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I ‘Quaderni del carcere’ di  Antonio Gramsci:

un grande cantiere di lavoro

Intervista a Valentino Gerratana*

 

 

 

 

 

 

 

Allo studioso del pensiero di Gramsci, al curatore di una edizione critica dei Quaderni fra le più rigorose sul piano  filologico, ma anche allo storico e all’uomo di cultura io chiederei anzitutto una riflessione non tanto su questo o quell’aspetto dell’opera, quanto piuttosto sulla sua diffusione e sul rapporto che intercorre tra il pensiero gramsciano e la formazione della coscienza civile dell’Italia postfascista.

Chiederei, cioè, una riflessione sull’influenza che Gramsci ha esercitato ‘nella formazione dello spirito pubblico’ dell’Italia repubblicana: quindi non soltanto nella determinazione dei processi politici ma nello sviluppo più generale degli orientamenti culturali, morali, etici del nostro paese. In altre parole, quanto ha pesato Gramsci nella costruzione dell’Italia moderna?

“Molto. Ha pesato molto. Gramsci, come Matteotti, subito dopo la caduta del fascismo fu considerato un po’ come un padre della patria. Erano quelli che non si erano piegati, che avevano sfidato la dittatura, le vittime più illustri della sua ferocia. La radice dell’Italia nuova stava lì. Gramsci poi lasciava un patrimonio ricchissimo di idee, riflessioni, stimoli critici, un patrimonio accumulato nell’isolamento carcerario e tra sofferenze fisiche terribili. Dunque non un pensiero sistematico ma una somma di suggerimenti, di sonde affondate nei terreni più diversi: la filosofia, la letteratura, la storiografia, il teatro, la storia della cultura, il folclore, l’economia. Chiunque si occupi di Dante o di Machiavelli, di Pirandello o di Manzoni, di Risorgimento o di questione meridionale, non può non fare riferimento a Gramsci. Ci sono parole e formule che, estratte dal pensiero gramsciano, sono divenute categorie di cui un po’ tutti si servono: egemonia, blocco storico, nazional-popolare. Intere stagioni di ricerca teorica e di confronto culturale e politico sono state da lui fecondate, in ambito comunista e fuori, in Italia e all’estero”.

 

Gramsci fu un pensatore politico. Politica fu la sua scelta di vita, politico il suo itinerario intellettuale, politica la ragione delle sue sofferenze, della sua detenzione, della sua morte. Riguardando a questi quarant’anni si può dire che il suo pensiero abbia incontrato maggiore o minore attenzione, a seconda delle circostanze politiche via via determinate nel paese? In altri termini ci sono state momenti in cui idee e parole di Gramsci sono state più presenti nel dibattito? E quali?

“Alcune parole sono quelle che ho appena ricordato. Altre se ne potrebbero aggiungere, a conferma del fatto che Gramsci, soprattutto il Gramsci politico, è una figura assai controversa, oggetto di interpretazioni le più diverse. C’è chi lo ha visto come un accorto precursore della via italiana al socialismo; chi come un teorico del riformismo;  chi come un rivoluzionario intransigente e rigido. Sono stati  parecchi i tentativi di tirarlo di qua e là, anche a seconda delle contingenze politiche. In ogni caso una figura vivissima, intorno a cui si sono intrecciate dispute e polemiche. Oggi per la verità un po’ meno, anche perché il clima culturale è cambiato, si è fatto distratto. Nessuno critica, nessuno demolisce, semplicemente si fa spettacolo...”.

 

Ma secondo te è adeguata la conoscenza di Gramsci nel nostro paese? Qual è oggi l’immagine che se ne ha? E in quale misura gli elementi della oleografia e della mitologia ricoprono ancora la complessità, la durezza, la solitudine anche, di quella sua esperienza intellettuale ed umana?

“Si può dire che il primo Gramsci che l’Italia conobbe, più che il pensatore o il combattente politico fu il martire, l’uomo sottratto alla sua famiglia e al suo partito, condannato a vent’anni e lasciato morire lentamente in una cella. Fu il Gramsci delle Lettere: toccanti, appassionate, di grande valore umano, letterario e civile. Ecco che cosa erano stati i comunisti, ecco la pasta della quale erano fatti...

