissario generale. Infine pregano il re piemontese di poter mantenere i diritti, le giurisdizioni, i privilegi e le autorità spettanti alla maestà cattolica e di poter disporre di una regola certa e finale sul governo della Contea (20).

Intanto il Di Lorenzo aveva intrapreso una azione sotterranea di logoramento del fronte avversario che ben presto avrebbe dato i primi frutti. Il 24 agosto due nobili modicani, il barone del Piombo Paolo La Réstia e il barone di Serravalle Giovanni Grimaldi Scalambro, scrivono al commissario generale Di Lorenzo una supplica con la quale si dissociano dalle «infami proteste e suppliche, e atti di ricorsi e gravami che [il governatore e gli altri ufficiali] hanno già fatto contro V.S. Ill.ma e S.E. il Viceré con implorare armi ausiliarie di Prencipi forestieri negando la sovranità e S.M. Re Vittorio Amedeo, tramando congiure e spingendo e sollevando diretta al Re Cattolico implorando le di lui armi e bracchio contro li ministri regii di questo regno e facendo altre sollevazioni e passi tanto lesivi a S.M. con aver già proibito di potersi fare il compleanno solito per l’anniversario del Re Nostro Signore per il suo dì natalizio (...) e con aversi palesemente manifestato che a chi afferma che il Re qui non è niente, essendo da V.S. Ill.ma carcerato, gli si donano sei tarì al giorno se è persona ordinaria, ed essendo persona buona maggior somma».

I due si dichiarano del tutto estranei alla congiura e proprio la volontà di fare il loro dovere di buoni vassalli li ha resi oggetto di persecuzione. Per questo chiedono protezione «dalle ingiustizie e dalle violenze che gli si apparecchiano» (21).

I due sostenitori del re sabaudo risultavano debitori del principe di Butera e temevano che gli ufficiali spingessero il principe ad esigere i suoi crediti per avere la possibilità, di fronte alla morosità dei due nobili, di incarcerarli. Il Di Lorenzo quindi si premurò affinché l’amministratore fiscale del regno Perlongo facesse ritirare spontaneamente dal principe di Butera le sue istanze nei confronti del Grimaldi e del La Réstia.

L’opera di repressione proseguiva e il Di Lorenzo poteva affermare soddisfatto che il barone di Donnafugata (‘cavaliere principale in Ragusa’) aveva rifiutato, insieme agli ecclesiastici e religiosi della città di Ragusa, di sottoscrivere la lettera degli ufficiali di Modica sottopostagli da Silvestro Leva e Filippo Renda. Anche i baroni Luigi Vassallo, Giacinto Lorefice, Romualdo e Francesco Lorefice padre e figlio, tra i principali esponenti della nobiltà modicana erano fedeli, insieme a tutto il popolo, al re sabaudo.

Il Di Lorenzo, insomma, era interessato ad attribuire un carattere elitario alla ‘congiura’, essendo questa limitata al ristretto gruppo di funzionari eletti da Filippo V (22); solo questi sostenevano le parti del Narbona mentre la nobiltà riconosceva la infondatezza delle pretese spagnole e si lamentava delle azioni degli ufficiali. La supplica era stata firmata da «pochissimi e questi soli ministri e altri che campano con gli uffici nel timore o di essere rimossi dal Narbona o di non venire promossi» (23)

Ma in realtà non era da sottovalutare il numero degli oppositori di Vittorio Amedeo (i firmatari delle lettere di protesta erano più di trenta); essi infatti rappresentavano alcune delle famiglie più cospicue della capitale della Contea: i Carafa, i Leva, i Renda, gli Ascenzo, gli Arezzo, i Rosso, i Montalbano, una parte della famiglia Grimaldi ecc. Inoltre con le loro proteste i ‘congiurati’ davano voce a un sentimento di ostilità al nuovo governo che era ampiamente diffuso nelle classi sociali medio-alte (non conosciamo in quale misura in quelle popolari).

Fra gli ecclesiastici avevano firmato, oltre a quelli citati, il Vicario foraneo e i padri superiori dei Teresiani e degli Agostiniani; il primo fu sostituito dall’abate Francesco Grimaldi, figlio del principe Grimaldi («che in queste pendenze si è portato da attento e fedele vassallo»), gli altri furono trasferiti.

Le indagini del commissario generale portarono inoltre alla incriminazione del sacerdote Platania, canonico della Real cappella del castello della Contea, come sostenitore del Narbona, decisamente avversario del governo sabaudo e ispiratore delle lettere di protesta, alcune delle quali scritte di suo pugno (24).

