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La visita di Giorgio Berkeley a T. Campailla a Modica*

di Carmelo Ottaviano**

 

 

Uno degli  avvenimenti meno noti della vita del filosofo modicano Tommaso Campailla è costituito dall'inaspettata visita che egli ricevette tra la fine del 1717 e i primi del 1718 da due Inglesi che percorrevano la Sicilia, uno dei quali era Giorgio Berkeley, che ben presto sarebbe assurto ad una celebrità europea come fondatore dell'immanentismo idealistico. Così racconta il principale biografo del Camapailla, il Sinesio: «Fra gli illustri Oltramontani, che vaghi furono di conoscerlo di presenza, contasi due Inglesi, i quali andarono a bella posta nella Città di Modica. Al primo aspetto d'un uomo così poco dalla natura favorito, quasi si pentirono d'aver fatto quel viaggio per le sassose e discoscese vie della Contea. Ma poi, entrati seco in ragionamenti filosofici, da insolito stupore presi, ebbero a confessare d'avere ritrovato in una figura d'uomo due mostri, uno di natura, l'altro di ingegno e di dottrina».

Che uno dei due visitatori fosse il Berkeley si rileva dalle seguenti due lettere indirizzate dal filosofo inglese al Campailla, pubblicate da Giacomo da Mazara nella Prefazione all'edizione dell'Adamo campailliano di Messina 1728, l'una in data 25 febbraio 1718 da Messina e l'altra in data 1° luglio 1723 da Londra.

 

Messanae, Februarij 25, 1718.

Clarissime Vir,

Ex itinere per universam Insulam instituto jam tandem, favente Numine, reversus, animum jucundissima memoria Siculorum hospitum atque amicorum, praesertim quos ingenio atque eruditione praestantes inviserim, subinde reficio. Porro inter illos quanti te faciam, vir doctissime, facilius mente concipi quam verbis exprimi potest. Id unum me male habet, quod exaudito tuo colloquio diutius frui per itineris festinationem non licuerit. Clarissimos ingenij tui fructus, quos mihi impartire dignatus sis, quamprimum Londinum pervenero, aequis illiusmodi rerum aestimatoribus distribuendos curabo. Si quid interim aliud occurrat, quod ad Societatem Regiam Londinensem transmitti cupias, id modo mittatur ad D. D. Porten Hoare et Allen Anglos, negotij causa Messanae commorantes, ad me, ubicumque tandem sim, perveniet. Porro Neutoni nostri Naturalis Philosophiae Principia Mathematica, si quando in Patriam sospes rediero, ad te transmittenda dabo, vel si qua alia ratione commodis tuis inservire possim, reperies me, si minus potentem, proptum tamen, omnique obsequio.

 

                                                                              Humillimum Servum

                                                                                    G. Berkeley

 

Londini, Kalendis Julij, 1723

Clarissime Vir,

Post longam quinque ferme annorum peregrinationem, variosque casus et discrimina, nunc demum in Angliam redux, nihil antiquius habeo quam fidem meam, tibi quondam obligatam. Deus bone! Ab illo tempore quot clades, quot rerum mutationes, tam apud vos quam apud nos! Sed mittamus haec tristia. Libros tuos, prout in mandatis habui, Viro erudito e Societate Regia tradidi, qui, cum solertiam et ingenium tuum pro meritis existimet, tum id plurimum miratur, tantum scientiae lumen in extremo Siciliae angulo tam diu delituisse. Telescopium quod attinet Catoptricum, e metallo confectum, id quidem olim aggressus est Neutonus; verum res ex voto non successit; nam impossibile erat nitidum chalybis splendorem usque eo conservare, ut stellarum imagines distincte exhiberet. Proinde hujusmodi Telescopia nec in usu sunt, nec unquam fuere; nec praeter unicum illud, quod Author experimenti causa fabricavit, ullum factum esse unquam vel fando accepi. Hodie certe apud nostrates non reperiuntur. Caeterum librum clarissimi istius Philosophi juxta ac Matematici, quem spondeba missurum, ad te mitto, quem tamquam sincerae amicitiae pignus accipias, quaeso. Tu interim, Vir clarissime, promovere rem litterariam pergas artesque bonas et scientias in ea Insula serere et propagare, ubi felicissimae terrae indoles frugibus et ingeniis apta ab omni aevo aeque fuit. Scito me tibi semper futurum.