Ora l’immagine di questo Gramsci era verissima, autentica, ma ancora parziale. Lo si vede appunto nei Quaderni, rispetto a cui le Lettere possono considerarsi come una nobile introduzione teorica e morale. Era il Gramsci polemista acceso, saggista penetrante, libero nella ricerca e rigoroso nell’analisi (per quanto poteva esserlo dietro le sbarre di un carcere), insomma fuori degli schemi...”.

 

Stai dicendo che questo Gramsci non coincide con la raffigurazione che il suo partito, e Togliatti in prima persona, ne diedero in quegli anni?

“Dico che di Gramsci si offrì  una rappresentazione vera ma parziale, non priva di forzature o di omissioni. Si accentuarono gli elementi che erano in sintonia con una certa tradizione, se ne attenuarono o se ne esclusero altri che sembrava mal si conciliassero con l’immagine che il partito voleva dare di sé e dei suoi uomini. Fu lo stesso Togliatti, più volte, e l’ultima nel giugno del ’64 in un articolo su Paese Sera, ad ammettere che il metodo seguito era stato di eccessiva prudenza”.

 

Ma non è da attribuirsi proprio a Togliatti il merito della immediata pubblicazione delle Lettere, già nel ’47 presso Einaudi, e poi dei  Quaderni nei quattro anni successivi? Non fu lui che assunse - come la definì Eugenio Garin - la regìa di quella grande operazione culturale e politica?

“Togliatti fu il primo editore, il primo propagandista del pensiero di Gramsci. Già nell’aprile del ’46 volle pubblicare su Rinascita, allora mensile, una presentazione scritta da Felice Platone dal titolo “L’eredità letteraria di Gramsci. Relazione sui Quaderni del carcere”. Si occupò personalmente di quei materiali (alcuni dei quali ebbe modo di leggere in fotocopia quando ancora era in Spagna, appena dopo la morte di Gramsci), orientò il lavoro dei curatori, ne consigliò anche la ripartizione tematica. E probabilmente intervenne operando anche qualche censura. Da quella prima edizione delle Lettere scomparvero ad esempio taluni apprezzamenti non del tutto negativi su Bordiga; così come furono espunti quei passi che potevano mostrare un Gramsci tormentato, dubbioso, non tutto d’un pezzo. Insomma bisognava curare che l’immagine non avesse zone d’ombra, non fosse sfocata, fosse quella che serviva al partito ma anche allo stesso Gramsci perché venisse accolto e riconosciuto come capo...”.

 

Vuoi dire che Gramsci non era considerato il capo dei comunisti, morto in carcere?

“Quelli che conoscevano Gramsci erano pochi: ai giovani il suo nome non diceva nulla o quasi. Il Gramsci deputato, il Gramsci segretario del partito comunista d’Italia, il Gramsci della stagione torinese erano lontanissimi. In mezzo c’era un ventennio di fascismo. Si aggiunga che Gramsci non portava con sé i tratti carismatici del capo: era vivace, polemico, dialogico, non conformista, conversatore arguto, ma non certo un trascinatore o uno preoccupato - come si direbbe oggi - di costruire la sua immagine. Piuttosto un solitario, perfino un isolato. Fu così anche nella vita carceraria e nel rapporto con gran parte degli altri compagni reclusi. Basti ricordare la ‘svolta’ del 29-30 e il dissenso di Gramsci circa la tesi che si stesse aprendo in Italia una prospettiva rivoluzionaria tale da escludere e perfino da sconsigliare l’apporto di qualunque formazione politica antifascista intermedia. Fu il momento della espulsione dei ‘tre’**. Gramsci durante le ore del ‘passeggio’carcerario, fu richiesto con insistenza di esprimere un giudizio; ma quando lo ebbe espresso non pochi compagni si irritarono al punto che Gramsci stesso decise di troncare la discussione per evitare che essa si spostasse su un terreno frazionistico. Un capo, sì, ma piuttosto emarginato”.

 

Torniamo agli scritti. Anche nei Quaderni, in quella prima edizione curata da Platone, ci sono parti purgate per ragioni di opportunità politica e di immagine postuma?