 

10. La vicenda era solo apparentemente conclusa; nell’ottobre dello stesso anno (1717) si decise, da entrambi le parti, di creare una Giunta di egual numero di deputati dell’una e dell’altra parte, per stabilire le signorie e giurisdizioni di Filippo V nella sua Contea e nei beni confiscati che manteneva in Sicilia. In realtà la Spagna si stava già preparando a riprendere con una azione di forza la Sicilia e quando questo avvenne, poco meno di un anno dopo, quegli stessi esponenti della nobiltà e della ‘borghesia’ modicana che avevano appoggiato le ‘pretese’ del Narbona avrebbero inviato aiuti e 500 soldati a difendere Augusta dall’esercito piemontese. Il tentativo di Filippo V fallì ma Vittorio Amedeo II, con la pace dell’Aja del 1720, dovette cedere la Sicilia (in cambio della Sardegna) a Carlo VI d’Asburgo. Questi avrebbe ben presto dovuto affrontare il problema dei privilegi e della autonomia degli istituti della Contea.

La contesa diplomatica tra Spagna e Piemonte e le controversie sorte tra i funzionari del governo sabaudo, da una parte, e gli ufficiali della contea di Modica, dall’altra, dimostrano il particolare rilievo di quest’ultima nelle vicende politiche siciliane dei primi decenni del Settecento che, attraverso una serie di conflitti militari e diplomatici, avrebbero portato ad uno sconvolgimento dei precedenti equilibri europei.

Le continue rivendicazioni di una cospicua parte delle élites modicane nei confronti del governo sabaudo affondavano le proprie radici nella autonomia di cui la Contea aveva goduto per secoli. Le stesse cariche ricoperte dai firmatari delle lettere di protesta indirizzate al re Vittorio Amedeo II dimostrano l’ampiezza dei poteri giurisdizionali degli ufficiali modicani, consapevoli e della particolarità dei propri ‘uffici’ e della peculiarità dello status politico e giuridico della Contea di Modica.

 

 

 

NOTE

 

* Il presente saggio è il nucleo di un’ampia monografia di prossima pubblicazione, di Giancarlo Poidomani, sullo stesso periodo. L’Autore esamina, a seguito di ricerche direttamente effettuate presso l’Archivio di Stato di Torino, una polemica rivendicazione di Persone rappresentative della Contea durante il periodo di dominio sabaudo in Sicilia.

Va qui rapidamente evidenziato come, nonostante alcune tensioni, la parentesi di quasi sedici anni di rapporto diretto di Modica con i sovrani di Spagna (1713-20) e di Austria (1720-29) - in conseguenza del governo piemontese, prima, e austriaco, dopo, nell’Isola - sarà ininfluente, di fatto, quanto a modifiche o riduzioni di autonomia e dell’assetto istituzionale della Contea. In quegli anni, inoltre, intensa è l’attività culturale (livello universitario del Collegio, Scuola medica, studi di botanica, salotto letterario di Girolama Grimaldi, Tommaso Campailla...). Si avvia la ricostruzione post-terremoto e si elabora l’imminente esplosione edificatoria.

Modica viene pienamente ripristinata nel suo status comitale da Carlo VI d’Austria che la riconcede a Pasquale Enriquez de Cabrera, nipote di Giovanni Tommaso, il 15 febbraio 1729. (Nota d. C.).

 

** (Modica, 1969). E’ laureato in Lettere moderne - indirizzo storico-artistico - presso l’Università di Catania con una tesi su Economia e società a Modica nell’Ottocento: Il catasto borbonico, relatore il prof. Nino Recupero. Sta svolgendo una ricerca sugli ordini religiosi siciliani al tempo dell’inchiesta innocenziana del 1650 per la tesi di dottorato di ricerca in Storia economica dell’Istituto universitario navale di Napoli (coord. prof. Luigi De Rosa).

Ha pubblicato: Il primo ceto politico locale repubblicano a Modica, in Archivum Historicum Mothycense n. 1, 1995; un saggio su Le elezioni del 1946 a Modica, C.u.e.c.m. Catania, 1995 (Prefazione del prof. N. Recupero); ha tenuto una comunicazione sullo stesso argomento nel Convegno su La Provincia Iblea nell’Italia repubblicana 23-24 novembre 1995, pubblicata negli Atti del convegno, Centro studi “F. Rossitto”, Ragusa 1996.

Ha inoltre pubblicato: Il catasto borbonico a Modica nel 1846: una analisi, Annali del Centro studi “F. Rossitto”, n° 5, Ragusa 1996.

 

*** Pare che il motivo per cui il conte Giovanni Tommaso, già viceré di Catalogna e governatore di Milano, voltò le spalle, nonostante le prevedibili gravissime conseguenze personali e patrimoniali, a Filippo V, consistesse, oltre che nel probabile non apprezzamento del ruolo di ambasciatore conferitogli nonché del connesso allontanamento dalla corte madrilena, nell’implacabile risentimento per il re, che aveva dichiarato i Grandi di Spagna uguali in tutto ai Pari di Francia (cfr. R. Solarino, La Contea di Modica, ristampa U.P. Ragusa, 1973, vol. 2°, pag. 181).

