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Storia
di una quérelle politico-diplomatica. la Contea di Modica nel periodo del
governo sabaudo in Sicilia (1713-1720)*
di Giancarlo
Poidomani**
1. La morte, nel
1700, del re di Spagna Carlo II, fu all’origine di un conflitto che avrebbe
coinvolto le principali potenze europee e ridisegnato, con le successive paci
di Utrecht e di Rastadt, l’assetto geopolitico continentale.
Già da qualche anno,
prevedendo l’estinzione degli Asburgo di Spagna con la morte di Carlo (privo di
figli e di salute malferma), le potenze europee avevano avviato delle
trattative per una spartizione dell’eredità spagnola.
In linea diretta il
trono sarebbe toccato alla sorella maggiore, Maria Teresa, moglie del re di
Francia Luigi XIV. Ma, al momento del matrimonio, questa aveva rinunciato ai
suoi diritti e in compenso Luigi XIV aveva ottenuto la promessa di un cospicuo
indennizzo in denaro (mai pagato).
L’eventualità che
l’impero spagnolo passasse sotto il controllo della monarchia francese era
naturalmente temuta e avversata da tutti gli Stati europei che avevano appena
finito di combattere contro le mire espansionistiche di Luigi.
D’altra parte il
trono sarebbe potuto toccare anche al ramo austriaco degli Asburgo:
l’imperatore Leopoldo, infatti, aveva sposato un’altra sorella di Carlo II e
per la successione spagnola sosteneva la candidatura del proprio figlio Carlo.
Quando, dopo la morte
del sovrano, fu reso pubblico il testamento che dichiarava erede universale
Filippo di Borbone, nipote di Luigi XIV, questi abbandonò le trattative e
spinse il nipote ad assumere la corona con il titolo di Filippo V di Spagna.
Il timore della
nascita di una grandissima potenza franco-spagnola diede origine ad una
alleanza fra Inghilterra, Austria, Olanda e Prussia. Il fronte avversario
costituito da Francia, Spagna e Piemonte ben presto si indebolì per la
defezione del duca sabaudo Vittorio Amedeo II - che, sperando di ottenere
maggiori compensi territoriali passò dalla parte dell’imperatore - e del
Portogallo che consegnò alla marina inglese i propri porti e scali commerciali
in tutto il mondo.
La guerra per la
successione spagnola durò dal 1702 al 1713. I Borboni vennero attaccati su
tutti i fronti: i domini spagnoli in Italia (stato di Milano e Regno di Napoli)
furono occupati dagli austriaci; gli inglesi occuparono la Sardegna, le Baleari
e Gibilterra, assumendo così il controllo del passaggio tra Atlantico e
Mediterraneo. Le trattative di pace durarono dal 1712 al 1714 e si conclusero
con una serie di trattati firmati a Utrecht (1713) e a Rastadt (1714).
Filippo V mantenne il
trono di Spagna e l’impero coloniale; il pretendente austriaco, Carlo
d’Asburgo, divenuto nel frattempo imperatore d’Austria con il nome di Carlo VI,
ottenne la maggior parte dei possessi spagnoli in Italia (Milano, Regno di
Napoli e Sardegna). Il Monferrato e il Regno di Sicilia andarono ai Savoia i
quali, in tal modo, acquisirono il titolo regale.
2. Fu a partire da
questo momento che la contea di Modica venne
a trovarsi al centro di una complessa vicenda politico diplomatica. Per cinque
anni, dal 1713 al 1718, sarebbe stata una vera e propria spina nel fianco del
governo sabaudo in Sicilia.
Nel 1702 Filippo V
aveva inviato Giovanni Tommaso Enriquez-Cabrera, almirante di Castiglia e conte
di Modica, come primo ambasciatore presso la corte francese. Ma l’Almirante,
recatosi in Portogallo presso i fautori del granduca d’Austria, si schierò
apertamente per il pretendente asburgico***. Accusato di fellonia e tradimento,
fu condannato a morte in contumacia e gli furono confiscati tutti i beni,
cosicché anche la contea di Modica fu incorporata al demanio regio.
Quando Filippo V, con
l’articolo quinto del trattato di Utrecht, cedette la Sicilia ad Amedeo di
Savoia, fece introdurre una clausola (articolo X) secondo la quale «tutte le dignità, le rendite, signorie e
sostanze di ogni genere che si trovassero confiscate in Sicilia all’almirante
di Castiglia, al duca di Monteleone, al contestabile Colonna, al Principe di
Bisignano ed altri personaggi laici incorsi nel delitto di fellonia, avendo
seguito la causa dell’arciduca Carlo, dovessero rimanere a libito di Sua Maestà
Cattolica, in mano degli stessi ufficiali che le amministravano attualmente e
per farsene l’uso che più alla S.M.C. sembrasse opportuno» (1) .
Si venne a creare
così la strana situazione dell’esistenza di un feudo del re di Spagna nel regno
di Vittorio Amedeo. Filippo V poteva essere considerato (e questo avvenne
effettivamente) come un barone spagnolo soggetto al re sabaudo (2).