 

                                              Addictissimum et humillimum servum

                                                                  G. Berkeley

Dal tenore della prima lettera risulta in maniera indubbia che il Berkeley è stato a Modica, in modo che la tradizione della «visita» dei «due Inglesi» risulta confermata. Infatti la frase della prima lettera: «Id unum me male habet, quod exaudito tuo colloquio diutius frui per itineris festinationem non licuerit» testimonia di un colloquio personale: e siccome il Campailla non uscì mai da Modica dopo il soggiorno catanese del 1684, è indubbio che il Berkeley sia stato nella cittadina siciliana.

In quale epoca precisamente ciò avenne? Il 22 ottobre 1717 il Berkeley era ancora a Napoli, poiché abbiamo una sua lettera con questa data da questa città; il 25 febbraio del 1718 era già di ritorno dal viaggio siculo a Messina, come risulta dalla prima lettera: «Ex itinere per universam Insulam instituto jam tandem, favente Numine, reversus...». Supponendo che egli abbia superata per mare la distanza tra Napoli e la Sicilia, è presumibile che abbia posto piede sull'Isola, a Messina, alla fine dell'ottobre 1717: il giro per tutta la Sicilia avrebbe quindi richiesto circa 4 mesi, lasso di tempo sufficiente per un rapido itinerario (di una «itineris festinatio» parla la prima lettera). E' lecito quindi supporre che il Berkeley sia capitato a Modica, situata nel vertice meridionale del triangolo siciliano, tra le ultime settimane del 1717 e le prime del 1718.

 

Dalla prima lettera apprendiamo:

a) che il colloquio del Berkeley con il Campailla fu molto probabilmente unico: «Id unum me male habet, quod exaudito tuo colloquio diutius frui per itineris festinationem non licuerit», dice l'or citata frase;

b) che il Berkeley aveva conservata degli ospiti ed amici siciliani una «jucundissima memoria», specie per coloro che aveva visto eccellere «ingenio atque eruditione»;

c) che la stima per il Campailla, che chiama «vir doctissime», era grande («facilius mente concipi quam verbis exprimi potest», è la frase un pò enfatica);

d) che il Campailla aveva affidati all'ospite inglese alcuni «clarissimos ingenij sui fructus», da presentare «aequis illiusmodi rerum aestimatoribus», e precisamente alla Royal Society. Giacomo da Mazara ci fa sapere che si trattava di «alcuni esemplari de' primi Canti di questo poema (l'Adamo) e del Discorso del moto degli animali, per farli osservare all'Accademia della Regia Società di Londra»;

e) che il Campailla contava di poter presentare altre sue opere alla Royal Society, poiché il Berkeley (o in risposta a una lettera sollecitatoria del Campailla trovata ad attenderlo a Messina, o in riferimento a una promessa scambiata di persona) gli dà l'indirizzo dei commercianti inglesi Porten Hoare e Allen, «negotij causa Messanae commorantes», con i quali egli era in costante contatto («ad me, ubicumque tandem sim, perveniet»);

f) che il Campailla chiese al Berkeley l'invio dell'opera del Newton, Naturalis philosophiae Principia mathematica, edita già dal 1687 (Londra; 2a edizione, Amsterdam 1714; 3a ediz., Londra 1726).

 

Da questo si ricava:

1) Le opere che il Campailla affidava al Berkeley non erano date in lettura al Berkeley stesso. E il Berkeley usa, nel parlare delle persone a cui dovrà consegnarle, della frase sintomatica: «aequis illiusmodi rerum aestimatoribus»; ciò significa che egli non era un «aequus illiusmodi rerum aestimator». E siccome il discorso del moto degli animali è opera di fisiologia, e i primi 6 canti dell'Adamo trattano di fisica (c. I, IV, V, VI) e astronomia (c. II, III) in grande prevalenza, è ovvio che il Campailla si presentò al Berkeley in veste di erudito e scienziato, e non di filosofo. Era naturale quindi che il Berkeley si esimesse dalla lettura delle sue opere.