“Bisogna tener conto di parecchie circostanze.  Anzitutto il carattere di quel materiale. I Quaderni possono considerarsi un grande cantiere di lavoro; lo stesso Gramsci, in varie fasi di riflessione, di stesura e di rielaborazione, insiste nell’avvertenza che si tratta spesso di affermazioni di ‘prima approssimazione’, quindi soggette a verifica, a ripensamenti, a cambiamenti. In secondo luogo quel materiale, nei manoscritti originali disposto in modo frammentario, fu riordinato secondo una scansione tematica possibile e in una certa misura anche ipotizzata dall’autore, ma tuttavia mai dall’autore stesso compiuta. In terzo luogo va ricordato che i Quaderni vedevano la luce a cavallo tra gli anni quaranta e cinquanta, un periodo di ricerca autonoma ma anche di ortodossia stalinista: l’internazionalismo, la cultura dei comunisti, la formazione del gruppo dirigente, la guerra fredda, il forsennato antisovietismo altrui.... Insomma la libertà di pensiero e l’indipendenza di giudizio - anche la soggettività di giudizio - di Gramsci parve a quel tempo avessero bisogno della mediazione di Togliatti.

“Sicché talune affermazioni furono espunte, altre delimitate, altre temperate. Gli apprezzamenti di Trockij, laddove non c’era anatema, furono tolti; furono corretti i passi nei quali traspariva una qualche presa di distanza da alcuni elementi del pensiero di Engels; furono attenuati accenti di riserva verso l’esperienza sovietica, specie in ordine ai rapporti politici interni.

“Si ricorderà del resto che Gramsci, preoccupatissimo della lotta interna al Pcus tra la maggioranza capeggiata da Stalin e l’opposizione diretta da Trockij, nell’ottobre del ’26, quando era ancora libero, scrisse a nome del partito italiano una accorata lettera al Comitato centrale del partito comunista sovietico e la inviò a Togliatti, allora rappresentante del partito a Mosca. Gli sembrava che Stalin volesse ‘stravincere’ e voleva mettere in guardia dai rischi che una tale guerra intestina avrebbe potuto far correre al proletariato internazionale. Togliatti, che pure consegnò, la lettera a Bucharin, rispose di non essere d’accordo, affermando che ormai la scelta politica era decisa, e quasi cogliendo nelle contestazioni di Gramsci soltanto rilievi di metodo che complicavano la posizione del partito italiano nell’Internazionale. Gramsci replicò confermando le proprie obiezioni”.

 

Anche circa i rapporti fra Gramsci e Togliatti la ricostruzione conteneva qualche forzatura?

“Direi di sì, anche qui ci fu qualche concessione a una certa mitologia di partito. Fra i due c’era stata, sì, amicizia e collaborazione, ma c’erano stati anche momenti di tensione e di conflitto. Già nel ’20 c’erano stati contrasti, e Gramsci nel carteggio del ’23-’24 rimproverava a Togliatti la sua indecisione di fronte alla proposta di staccarsi da Bordiga. Insomma non erano stati una cosa sola. Così come con altri. Con Repaci, ad esempio, verso il quale Gramsci ebbe espressioni feroci che poi, nel testo della prima edizione dei quaderni, scomparvero. A Repaci, anzi, qualcuno andò a dire che Gramsci lo aveva esaltato. Ed è curioso che Leonida Repaci, fondatore e presidente del Premio Viareggio, abbia premiato nel ’47 proprio le Lettere dal carcere che, se non purgate, certamente non lo osannavano...”.

 

Eric Hobsbawm ha ricordato recentemente che il nome di Gramsci figura fra quelli (appena cinque) degli italiani che, nati dopo il XVI secolo, sono più ricorrenti in un indice internazionale di citazioni umane e letterarie. E’ un segnale di conferma, anche questo, della grande attenzione internazionale per il pensiero di Gramsci. Maggiore o minore, a tuo avviso, anche negli anni passati?

“Non minore, certamente. Gramsci è conosciuto e studiato in Francia, in Inghilterra, in Germania, in Spagna, nell’ America del Nord e del Sud. Appena un anno fa, a Ferrara, ho partecipato ad un convegno su Gramsci e l’ America latina, e sono rimasto colpito dall’ interesse, dalla vastità e varietà degli studi, dalla linfa preziosa che il suo pensiero ha messo in un contesto di effervescenza come quello, per esempio, messicano. Forse è anche un po’ moda culturale, come qualche tempo fa lo era Althusser; forse è per certe affinità tra i nostri paesi. Studi di differente valore, è chiaro, ma dovunque Gramsci lo si conosce”.