Era chiaro che i beni
confiscati in Sicilia, che costituivano la decima parte dell’Isola,
rappresentavano per Filippo V una base per una futura ed eventuale riconquista.
Secondo lo storico Garufi, Vittorio Amedeo non «era certamente uomo cui potesse sfuggire il fine ultimo delle nuove
pretese; ma egli stesso riteneva ‘che il miglior partito fosse di dissimulare
il torto che riceveva; poiché nell’acquisto dei regni nulla è più difficile
della prima salita e, superata questa, tutto cede» (3).
In realtà, nel corso dei
quattro anni e nove mesi di dominio sabaudo in Sicilia, Amedeo avrebbe avuto
modo di rimpiangere amaramente l’accettazione di quella clausola. Questa
infatti pose le premesse per una disputa snervante e logorante sulla Contea tra
gli amministratori dei beni di Filippo V e i funzionari sabaudi.
Una disputa fomentata
da continue pretese, rivendicazioni, reclami e condanne di ingerenza dei
ministri sabaudi negli affari interni dei possedimenti confiscati, da parte
degli amministratori spagnoli.
La Contea insomma
divenne una vera e propria enclave spagnola
nella Sicilia piemontese, fonte di preoccupazioni e di timori per eventuali
complotti e congiure contro il governo sabaudo.
Ben presto i ministri
sabaudi sospettarono che Filippo tramasse per restituire la Contea al marchese
di Alcagnizes, suddito spagnolo e nipote dell’almirante di Castiglia, il quale
avrebbe potuto rivendicarne il possesso pieno in base all’investitura del re
Martino a Bernardo Cabrera.
Infatti, secondo il
parere degli avvocati di Vittorio Amedeo, Filippo V non poteva pretendere
personalmente i privilegi e il potere goduti dai conti poiché, «se il delitto dl fellonia aveva comportato
l’annessione della contea al regio demanio, non esisteva più feudo né i diritti
connessi ad esso» (4).
Nell’azione di
disturbo e nelle continue rimostranze nei confronti del governo piemontese, gli
amministratori di Filippo V ebbero man forte da parte della nobiltà e delle
famiglie più potenti della Contea, della quale l’assolutismo e il centralismo
sabaudi tentavano di mettere in discussione privilegi e autonomie, godute per
secoli (4bis). E, quando nel 1718 la Spagna, per iniziativa del cardinale
Alberoni, tentò di sottrarre la Sicilia a Vittorio Amedeo con una azione
militare, molti nobili e patrizi modicani parteciparono attivamente all’impresa
mandando aiuti di ogni genere (vettovaglie, cavalli ecc.).
3. I documenti
dell’Archivio di Stato di Torino riguardanti il Regno di Sicilia sono divisi in
due Inventari: il primo è composto di 8 Categorie (5), il secondo di 12 (6). Di
queste ultime, una (la IX) è interamente dedicata alla contea di Modica a
riprova del particolare ruolo che questa parte della Sicilia sud orientale
giocò nei pochi anni del governo sabaudo. La categoria risulta costituita da
tre mazzi per un totale di 35 fascicoli. Altri 4 fascicoli riguardanti la
Contea si trovano nel mazzo n° 2 della I Categoria e nei mazzi n° 4 e 6 della
II Categoria del I Inventario (7).
Questi documenti
trattano quasi per intero proprio dei problemi originati dalla gestione
politica e amministrativa della Contea, delle varie pretese degli
amministratori spagnoli, dell’insofferenza delle élites locali nei confronti
dei ministri piemontesi e infine dei vari tentativi di questi ultimi di imporre
la propria autorità.
4. A dimostrazione
del fatto che la clausola X fatta inserire nell’articolo V del trattato di
Utrecht da Filippo V avrebbe ben presto creato incomprensioni e problemi di
interpretazione tra la Spagna e il governo sabaudo, il primo fascicolo del
primo Mazzo della IX Categoria è intitolato ‘Vero
senso dell’articolo X del trattato di cessione della Sicilia’.
In realtà non
esisteva un unico vero senso dell’articolo ma due diverse interpretazioni, della giunta di Spagna da una parte e
dei ministri sabaudi dall’altra (8). Gli spagnoli ritenevano che a Filippo V
spettassero «tutta la giurisdizione e
tutti i privileggi fiscali concernenti il Patrimonio di detti Stati e beni
confiscati»; Vittorio Amedeo rispondeva che «il Re di Sicilia ha la giurisdizione suprema et il diretto dominio in
ordine al Vassallaggio ed il Re di Spagna la giurisdizione suprema e senza
appellazione rispetto solamente all ‘economico de’ Stati e beni riservati et
alle attioni che si ponno promuovere contro detti beni» (9).
Naturalmente questi
due differenti modi di interpretare i poteri del re di Spagna sui beni
siciliani avrebbero determinato continue frizioni e malumori tra i funzionari
di una parte e quelli dell’altra, amplificando il malumore già serpeggiante tra
i maggiorenti della Contea per il tentativo del re sabaudo di introdurre
nell’Isola un regime fiscale centralizzato e più moderno, privo di esenzioni e
privilegi.