Non va infatti trascurato il fatto che i Conti di Modica erano i veri ‘Pari’ del re di Spagna (con tutto ciò che questo aveva implicato lungo i secoli, non soltanto in termini di estrinseche onorificenze, bensì anche di sostanziali ed alti compiti assolti con e per la Corona), ed i loro titoli erano i più prestigiosi del Regno. (N.d.C.)

 

(1) La Lumia I., La Sicilia sotto Vittorio Amedeo di Savoia, Livorno 1877, p. 24. Cfr. anche Stellardi V.E., Il regno di Vittorio Amedeo II in Sicilia, Torino 1866; Carutti D., Storia del regno di Vittorio Amedeo 11, Firenze 1863.

Archivio di Stato di Torino (A.S.T.), Fondo: Paesi; Serie: Sicilia, Registro delle Lettere della Corte: «Las dignidades, rentas, titulos, señorias y otros vienes que en aquel Reyno han sido confiscados al Almirante de Castilla (...) que, por haver faltado al juramento de fidelidad, é yucurrido en el delito de felonia, y traiciòn, ayan de quedar bajo de mi mano, como lo estàn oy, y con lo mismos Ministros o los que me pareciere poner, y que ahora, o en adelante pueda venderlos, darlos, cederlos, oconcederlos a las personas que me pareciere, y por biene tuviere, y que siempre que lo execute, hayan de ser puestos en la posesion quieta, y pacifica de ellos, y los ayan de tener, y gozar con las condiciones que yo les impusiere».

(2) Revelli P., Il Comune di Modica, Palermo 1904, p. 88.

(3) Garufi C.A., Rapporti diplomatici tra Filippo V e Vittorio Amedeo II di Savoia, Palermo 1914, pp. XIII-XIV.

(4) A.S.T., cit., Inventario I, Catagoria I, Mazzo 2, Fascicolo 54, Parere dell’avvocato Zoppi sopra il Contado di Modica.

(4 bis) Il ‘privilegio’ - ossia, propriamente, l’esenzione da gabelle e tasse, oltre a concessioni di fiere franche, all’ordinamento giurisdizionale, ecc. - non va inteso sempre nell’accezione negativa attuale. Infatti le agevolazioni fiscali ed eccezioni non erano destinate esclusivamente ai ‘gentiluomini’ (aristocrazia, importanti funzionari ...), bensì anche, ad esempio, ad artigiani, a schiavi liberati dai Mori, a forestieri residenti nella Contea, a famiglie numerose, a poveri ed ammalati particolarmente segnalati. (cfr. G. Raniolo, Introduzione alle consuetudini ed Istituti della Contea di Modica, Ed. Ass. Cult. Dialogo, 1987, vol. 2°, pagg. 13-77).

I piemontesi, che ovviamente non avevano memoria storica dell’atipicità della Contea di Modica e che si muovevano piuttosto secondo schematici e teorici criteri giuridici, non intendevano (né, del resto, erano interessati a farlo) che i plurisecolari privilegi e concessioni erano strutturali dell’assetto organizzativo, largamente autonomo della Città e delle Terre della Contea, anzi della coscienza collettiva e del vissuto stesso degli abitanti, al di là del pur costante riferimento ai dati storici fondanti ed allo status istituzionale ‘comitale’. (Cfr. anche par. 5 del presente saggio).

Peraltro, anche nell’‘800 - dopo la fine giuridica della Contea - , pur certamente con atteggiamento e convinzioni dei maggiorenti della Città e della popolazione profondamente diversi a seguito dell’emergere della coscienza nazionale (non già di ‘patria’ italiana, che era da sempre familiare), permarrà viva la consapevolezza del ruolo amministrativo-politico della Città e del suo assetto istituzionale (giudiziario, scolastico ...) oltre che di quello patrimoniale (conflitti col demanio statale). (N.d.C.).

(5) 1) Governo politico e giustizia; 2) Finanze e governo economico; 3) Materie militari; 4) Materie ecclesiastiche; 5) Commercio; 6) Miscellanea; 7) e 8) Regni di Napoli, Sardegna e Malta.

 

(6) 1) Patrimonio e finanze; 2) Governo politico, giustizia e Parlamento; 3) Cancelleria e patenti; 4) Monarchia, Atti della Real Giunta, Memorie del Consiglio di Sicilia e di Sardegna; 5) Materie ecclesiastiche; 6) Bastimenti e Marina; 7) Cerimoniale; 8) Artiglieria; 9) Contado di Modica; 10) Lettere originali; 11) Lettere; 12) Registri di copie delle lettere della Segreteria Reale di Palermo.