 

Questa attenzione internazionale non smentisce chi sostiene che il pensiero gramsciano abbia si un valore, ma ben definito nello spazio e nel tempo: lo spazio di un paese contadino e arretrato, il tempo della dittatura e della gestazione di moderni assetti istituzionali. Perché qualcuno si affanna a dire che Gramsci è passato di moda?

“Secondo certuni non è passato di moda soltanto Gramsci: è passato di moda il pensiero, qualsiasi pensiero politico. E’ il trionfo della comunicazione veloce, della cultura come esibizione e spettacolo, della tv... Certo, Gramsci è legato al suo tempo e alle sue circostanze, ma  è da vedere ciò che è esaurito e ciò che non lo è, ciò che valeva soltanto ieri e ciò che continua a valere ancora oggi e varrà anche domani, e proprio con il ricorso alle nostre attuali capacità di interpretazione. Questo, e non altro, è il metodo gramsciano”.

 

Dalla edizione critica dei quaderni di cui sei stato curatore, apparsa nel ’75 presso Einaudi, proprio grazie all’ampiezza dei materiali, al ripristino rigoroso delle formulazioni originali e persino alla segnalazione delle variazioni apportate dall’autore nelle diverse stesure dei manoscritti, risultano moltiplicati i motivi di interesse...

“Quella edizione coincise con un momento di grande ripresa politica e anche di grande attenzione per i comunisti e la loro elaborazione teorica. Comunque è certo che man mano che ci si è allontanati dallo stalinismo, dal pensiero di Gramsci sono stati estratti intuizioni, idee, suggerimenti che si sono rivelati preziosi per i comunisti italiani e non soltanto per loro. Pur se qualcuno, fuori dal Pci, ha voluto accreditare l’immagine di Gramsci che più gli tornava utile: il riformista rinunciatario, il rivoluzionario duro, l’uomo dei Consigli e del ‘biennio rosso’. Questa o quella immagine, a seconda della bisogna polemica e dello svolgersi della vicenda italiana dell’ultimo ventennio. Ci sono stati poi i tentativi di marca socialista  di attaccare la ricchezza e l’originalità del marxismo gramsciano, cui si accompagnò la curiosa proposta, ormai del tutto dimenticata, di risuscitare Proudhon. E infine c’è stato chi, anche dentro il Pci, ha sempre sostenuto la propria estraneità filosofica rispetto a Gramsci.

C’è da dire comunque che in questo senso il Pci ha seguito un metodo gramsciano, proponendo e mai imponendo il pensiero di Gramsci e la sua analisi storica e filosofica”.

 

Esiste, può esistere una sintonia speciale fra Gramsci e i giovani? Io so di una recente assemblea nazionale di giovani comunisti a Modena, dove una fitta platea ha ascoltato senza fiatare e con grande emozione una conferenza su Gramsci tenuta da Paolo Spriano. Era soltanto per la sagacia dell’oratore? O per l’aura mitica che circonda la figura del capo comunista, detenuto numero 7047, morto per la sua idea? O c’è forse qualche altro elemento, più sottile e al tempo stesso più robusto, che mette in collegamento Gramsci coi giovani? Magari la sua idea di naturalità, o la sua vocazione pedagogica, o la sua capacità di volare attraverso le sbarre di una cella per andare a esplorare il mondo “grande e terribile”?

“E’ un’ipotesi che andrebbe verificata. Forse sì. Per alcuni aspetti certamente sì. E’ certo comunque che l’atteggiamento di Gramsci verso i giovani non è stato mai di esaltazione acritica. Egli non era incline all’indulgenza o alla debolezza. Oggi si è inclini a dire ‘giovane è bello’, e si è disposti a riconoscere la giovinezza come una qualità di per sé. Non credo che Gramsci sarebbe stato di uguale avviso. La sua pedagogia era rigorosa, esigente, contraria allo spontaneismo o alla pretesa di considerare se stessi come l’inizio di ogni cosa. Gramsci polemizzava con i ‘costruttori di soffitte’...”.

 

Tu hai segnalato più volte una difficoltà nel campo della ricerca marxista in conseguenza della sua separazione dai processi politici reali. Come a dire che la ricerca teorica va da una parte e la politica concreta dall’altra. Anche l’analisi del pensiero di Gramsci sta dentro questa più generale difficoltà?