5. Una delle
principali cause di conflitto e di scontri diplomatici fu rappresentato dai
diritti doganali sulle merci esportate dalla contea di Modica e da altri ‘scari’ (porti) di proprietà del re
Cattolico (10).
Il procuratore
generale di Filippo V in Sicilia, don Gaspare Narbona, pretendeva che il
diritto di cassa (imposta) per le importazioni e le esportazioni delle merci
dalla contea di Modica ‘per dentro e
fuori il Regno’ si dovesse corrispondere agli arrendatari
(amministratori-esattori) della Contea e non alla corte piemontese. Come prova
adduceva il possesso legittimo di tale diritto sin dalla concessione fatta dal
re Martino nel 1392 all’almirante di Castiglia Bernardo Cabrera, riconfermata
dal re Alfonso nel 1457.
Il Consiglio di
Sicilia, i ministri e il consultore del vicerè, conte di Robilant, negarono con
forza la fondatezza di tale pretesa affermando che il diritto di cassa d’extra regno spettava
incontrovertibilmente alla regia corte per il semplice fatto che esso era stato
imposto nel 1562 dal Parlamento (quindi due secoli dopo l’infeudazione della
Contea) per dieci anni ed era stato in seguito prorogato di decennio in
decennio fino al 1636, anno in cui era stato reso perpetuo.
Alla Contea spettava
- essi sostenevano - soltanto il diritto di cassa d’infra regno, e per giunta solo per la vendita di beni stabili (a
ragione di tari 1 per ogni onza del prezzo del bene) e non per le merci. Il
consultore coglieva l’occasione per segnalare la ‘prepotenza’ dei conti di Modica che, senza alcun titolo, avevano
fino ad allora percepito i proventi di tali diritti.
I piemontesi,
insomma, non avrebbero potuto in nessun modo riconoscere al conte di Modica (e
cioè a Filippo V) il diritto di cassa d’extra
regno poiché si trattava di una regalìa troppo importante e tale da
diminuire eccessivamente l’autorità regia per potere essere dedotta da clausole
vaghe; secondo loro, lo stesso re Martino non aveva affatto abdicato alle sue
prerogative regie (11). Il fatto stesso che, nell’atto di concessione del feudo
a Bernardo Cabrera, Martino avesse permesso al conte il privilegio di estrarre
(cioè di esportare fuori dai confini della Contea, senza pagamento di dogana)
‘soltanto’ 12.000 salme di frumento (‘tantum’
tractas duodecim mille), provava che veniva esclusa qualsiasi altra
estrazione.
Ma il Narbona non
aveva alcuna intenzione di desistere. Era evidente che il compito affidatogli
dal re di Spagna era quello di creare continuamente difficoltà al governo
sabaudo, avanzando richieste e pretese - a volte infondate a volte corroborate
da consuetudini secolari, da privilegi e da concessioni ormai acquisite nel
corso del lungo dominio spagnolo nell’Isola - , agendo da plenipotenziario del
re cattolico in Sicilia e ponendosi come vero e unico referente per i
funzionari della contea di Modica e degli altri possedimenti che Filippo V si
era riservato con la clausola X dell’articolo V del trattato di Utrecht.
L’intento del re spagnolo era quello «di
avere uno stato nello stato e di avere non solo un piede nel suo ex regno ma un
vero e proprio dominio indipendente» (12).
6. Nel giugno del
1717 (si avvicinava la resa dei conti) il Narbona ordinò agli ufficiali della
Contea di esigere e fare esigere il diritto di cassa d’extra e d’infra regno per
conto di Sua Maestà Cattolica («per
spettare il medesimo al Patrimonio di Modica»). Per vigilare sui
contrabbandi, sulle esportazioni e importazioni delle merci soggette a tale
diritto predispose inoltre l’elezione di tre soprastanti: uno per lo scaro di Scoglitti, uno per quello di
Mazzarelli e l’altro per quello di Pozzallo. Ognuno di essi avrebbe avuto a
disposizione dei soldati a cavallo per sequestrare tutte le navi e le
imbarcazioni sorprese a trasportare merci senza l’autorizzazione dei
corrispettivi ‘depositari’ («quali eligerete per li suddetti introiti
che siino ben stanti e ben visti a cotesto Patrimonio»).
Per fugare dubbi o
eventuali timori degli ufficiali di Modica (che invero erano felicissimi degli
ordini del Narbona), richiamandosi alla X clausola dell’atto di cessione il
procuratore generale di Filippo V sottolineava che i ministri e i tribunali del
regno sabaudo non potevano intromettersi negli affari che riguardavano il
diritto di cassa e che sarebbero stati considerati veri e propri attentati, e
quindi dichiarati ‘cassi, irriti e nulli’,
i divieti del Real patrimonio diretti agli ufficiali della Contea sull’esigenza
del riferito diritto di cassa e le nomine di nuovi ufficiali (13).