2) Il Berkeley a sua volta non diede né inviò le sue opere a leggere al Campailla, e quindi non gli parlò del suo personale sistema filosofico, né degli autori a cui si era formato: prova ne sia che né il Berkeley né il Locke sono citati nel Canto V dell'Adamo, nel quale è fatta menzione di tutti gli autori noti al Campailla. E' quindi molto probabile che il Campailla ritenesse il Berkeley un erudito nel campo scientifico, fors'anche inferiore a lui, se non aveva scritte opere personali di questo genere (tacque il Berkeley del tutto sui suoi libri già usciti dal 1709 al 1712, dalla Teoria della visione ai Princípi della conoscenza e ai Dialoghi tra Hylas e Philonous) né divisava di scriverne, non molto colto nel ramo, ma in compenso più influente e «aggiornato», date le sue relazioni con gli Accademici della Royal Society. Della filosofia di Berkeley il Campailla non ebbe quindi alcun sospetto; e chi sa quale faccia avrebbe fatta (data la positività della sua formazione scientifica e il suo studio indefesso sui problemi cosmologici, fisici, ecc.), al sentire dallo stesso autore l'esposizione della teoria dell'acosmismo fisico!

Ciò posto, è probabile che l'incontro tra i due personaggi si sia svolto in questa maniera. Berkeley, in viaggio per la Sicilia, capita a Modica, dove, a parte la singolarità del paesaggio e la situazione stessa della caratteristica cittadina, non trova né materiale per le sue ricerche di storia naturale né monumenti archeologici; in compenso sente magnificare iperbolicamente un uomo che la fama locale vanta come un prodigio per la scienza e la singolarità della vita; decide allora con il compagno di viaggio di recarsi per le «sassose e discoscese vie» (e tali in verità erano) a visitare questo dotto, onde farsi un'idea della sua cultura e delle sue capacità mentali. Vinta la prima sorpresa, come la tradizione vuole, per la bruttezza eccezionale del Campailla, lascia, secondo il costume inglese, parlare il suo uomo. Ma resta sorpreso a sentire che l'ospite siciliano parla per diretta conoscenza della fisica cartesiana nei suoi minuti particolari, dissertando di etere e di luce, vuoto e pieno, estensione e solidità, gravità e vortici, atomi e spiriti animali, cause meccaniche e cause finali ecc. Ha anzi occasione di convincersi, a mano a mano che il suo interlocutore è veramente un tecnico di questioni scientifiche e (non l'avrebbe mai sospettato per chi viveva in un angolo della sperduta Sicilia) conosce a menadito la letteratura più celebrata sull'argomento, quelli che erano allora gli autori di grido: egli, Berkeley, conosce sì Cartesio e Gassendi, per le cui dottrine ha una recisa avversione (cosa ovvia, dati i postulati del suo sistema), ma ne vede solo l'aspetto filosofico, non quello particolarmente tecnico, che così notevole influenza avrà direttamente o indirettamente sul sorgere della scienza moderna sia nel campo fisico e astronomico che in quello della chimica e della medicina. Di qui la sua stima per il dotto siciliano, del quale anche intuisce il profondo sostanziale eclettismo filosofico, tanto è vero che si guarda bene dall'intavolare la questione preliminare ad ogni trattazione scientifica, cioè la pregiudiziale gnoseologica, che lo condurrebbe all'esposizione del suo sistema. Egli apprende che il suo interlocutore è un antiaristotelico, un «moderno», come lui, nel senso vero della parola; ma sente per suo conto di vivere in un'atmosfera del tutto diversa, specificamente filosofica, che immerge le sue radici nel terreno mistico (mistica è indubbiamente l'ispirazione del suo sistema essenzialmente malebranchiano, checché egli dica in contrario, e quindi agostiniano); il suo interlocutore invece riceve la sua ispirazione dal'empirismo scientifico e ha al suo attivo un'opera di pura fisiologia. Vivono in due mondi totalmente diversi: a che pro' quindi parlare delle proprie concezioni, con chi non poteva comprenderne né i motivi ispiratori né la contestura filosofica? Sarebbe stato lo stesso che voler mettere di fronte Pascal e Darwin, salve le debite proporzioni.

Ma, a parte i dettagli di minore importanza che tendevano ad avvicinarli, un punto c'era in cui si trovavano inaspettatamente concordi: l'opposizione decisa alla teoria di Newton. Beninteso, il Campailla vedeva in questa dottrina (di cui aveva avute delle notizie indirette, non possedendo ancora le opere del grande scienziato), la più pericolosa nemica della fisica cartesiana, quella che l'avrebbe distrutta e soppiantata, come infatti accadde; il Berkeley vedeva in essa una forma di materialismo e una espressione del libero pensiero, quindi una delle tante teorie contro cui insorgeva il suo immaterialismo immanentismo e acosmistico.