“E’ il problema antico del rapporto tra politica e cultura. Qualcuno tende a separare le due cose o, peggio, a strumentalizzare la cultura, a farne una sorta di belletto al servizio della politica. Il discorso è grosso ma cerco di sintetizzare. Non dico affatto che il Pci abbia di queste suggestioni; se mai in qualche misura ne ha avute, non credo che oggi sia più così. Il rischio è piuttosto quello contrario: di non avere orientamenti precisi, di essere disponibili alle più diverse influenze senza sapere scegliere.

“Natta ha detto recentemente: Gramsci è attuale soprattutto per il metodo. Ecco, a mio parere il problema è appunto questo: ripristinare il metodo gramsciano, fare scelte, conoscere e discutere ma poi scegliere. Sia in politica come nella cultura. Lo sforzo di Gramsci è stato quello di costruire un movimento non subalterno, un movimento operaio affrancato dalla subalternità politica e culturale. Questo della autonomia, della non subalternità, della capacità di scelta, credo debba restare un punto fermo, pur in un quadro di coraggiosi e qualche volta azzardati mutamenti”.  

 

 

Biografia e curriculum dell’attività scientifica e didattica

del Prof. Valentino Gerratana

 

Nato a Scicli il 14 febbraio 1919 da genitori modicani ivi residenti per motivi di lavoro, dopo avere frequentato il Ginnasio-Liceo Classico ‘T. Campailla’ a Modica,  compì gli studi universitari presso l’Università di  Roma (1936-1940). Risale a questi anni di studi universitari, orientati da un prevalente interesse per la filosofia del diritto, un suo primo lavoro, Contributo alla teoria del diritto naturale, public. dalla ‘Rivista internazionale di filosofia politica e sociale’ (fasc. IV, 1938).

Si laurea in Giurisprudenza, con il massimo dei voti e la lode, discutendo una tesi sulle teorie della violenza in rapporto al problema etico e politico-giuridico della libertà. Nell’anno accademico 1940-41 è nominato Assistente volontario presso la Cattedra di Filosofia del diritto della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma. Presso la stessa Cattedra è nominato assistente straordinario incaricato (anni accademici 1941-42, 1942-43, 1943-44, 1944-45). Inoltre, dopo aver conseguito l’abilitazione all’insegnamento di filosofia e storia, insegna per incarico filosofia e storia nel Liceo statale ‘Augusto’ di Roma (a.s. 1942-43).

In questo periodo pubblicò i seguenti lavori nel ‘Bollettino dell’istituto di filosofia del diritto della R. Università di Roma’: Filosofia del diritto e filosofia (1941); Il problema della libertà in Croce (1941); Per una nuova impostazione del problema della libertà (1941).  (Il secondo di questi saggi provocava una risposta di Benedetto Croce con  una ‘postilla’ sulla ‘Critica’, fasc. del 20 gennaio 1942, pp. 63-64, seguita da una successiva Postilla ad una postilla di Gerratana). Tra il 1940 e il 1943, pubblicava inoltre nel cit. ‘Bollettino dell’ Ist. di fil. del diritto’ alcune recensioni ad opere di F. Battaglia, G. Gualtieri, G. Santucci, G. Candeloro, A. Falchi, W. Sombart, T. Campanella, A. de Tocqueville.

A ventiquattro anni Gerratana è tra i promotori della Resistenza a Roma, anzi sarà uno dei quattro dirigenti del G.A.P.

Per tali meriti gli sarà conferita la medaglia d’argento alla Resistenza.

Nell'immediato dopoguerra partecipa in prima fila alla riorganizzazione del P.C.I.

Nel 1945 effettua per l’editore Einaudi una nuova traduzione italiana, con prefazione e note, del Contratto sociale di Rousseau (1a ed., molto apprezzata e perciò seguita da ristampe e nuove edizioni).

Nell’ autunno del 1945 si trasferiva in Sicilia per motivi di famiglia, occupandosi per alcuni anni di attività giornalistiche e di consulenza editoriale, ma continuando a coltivare gli studi filosofici come libero studioso. Nell’ ottobre 1949, essendo compreso nella graduatoria dei vincitori del concorso per titoli a cattedre di filosofia e storia, veniva assegnato al Liceo scientifico di Biella. Non potendo però raggiungere la sede per motivi di famiglia, chiedeva ed otteneva l’ aspettativa di un anno, al termine della quale presentava le dimissioni per gli stessi motivi.