Di fronte a una
simile provocazione si ebbe un vero e proprio giro di vite dell’amministrazione
sabauda contro i funzionari del re spagnolo operanti in Sicilia. Il regio
Secreto di Noto, barone don Giovanni Di Lorenzo, fu immediatamente spedito a
Modica in qualità di commissario generale del re sabaudo con la patente di
capitano d’armi straordinario per «riparare
l’attentato compiuto dal Narbona alla Regia giurisdizione». Il Di Lorenzo
avrebbe dovuto raccogliere informazioni contro le persone coinvolte,
incarcerando quegli ufficiali che avevano eseguito gli ordini del Narbona e, in
particolare, i collettori preposti all’esigenza del diritto di cassa. Nel caso
in cui qualcuno dei regi collettori, eletti dal Real patrimonio del regno per
la riscossione del diritto di cassa d’extra
regno, si fosse dimesso per intimazioni o minacce ricevute dagli ufficiali
di Modica, il commissario generale lo avrebbe prontamente ristabilito nelle
proprie funzioni. Consapevole dei rischi che il Di Lorenzo avrebbe potuto
correre in un territorio ancora fortemente controllato dagli spagnoli, il
vicerè gli assegnò una scorta di 24 soldati. Al capitano di giustizia di
Vittoria don Andrea Porcelli, reo di aver disubbidito agli ordini di Vittorio
Amedeo I1, fu ingiunto di presentarsi carcerato a Messina (14).
Al Di Lorenzo venne
inoltre concessa la facoltà di incarcerare il governatore di Modica don Amedeo
Ansaldo (15), nel caso in cui questi avesse ostacolato la sua azione. Gli
attentati del Narbona alla sovranità di Vittorio Amedeo II nella contea di
Modica venivano così sintetizzati nelle istruzioni al commissario generale: «Inoltrandosi in recar pregiudizi alla
suprema giurisdizione dei magistrati di questo regno, tentando or con industrie
or con insinuazioni di imprimere negli animi degli ufficiali del contado di
Modica e di quei vassalli del re nostro signore non solamente un raffreddamento
nella dovuta e naturale rassegnazione, ma pure una positiva disubbidienza agli
ordini e disposizioni dei supremi magistrati (...) Proponendo nascostamente
tutti gli impedimenti per non far comparire i loro ricorsi (...) Può in codesti
aver avuto luogo una moderata dissimulazione». L’azione di provocazione e
di disturbo dell’agente di Filippo V era stata scoperta e da quel momento i
funzionari del governo sabaudo avrebbero aumentato la pressione e il controllo
sugli atti degli ufficiali della Contea, considerando un vero e proprio atto di
ribellione una lettera di supplica scritta da un buon numero di essi.
8. Il primo di agosto
del 1717, infatti, gli ufficiali della Contea inviarono al barone Di Lorenzo
una lettera nella quale rilevavano che la ‘patente’,
con la quale questi era stato inviato nella Contea come commissario generale
del re Vittorio Amedeo, ledeva non solo i diritti e i privilegi della Contea ma
la stessa clausola X del trattato di cessione. Inoltre, forti degli ‘ordini’
ricevuti dal Narbona, «intimavano
giudizialmente» al suddetto Di Lorenzo di non ingerirsi nelle materie
giurisdizionali, di non interessarsi delle cause civili e criminali, «né del Patrimonio dell’Università e dei
diritti del re Cattolico, sue regalie, real azienda, né altro e specialmente si
astenesse dal perturbare, e sotto qualsivoglia pretesto, di impedire l’esigenza
del diritto di cassa d’infra e d’extra regno» (16).
Qualsiasi tentativo
del funzionario sabaudo di insistere nella propria missione sarebbe stato
considerato un attentato ai diritti di Filippo V e una aperta violazione del
trattato di cessione. La lettera era firmata dal governatore don Amedeo
Ansaldo; da Romualdo Porcelli e Placido Carafa giudici della Gran corte; dai
baroni Andrea Porcelli e Silvestro Leva maestri razionali e Filippo Renda,
conservatore e avvocato fiscale del Tribunale del Real patrimonio; da Francesco
Maria Grana avvocato fiscale della Gran Corte, Raimondo Arezzo protonotaro,
Giuseppe Zacco Ascenzo giudice della Corte d’appello, Giovanni Salemi capitano
di giustizia; dai baroni Luigi Manenti, Erasmo Arezzo, Ignazio Rosso e Grimaldo
Grimaldi, giudici giurati della città; dal barone Eduardo Zacco sindaco e dai
giudici assessori Carlo Rizzone e Giulio Cinnirelli.
Il giorno dopo una
lettera dello stesso tenore fu inviata al Di Lorenzo dal notaio Carlo Antonio
Ficili procuratore fiscale del Tribunale del Patrimonio (17). Con una relazione
del 2 agosto il Di Lorenzo informa i suoi superiori della protesta degli
ufficiali modicani (18) sottolineando la difficoltà della sua missione di
fronte all’ostruzionismo praticato dai suddetti, sobillati dal Narbona. Già
qualche giorno prima il funzionario sabaudo si era sentito isolato e il 25
luglio aveva scritto al re: «Mandatemi un
corriere da Noto per non potermi fidare delle persone di qui (...), priego di poter
carcerare qualcuno, il più ripugnante. Io qui mi trovo meco 6 soldati della
compagnia di Piazza non avendone fatto venire maggior numero, così per non
essere più strepitosa sul principio la mia condotta»; gli era stato infatti
ordinato di limitarsi ad assumere informazioni «senza strepito e senza carcerare alcuno».