Ciò posto, è da ritenere una esagerazione campanilistica l'affermazione dei biografi del Campailla intorno alla grande stima che il Berkeley avrebbe avuta di lui come filosofo, sia prima dell'incontro, come racconta il Sinesio, che dopo; ma è da ritenere anche esagerata l'opinione opposta, che vede nelle frasi della prima lettera sopra riportata delle pure espressioni di riconoscenza per un ospite gentile, per una buona conoscenza di viaggio, dei rapporti insomma di cortese camaraderie soltanto. Le parole usate dal Berkeley, pur tenendo conto dello stile epistolare dell'epoca, escono dai limiti della cortesia comune («porro inter illos... quos ingenio atque eruditione praestantes inviserim... quanti te faciam, vir doctissime, facilius mente concipi quam verbis exprimi potest») ed esprimono una indubbia ammirazione per il Campailla scienziato, ramo del quale - si noti ancora - il Berkeley si dice esplicitamente «non aequus aestimator».

 

L'analisi della seconda lettera conferma tutto ciò:

a) Dopo la lunga peregrinazione «quinque ferme annorum» e dopo «varios casus et discrimina» e molte «clades et rerum mutationes», il Berkeley può assolvere gli incarichi affidatigli dal Campailla, «fidem meam, tibi quondam obligatam».

b) Gli dà anzitutto notizia dei libri che, «prout in mandatis habui», ha consegnati «Viro erudito e Societate Regia», il quale avrebbe ammirata la «solertia» e l'«ingenium» del Campailla, ma soprattutto «tantum scientiae in extremo Siciliae angulo tam diu delituisse». E' questa manifestamente la opinione del Berkeley stesso, con la quale egli presentò le opere del Campailla al «vir eruditus»; poiché è del tutto da escludere che costui leggesse l'italiano, lingua in cui erano redatte le due opere.

c) Tratta poi di un argomento nuovo, di cui non c'è cenno nella lettera precedente e che sarà stato toccato dal Campailla in una lettera itermedia inviata al recapito messinese del Berkeley: la costruzione di un «telescopio catoptrico» di metallo con specchio e riflettore di acciaio che - egli dice - fu tentata dal Newton, ma non diede ottimo esito, con la conseguenza che l'idea fu del tutto abbandonata. Probabilmente il Campailla avrà desiderato un esemplare del telescopio per suo uso privato e per studi di astronomia, se il Berkeley ha cura di dirgli che «nec in usu sunt nec unquam fuere»«apud nostrates reperiuntur».

d) Acclude il promesso libro newtoniano dei Principia, e ne fa dono al Campailla «tamquam sincerae amicitiae pignus».

e) Chiude con l'augurio che il Campailla continui a diffondere nell'isola «rem litterariam» (allusione alla forma poetica dell'Adamo) e «artes bonas et scientias». Non si parla di «philosophia», né di quegli interessi mistici o religiosi che tanto stavano a cuore al Berkeley.

 

Da ciò si rileva:

1) Il Campailla ha indirizzato almeno una lettera al Berkeley nel periodo 1718-1723, e sempre di argomento scientifico (notizie del telescopio metallico e sollecitazione del libro di Newton);

2) il Berkeley gli risponde a distanza di cinque anni dalla prima lettera (1718) adducendo come giustificazione del ritardo una fortunosa peregrinazione di 5 anni circa;

3) nel dargli notizia dell'avvenuta presentazione delle opere alla Royal Society, attribuisce la sua opinione a quella del presentatore; cortese finzione, dovuta alla ferma stima che ha del suo novello amico e alla sicurezza che il giudizio dello scienziato inglese corrisponda al suo.

Siamo quindi sempre nell'ambito scientifico e l'argomento del telescopio metallico conferma - se mai ce n'è bisogno - il Berkeley nel suo giudizio intorno al Campailla come appassionato e competente cultore delle scienze sperimentali.