(7) A.S.T., cit., Inv. 1, Cat. 1, Mazzo 2, fasc. 54, Scritti nel quale si prova che il Contado resti escluso dalla successione del Marchese d’Alcagnises e sulla cassa d’extra regno; Cat. II, Mazzo 4, fasc. 41, Progetto per l’acquisto del Contado di Modica; Cat. II, Mazzo 6, fasc. 7-8, Narbona e i beni confiscati.

(8) Vittorio Amedeo aveva costituito un Consiglio di Sicilia che, coadiuvato dal Consiglio dei ministri di Torino, trattava gli affari del Regno e, in particolare, aveva il compito di contrastare e di ridimensionare le continue ‘pretensioni’ degli amministratori spagnoli (appoggiati dalla Giunta di Spagna) dei possedimenti riservatisi da Filippo V in Sicilia.

(9) A.S.T., cit., Inv. II, Cat. I, Mazzo 1, fasc. 3, Ristretto delle pretensioni eccitate da don Diego Merino de Roxas e da don Gaspare Narbona successivamente amministratori per S.M. Cattolica del Contado di Modica nel Regno di Sicilia. Filippo V aveva nominato un amministratore e una Giunta a Palermo per dirimere le controversie giuridiche relative ai beni sequestrati per fellonia.

(10) Ibidem.

(11) A.S.T., cit., Mazzo 2, fasc. 12, «Le regalie del Porto, Portulania e diritti che da loro discendono sono talmente attaccate alla Persona del Principe che se dal medesimo si concede l’esenzione a qualsivoglia Persona di tutti i diritti competenti allo Stesso, non si comprenderebbero le ragioni di Tratta ed Esitura, per descendere dalla suddetta Regalia, che si stima delle maggiori» (cioè non ci sarebbe stato bisogno di una concessione ad hoc per l’estrazione delle 12.000 salme annue di frumento).

(12) La Lumia, op. cit, p. 110.

(13) A.S.T., cit., Mazzo 3, fasc. 18.

(14) Andrea Porcelli era stato incaricato dal Narbona di fabbricare processi criminali contro don Andrea Morelli, capitano d’armi della Contea nominato da Vittorio Amedeo.

(15) Nominato dagli spagnoli, fu riconfermato fino al 1720 dal governo sabaudo. Gli era stata concessa dalla Regia Gran Corte anche la potestà di procedere ex abrupto nelle cause criminali. I piemontesi tenevano a sottolineare il carattere di ‘concessione’ di quella che era considerata una suprema e privativa regalìa del Principe, non essendo  - secondo loro - sufficiente il conferimento del ‘mero e misto imperio’ (A.S.T., cit., Mazzo 2, fasc. 15). Per i poteri giurisdizionali dei Conti di Modica, cfr. Modica Scala G., I tribunali della Contea di Modica, in Archivum Historicum Mothicense n° 2, Modica 1996.

(16) A.S.T., cit., Mazzo 3, fasc. 18.

(17) Nei giorni seguenti altri maggiorenti locali sottoscrissero la lettera di protesta. Tra questi: Giusepe Montalbano protomedico, Didaco Alonzo razionale del patrimonio, Andrea Di Martino procuratore fiscale della Gran Corte, Ippolito d’Amico arcidiacono, Pietro Blandino subdiacono, Giuseppe Avola chierico e i notai Erasmo Eredia e Ignazio Bandino.

(18) A.S.T., cit., fasc. 18, «Dal tenore e della protesta fatta a me e della consulta che da essi drizza a V.E., essendo e l’una e l’altra formata con soverchiosa libertà, comprenderà la sublime intelligenza di V.E. che vogliono ostentare una quasi totale indipendenza dal governo».

(19) Ibidem.

(20) A S.T., cit., fasc. 20.

(21) Ibidem.

(22) Scrive il Di Lorenzo: «Mi sono informato e ho saputo che don Andrea Porcelli maestro razionale continua in tal posto colla patente speditagli in questo regno in tempo del governo passato; don Silvestro Leva pur maestro razionale si trova patentato da Filippo V e il conservatore e avvocato fiscale don Filippo Renda esercita l’officio in virtù di una lettera del Segretario di Spagna Grimaldi»; A.S.T., cit., fasc. 24.

(23) Ibidem.

(24) Così scrive il Di Lorenzo del Platania: «Il cervello torbido di questo prete e la sua stretta amicizia con il Narbona diedero luogo a credersi che potesse aver parte nei torbidi procedimenti del medesimo, sicché si stimò opportuno di farlo carcerare e di procedere a un diligente esame delle sue scritture fra le quali si ritrovarono scritte di proprio carattere le minute di due consulte che dagli officiali del contado dovevano mandarsi a Vostra Maestà». (A.S.T., cit., fasc. 24).