Il 6 agosto il Di
Lorenzo ricevette istruzioni dal consultore del regno Di Gregorio il quale lo
invitava a proseguire «la sua commissione
senza dimora alcuna a tenore degli ordini avuti, nonostante suppliche e
proteste» (19).
Passa qualche
settimana di relativa calma poi, il 19 agosto, gli ufficiali della Contea
scrivono un’altra lettera nella quale respingono l’accusa di disubbidienza a
Vittorio Amedeo e ribadiscono i propri obblighi nei confronti di Filippo V, la
necessità dell’osservanza dei secolari privilegi della Contea e del trattato di
cessione. Accusano il Di Lorenzo di aver manifestato apertamente l’intenzione
di voler processare e catturare tutti gli autori della precedente lettera,
chiedono la sospensione dell’ordine di carcerazione per il maestro razionale
Porcelli e la revoca del commissario generale. Infine pregano il re piemontese
di poter mantenere i diritti, le giurisdizioni, i privilegi e le autorità
spettanti alla maestà cattolica e di poter disporre di una regola certa e
finale sul governo della Contea (20).
Intanto il Di Lorenzo
aveva intrapreso una azione sotterranea di logoramento del fronte avversario
che ben presto avrebbe dato i primi frutti. Il 24 agosto due nobili modicani,
il barone del Piombo Paolo La Réstia e il barone di Serravalle Giovanni
Grimaldi Scalambro, scrivono al commissario generale Di Lorenzo una supplica
con la quale si dissociano dalle «infami
proteste e suppliche, e atti di ricorsi e gravami che [il governatore e gli
altri ufficiali] hanno già fatto contro V.S. Ill.ma e S.E. il Viceré con
implorare armi ausiliarie di Prencipi forestieri negando la sovranità e S.M. Re
Vittorio Amedeo, tramando congiure e spingendo e sollevando diretta al Re
Cattolico implorando le di lui armi e bracchio contro li ministri regii di
questo regno e facendo altre sollevazioni e passi tanto lesivi a S.M. con aver
già proibito di potersi fare il compleanno solito per l’anniversario del Re
Nostro Signore per il suo dì natalizio (...) e con aversi palesemente
manifestato che a chi afferma che il Re qui non è niente, essendo da V.S.
Ill.ma carcerato, gli si donano sei tarì al giorno se è persona ordinaria, ed
essendo persona buona maggior somma».
I due si dichiarano
del tutto estranei alla congiura e proprio la volontà di fare il loro dovere di
buoni vassalli li ha resi oggetto di persecuzione. Per questo chiedono
protezione «dalle ingiustizie e dalle
violenze che gli si apparecchiano» (21).
I due sostenitori del
re sabaudo risultavano debitori del principe di Butera e temevano che gli
ufficiali spingessero il principe ad esigere i suoi crediti per avere la
possibilità, di fronte alla morosità dei due nobili, di incarcerarli. Il Di
Lorenzo quindi si premurò affinché l’amministratore fiscale del regno Perlongo
facesse ritirare spontaneamente dal principe di Butera le sue istanze nei
confronti del Grimaldi e del La Réstia.
L’opera di
repressione proseguiva e il Di Lorenzo poteva affermare soddisfatto che il
barone di Donnafugata (‘cavaliere
principale in Ragusa’) aveva rifiutato, insieme agli ecclesiastici e
religiosi della città di Ragusa, di sottoscrivere la lettera degli ufficiali di
Modica sottopostagli da Silvestro Leva e Filippo Renda. Anche i baroni Luigi
Vassallo, Giacinto Lorefice, Romualdo e Francesco Lorefice padre e figlio, tra
i principali esponenti della nobiltà modicana erano fedeli, insieme a tutto il
popolo, al re sabaudo.
Il Di Lorenzo,
insomma, era interessato ad attribuire un carattere elitario alla ‘congiura’, essendo questa limitata al
ristretto gruppo di funzionari eletti da Filippo V (22); solo questi
sostenevano le parti del Narbona mentre la nobiltà riconosceva la infondatezza
delle pretese spagnole e si lamentava delle azioni degli ufficiali. La supplica
era stata firmata da «pochissimi e questi
soli ministri e altri che campano con gli uffici nel timore o di essere rimossi
dal Narbona o di non venire promossi» (23)
Ma in realtà non era
da sottovalutare il numero degli oppositori di Vittorio Amedeo (i firmatari
delle lettere di protesta erano più di trenta); essi infatti rappresentavano
alcune delle famiglie più cospicue della capitale della Contea: i Carafa, i
Leva, i Renda, gli Ascenzo, gli Arezzo, i Rosso, i Montalbano, una parte della
famiglia Grimaldi ecc. Inoltre con le loro proteste i ‘congiurati’ davano voce a un sentimento di ostilità al nuovo
governo che era ampiamente diffuso nelle classi sociali medio-alte (non
conosciamo in quale misura in quelle popolari).