Resta un punto non chiaro: già alla fine del 1720 il Berkeley era in Inghilterra, e nel 1723 risiedeva a Dublino come lettore di ebraico al Trinity College, e di lì si recava sovente a Londra. Perché tardò a dar notizia al Campailla delle commissioni ricevute, anzi affermò di esser tornato dopo una peregrinazione di circa 5 anni «nunc demum in Angliam»? E' ciò argomento della sua poca stima nei riguardi del Campailla? Tale ipotesi è in contrasto con quanto precede, e deporrebbe solo della poca urbanità del Berkeley. Ritengo più semplice supporre che egli sia stato, dopo il suo ritorno in patria, occupato, come afferma, «in varios casus et discrimina» e trascinato da avvenimenti superiori alla sua volontà («rerum mutationes») a differire l'adempimento della sua promessa. Per non spiegare tutto ciò in una lettera, ricorse all'amplificazione rettorica di una peregrinazione di 5 anni circa fuori dell'Inghilterra.

Quale seguito ebbe la presentazione delle opere del Campailla alla Royal Society? Nessuno, di sicuro, per il fatto ben noto che gli Inglesi, secolarmente monoglotti, non leggono che l'inglese (oltre, beninteso, il latino). Quale seguito ebbero i rapporti tra il Campailla e il Berkeley? Si fermarono alla seconda lettera? Non si sa, benché un inciso di Giacomo da Mazara nella Prefazione all'edizione messinese 1728 dell'Adamo, «Solamente qui sotto aggiungerò la testimonianza che ne fa il signor Giorgio Berkeley, famoso letterato inglese, ora graduato in Irlanda, in due lettere latine» etc., lasci supporre di no. Da chi ha il de Mazara, che scriveva nel 1728, appreso che il Berkeley era «graduato» in Irlanda? Nelle due lettere non se ne parla: anzi la seconda è datata da Londra, non dall'Irlanda. Probabilmente la corrispondenza tra i due dotti ebbe negli anni 1723-1728 un seguito, ma di nessuna importanza, se il Campailla non comunicò le lettere al de Mazara per la stampa. Gli interessi speculativi del Berkeley divergendo del tutto da quelli del Campailla, il filosofo inglese avrà relegato l'amico siciliano nell'ambito dei ricordi puramente personali.

 

 

NOTE

 

* Lo studio, che qui riportiamo (ritenendo di far cosa utile ai Lettori), unitamente ai precedenti studî su T. Campailla, fu pubblicato sulla rivista ‘La giara’, giugno-luglio 1953, Ed. Assessorato per la P. I. Regione siciliana.

Ripubblicando tale studio di Carmelo Ottaviano, scomparso abbastanza recentemente, intendiamo rendere omaggio a tale illustre Filosofo modicano, che certamente avrebbe accolto l'invito della Redazione a mantenere quel raccordo che abbiamo cercato - e di fatto verificato mediante l'invìo di loro contributi (non necessariamente di carattere storico) - con i Docenti di quest'area culturale, operanti in Atenei italiani. (Cfr. editoriale di Archivum..., n. 1/1995, pag. 5, ed i precedenti fascicoli).

 

** Carmelo Ottaviano, ‘quartae aetatis philosophus’, nacque a Modica il 18 gennaio 1906, nel quartiere circostante il duomo di S. Giorgio. Dopo aver frequentato, nella Sua Città, il ginnasio e liceo classico ‘T. Campailla’ - di cui Egli manterrà sempre alta memoria e nelle cui aule ebbe la prima intuizione del Suo "gigantesco" (l'aggettivo è di uno Storico della Filosofia) sistema filosofico - seguì all'Università di Roma, dal 1923, le lezioni di Bonaiuti e di Varisco; nel 1925 si trasferì all'Università Cattolica di Milano, ove conseguì la laurea nel 1927. A 24 anni fu professore di Filosofia al liceo, dopo essere risultato primo in tutta Italia ad un concorso. Nel 1939 conseguì la cattedra universitaria di Storia della Filosofia, ed insegnò a Cagliari (1939-42), a Napoli (1942-43), a Catania (1944-1976). Morì a Terni il 23 gennaio 1980. Le Sue ceneri, per la Sua volontà, riposano nella tomba di famiglia nel cimitero di Modica.

L'opera storiografica e teoretica di C. Ottaviano è vastissima: più di cinquanta titoli. Ricordiamo qui soltanto, oltre ai saggi su vari Filosofi medievali e su Cartesio, La Critica dell'Idealismo, il Manuale di Storia della Filosofia in tre volumi, la monumentale Metafisica dell'Essere parziale  - l' opus maius - in due volumi, La Tragicità del reale, La legge della Bellezza. C. Ottaviano, inoltre, fondò e diresse, dal 1933, la prestigiosa rivista internazionale di filosofia ‘Sophia’. (Francesco Rando).