Fra gli ecclesiastici
avevano firmato, oltre a quelli citati, il Vicario foraneo e i padri superiori
dei Teresiani e degli Agostiniani; il primo fu sostituito dall’abate Francesco
Grimaldi, figlio del principe Grimaldi («che
in queste pendenze si è portato da attento e fedele vassallo»), gli altri
furono trasferiti.
Le indagini del
commissario generale portarono inoltre alla incriminazione del sacerdote
Platania, canonico della Real cappella del castello della Contea, come
sostenitore del Narbona, decisamente avversario del governo sabaudo e ispiratore
delle lettere di protesta, alcune delle quali scritte di suo pugno (24).
10. La vicenda era
solo apparentemente conclusa; nell’ottobre dello stesso anno (1717) si decise,
da entrambi le parti, di creare una Giunta di egual numero di deputati dell’una
e dell’altra parte, per stabilire le signorie e giurisdizioni di Filippo V
nella sua Contea e nei beni confiscati che manteneva in Sicilia. In realtà la
Spagna si stava già preparando a riprendere con una azione di forza la Sicilia
e quando questo avvenne, poco meno di un anno dopo, quegli stessi esponenti
della nobiltà e della ‘borghesia’ modicana che avevano appoggiato le ‘pretese’ del Narbona avrebbero inviato
aiuti e 500 soldati a difendere Augusta dall’esercito piemontese. Il tentativo
di Filippo V fallì ma Vittorio Amedeo II, con la pace dell’Aja del 1720,
dovette cedere la Sicilia (in cambio della Sardegna) a Carlo VI d’Asburgo.
Questi avrebbe ben presto dovuto affrontare il problema dei privilegi e della
autonomia degli istituti della Contea.
La contesa
diplomatica tra Spagna e Piemonte e le controversie sorte tra i funzionari del
governo sabaudo, da una parte, e gli ufficiali della contea di Modica,
dall’altra, dimostrano il particolare rilievo di quest’ultima nelle vicende
politiche siciliane dei primi decenni del Settecento che, attraverso una serie
di conflitti militari e diplomatici, avrebbero portato ad uno sconvolgimento
dei precedenti equilibri europei.
Le continue
rivendicazioni di una cospicua parte delle élites modicane nei confronti del
governo sabaudo affondavano le proprie radici nella autonomia di cui la Contea
aveva goduto per secoli. Le stesse cariche ricoperte dai firmatari delle
lettere di protesta indirizzate al re Vittorio Amedeo II dimostrano l’ampiezza
dei poteri giurisdizionali degli ufficiali modicani, consapevoli e della
particolarità dei propri ‘uffici’ e della peculiarità dello status politico e giuridico della Contea
di Modica.
NOTE
* Il presente saggio è il nucleo di un’ampia
monografia di prossima pubblicazione, di Giancarlo Poidomani, sullo stesso
periodo. L’Autore esamina, a seguito di ricerche direttamente effettuate presso
l’Archivio di Stato di Torino, una polemica rivendicazione di Persone
rappresentative della Contea durante il periodo di dominio sabaudo in Sicilia.
Va qui rapidamente evidenziato come, nonostante alcune
tensioni, la parentesi di quasi sedici anni di rapporto diretto di Modica con i
sovrani di Spagna (1713-20) e di Austria (1720-29) - in conseguenza del governo
piemontese, prima, e austriaco, dopo, nell’Isola - sarà ininfluente, di fatto,
quanto a modifiche o riduzioni di autonomia e dell’assetto istituzionale della
Contea. In quegli anni, inoltre, intensa è l’attività culturale (livello
universitario del Collegio, Scuola medica, studi di botanica, salotto
letterario di Girolama Grimaldi, Tommaso Campailla...). Si avvia la
ricostruzione post-terremoto e si elabora l’imminente esplosione edificatoria.
Modica viene pienamente ripristinata nel suo status
comitale da Carlo VI d’Austria che la riconcede a Pasquale Enriquez de Cabrera,
nipote di Giovanni Tommaso, il 15 febbraio 1729. (Nota d. C.).
** (Modica, 1969). E’
laureato in Lettere moderne - indirizzo storico-artistico - presso l’Università
di Catania con una tesi su Economia e
società a Modica nell’Ottocento: Il catasto borbonico, relatore il prof.
Nino Recupero. Sta svolgendo una ricerca sugli ordini religiosi siciliani al
tempo dell’inchiesta innocenziana del 1650 per la tesi di dottorato di ricerca
in Storia economica dell’Istituto universitario navale di Napoli (coord. prof.
Luigi De Rosa).
Ha pubblicato: Il primo ceto politico locale repubblicano a
Modica, in Archivum Historicum
Mothycense n. 1, 1995; un saggio su Le
elezioni del 1946 a Modica, C.u.e.c.m. Catania, 1995 (Prefazione del prof. N.
Recupero); ha tenuto una comunicazione sullo stesso argomento nel Convegno su La Provincia Iblea nell’Italia repubblicana 23-24
novembre 1995, pubblicata negli Atti del
convegno, Centro studi “F. Rossitto”, Ragusa 1996.
Ha inoltre
pubblicato: Il catasto borbonico a Modica
nel 1846: una analisi, Annali del Centro studi “F. Rossitto”, n° 5, Ragusa
1996.
*** Pare che il motivo per cui il conte Giovanni
Tommaso, già viceré di Catalogna e governatore di Milano, voltò le spalle,
nonostante le prevedibili gravissime conseguenze personali e patrimoniali, a
Filippo V, consistesse, oltre che nel probabile non apprezzamento del ruolo di
ambasciatore conferitogli nonché del connesso allontanamento dalla corte
madrilena, nell’implacabile risentimento per il re, che aveva dichiarato i
Grandi di Spagna uguali in tutto ai Pari di Francia (cfr. R. Solarino, La Contea di Modica, ristampa U.P.
Ragusa, 1973, vol. 2°, pag. 181).
Non va infatti
trascurato il fatto che i Conti di Modica erano i veri ‘Pari’ del re di Spagna
(con tutto ciò che questo aveva implicato lungo i secoli, non soltanto in
termini di estrinseche onorificenze, bensì anche di sostanziali ed alti compiti
assolti con e per la Corona), ed i loro titoli erano i più prestigiosi del
Regno. (N.d.C.)
(1) La Lumia I., La
Sicilia sotto Vittorio Amedeo di Savoia, Livorno 1877, p. 24. Cfr. anche
Stellardi V.E., Il regno di Vittorio Amedeo II in Sicilia, Torino 1866; Carutti
D., Storia del regno di Vittorio Amedeo 11, Firenze 1863.
Archivio di Stato di
Torino (A.S.T.), Fondo: Paesi; Serie: Sicilia, Registro delle Lettere della
Corte: «Las dignidades, rentas, titulos,
señorias y otros vienes que en aquel Reyno han sido confiscados al Almirante de
Castilla (...) que, por haver faltado al juramento de fidelidad, é yucurrido en
el delito de felonia, y traiciòn, ayan de quedar bajo de mi mano, como lo
estàn oy, y con lo mismos Ministros o los que me pareciere poner, y que ahora, o en adelante pueda venderlos,
darlos, cederlos, oconcederlos a las personas que me pareciere, y por biene
tuviere, y que siempre que lo execute, hayan de ser puestos en la posesion
quieta, y pacifica de ellos, y los ayan de tener, y gozar con las condiciones
que yo les impusiere».
(2) Revelli P., Il
Comune di Modica, Palermo 1904, p. 88.
(3) Garufi C.A., Rapporti diplomatici tra Filippo V e
Vittorio Amedeo II di Savoia, Palermo 1914, pp. XIII-XIV.
(4) A.S.T., cit.,
Inventario I, Catagoria I, Mazzo 2, Fascicolo 54, Parere dell’avvocato Zoppi sopra il Contado di Modica.
(4 bis) Il ‘privilegio’ - ossia, propriamente,
l’esenzione da gabelle e tasse, oltre a concessioni di fiere franche,
all’ordinamento giurisdizionale, ecc. - non va inteso sempre nell’accezione
negativa attuale. Infatti le agevolazioni fiscali ed eccezioni non erano destinate
esclusivamente ai ‘gentiluomini’ (aristocrazia, importanti funzionari ...),
bensì anche, ad esempio, ad artigiani, a schiavi liberati dai Mori, a
forestieri residenti nella Contea, a famiglie numerose, a poveri ed ammalati
particolarmente segnalati. (cfr. G. Raniolo, Introduzione alle consuetudini ed Istituti della Contea di Modica,
Ed. Ass. Cult. Dialogo, 1987, vol. 2°, pagg. 13-77).
I piemontesi, che
ovviamente non avevano memoria storica dell’atipicità della Contea di Modica e
che si muovevano piuttosto secondo schematici e teorici criteri giuridici, non
intendevano (né, del resto, erano interessati a farlo) che i plurisecolari
privilegi e concessioni erano strutturali dell’assetto organizzativo,
largamente autonomo della Città e delle Terre della Contea, anzi della
coscienza collettiva e del vissuto stesso degli abitanti, al di là del pur
costante riferimento ai dati storici fondanti ed allo status istituzionale
‘comitale’. (Cfr. anche par. 5 del presente saggio).
Peraltro, anche
nell’‘800 - dopo la fine giuridica della Contea - , pur certamente con
atteggiamento e convinzioni dei maggiorenti della Città e della popolazione
profondamente diversi a seguito dell’emergere della coscienza nazionale (non
già di ‘patria’ italiana, che era da
sempre familiare), permarrà viva la consapevolezza del ruolo
amministrativo-politico della Città e del suo assetto istituzionale
(giudiziario, scolastico ...) oltre che di quello patrimoniale (conflitti col
demanio statale). (N.d.C.).
(5) 1) Governo
politico e giustizia; 2) Finanze e governo economico; 3) Materie militari; 4)
Materie ecclesiastiche; 5) Commercio; 6) Miscellanea; 7) e 8) Regni di Napoli,
Sardegna e Malta.
(6) 1) Patrimonio e
finanze; 2) Governo politico, giustizia e Parlamento; 3) Cancelleria e patenti;
4) Monarchia, Atti della Real Giunta, Memorie del Consiglio di Sicilia e di
Sardegna; 5) Materie ecclesiastiche; 6) Bastimenti e Marina; 7) Cerimoniale; 8)
Artiglieria; 9) Contado di Modica; 10) Lettere originali; 11) Lettere; 12)
Registri di copie delle lettere della Segreteria Reale di Palermo.
(7) A.S.T., cit.,
Inv. 1, Cat. 1, Mazzo 2, fasc. 54, Scritti
nel quale si prova che il Contado resti escluso dalla successione del Marchese
d’Alcagnises e sulla cassa d’extra regno; Cat. II, Mazzo 4, fasc. 41, Progetto per l’acquisto del Contado di
Modica; Cat. II, Mazzo 6, fasc. 7-8, Narbona
e i beni confiscati.
(8) Vittorio Amedeo
aveva costituito un Consiglio di Sicilia che,
coadiuvato dal Consiglio dei ministri di Torino, trattava gli affari del Regno
e, in particolare, aveva il compito di contrastare e di ridimensionare le
continue ‘pretensioni’ degli
amministratori spagnoli (appoggiati dalla Giunta di Spagna) dei possedimenti
riservatisi da Filippo V in Sicilia.
(9) A.S.T., cit., Inv. II, Cat. I,
Mazzo 1, fasc. 3, Ristretto delle
pretensioni eccitate da don Diego Merino de Roxas e da don Gaspare Narbona
successivamente amministratori per S.M. Cattolica del Contado di Modica nel
Regno di Sicilia. Filippo V aveva nominato un amministratore e una Giunta a
Palermo per dirimere le controversie giuridiche relative ai beni sequestrati
per fellonia.
(10) Ibidem.
(11) A.S.T., cit.,
Mazzo 2, fasc. 12, «Le regalie del Porto,
Portulania e diritti che da loro discendono sono talmente attaccate alla
Persona del Principe che se dal medesimo si concede l’esenzione a qualsivoglia
Persona di tutti i diritti competenti allo Stesso, non si comprenderebbero le
ragioni di Tratta ed Esitura, per descendere dalla suddetta Regalia, che si
stima delle maggiori» (cioè non ci sarebbe stato bisogno di una concessione
ad hoc per l’estrazione delle 12.000
salme annue di frumento).
(12) La Lumia, op.
cit, p. 110.
(13) A.S.T., cit.,
Mazzo 3, fasc. 18.
(14) Andrea Porcelli
era stato incaricato dal Narbona di fabbricare processi criminali contro don
Andrea Morelli, capitano d’armi della Contea nominato da Vittorio Amedeo.
(15) Nominato dagli
spagnoli, fu riconfermato fino al 1720 dal governo sabaudo. Gli era stata
concessa dalla Regia Gran Corte anche la potestà di procedere ex abrupto nelle cause criminali. I
piemontesi tenevano a sottolineare il carattere di ‘concessione’ di quella che
era considerata una suprema e privativa regalìa del Principe, non essendo - secondo loro - sufficiente il conferimento
del ‘mero e misto imperio’ (A.S.T., cit., Mazzo 2, fasc. 15). Per i poteri
giurisdizionali dei Conti di Modica, cfr. Modica Scala G., I tribunali della Contea di Modica, in Archivum Historicum Mothicense n° 2, Modica 1996.
(16) A.S.T., cit.,
Mazzo 3, fasc. 18.
(17) Nei giorni
seguenti altri maggiorenti locali sottoscrissero la lettera di protesta. Tra
questi: Giusepe Montalbano protomedico, Didaco Alonzo razionale del patrimonio,
Andrea Di Martino procuratore fiscale della Gran Corte, Ippolito d’Amico
arcidiacono, Pietro Blandino subdiacono, Giuseppe Avola chierico e i notai
Erasmo Eredia e Ignazio Bandino.
(18) A.S.T., cit., fasc. 18, «Dal tenore e della protesta fatta a me e
della consulta che da essi drizza a V.E., essendo e l’una e l’altra formata con
soverchiosa libertà, comprenderà la sublime intelligenza di V.E. che vogliono
ostentare una quasi totale indipendenza dal governo».
(19) Ibidem.
(20) A S.T., cit.,
fasc. 20.
(21) Ibidem.
(22) Scrive il Di
Lorenzo: «Mi sono informato e ho saputo che
don Andrea Porcelli maestro razionale continua in tal posto colla patente
speditagli in questo regno in tempo del governo passato; don Silvestro Leva pur
maestro razionale si trova patentato da Filippo V e il conservatore e avvocato
fiscale don Filippo Renda esercita l’officio in virtù di una lettera del
Segretario di Spagna Grimaldi»; A.S.T., cit., fasc. 24.
(23) Ibidem.
(24) Così scrive il
Di Lorenzo del Platania: «Il cervello
torbido di questo prete e la sua stretta amicizia con il Narbona diedero luogo
a credersi che potesse aver parte nei torbidi procedimenti del medesimo, sicché
si stimò opportuno di farlo carcerare e di procedere a un diligente esame delle
sue scritture fra le quali si ritrovarono scritte di proprio carattere le
minute di due consulte che dagli officiali del contado dovevano mandarsi a
Vostra Maestà». (A.S.T., cit., fasc. 24).