Dal 1945 in poi, oltre ad attendere alla produzione scientifica, collabora a giornali e riviste (Unità, Rinascita, Società, Il Contemporaneo, ecc.) con articoli di attualità culturale, informazioni critiche e recensioni. Tra le recensioni di argomento filosofico si ricordano quelle relative a traduzioni o nuove edizioni di: Leonardo, Spinoza, Locke, Voltaire, Lessing, Darwin, Marx, Engels, Dietzgen, Mehring, Cernyscevski, Labriola, Lenin, Croce, Russel, Gramsci; e a studi dei seguenti autori contemporanei: E. Garin, N. Bobbio, L. Geymonat, C. Luporini, E. V. Jlienkov, Q. Cataudella e altri. Tra i numerosi studi di varia cultura si ricorda solo la raccolta degli scritti di Giaime Pintor, Il sangue d’Europa (1939-1943), con un’ampia introduzione che delinea le vicende intellettuali delle giovani generazioni durante gli ultimi anni del fascismo, nella guerra e nella Resistenza. 

Una fase intermedia, nel curriculum della sua attività scientifica, è rappresentata da 9 saggi pubblicati sulla rivista ‘Società’ dal 1948 al 1961. Ad essi vanno aggiunti due lavori pubblicati sulla rivista ‘Il Contemporaneo’ nel 1958-59: un dibattito con L. Colletti su Il marxismo e Hegel e un saggio Darwin e il marxismo (pubblicato anche in traduzione francese dalla rivista ‘Recherches Internationales’, settembre 1961).

Questa fase intermedia è contrassegnata dal passaggio dall’iniziale interesse per gli studi di filosofia del diritto a un più sistematico impegno negli studi di filosofia morale (in connessione con la filosofia della politica) e di storia della filosofia, specialmente moderna e contemporanea. Una funzione subordinata ha invece avuto l’interesse per i problemi di estetica.

Successivamente si volge ad approfondire soprattutto quattro temi di ricerca:  a) Rousseau;  b)  Labriola,  c) Gramsci;  d) i problemi teorici più controversi del marxismo contemporaneo, analizzati storicamente.

a) Su Rousseau, dopo la giovanile e fortunata traduzione del Contratto sociale, Gerratana era già tornato nello studio intorno al tema Democrazia e Stato di diritto, fermandosi in particolare sul problema controverso dei rapporti tra il pensiero di Rousseau e quello di Kant, da una parte, e quello di Marx dall’altra. Tale ricerca andò sviluppandosi, con una nuova indagine (anche in rapporto alla più recente letteratura russoiana) sulla posizione di Rousseau nella filosofia dell’Illuminismo, nello studio L’eresia di Jean-Jacques Rousseau, premesso come introduzione a una nuova traduzione italiana del Discorso sull’ineguaglianza, con note e un’appendice.

b) Per il lavoro compiuto intorno a Labriola, sia come editore che per l’analisi di aspetti particolari del suo pensiero, si sottolinea l’interesse per l’edizione degli Scritti politici di L. (la più completa raccolta del genere con puntuale ricostruzione della biografia intellettuale del Labriola: cfr. l’ampio studio introduttivo). Ha pubblicato inoltre diversi studi su altri aspetti del pensiero di Labriola: su Labriola e Vico, su Labriola e il socialismo giuridico.

c) Di Gramsci si era occupato in diverse occasioni, sia in sede divulgativa che come recensore dei volumi gramsciani pubblicati e della letteratura su Gramsci. Dopo avere esitato ad impegnarsi in un lavoro analitico, per lo stato scientificamente non soddisfacente degli scritti di Gramsci ricavati dai Quaderni del carcere, come membro del Comitato direttivo dell’Istituto Gramsci di Roma sollecitò e ricevette l’incarico di curare una edizione critica dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci. A tal fine espose i criteri che si proponeva di seguire in questa nuova edizione (Comunicazione presentata al Convegno internazionale di studi gramsciani, tenuto a Cagliari nell’aprile 1967). La grande edizione critica, estremamente complessa ed impegnativa soprattutto per la ricerca e il controllo delle fonti, nonché per la necessità di doversi addentrare in quel “textual labyrint of the prison notebooks” (J. A. Buttigieg, Gramscian philology), vide la pubblicazione nel 1975, uscendo in quattro volumi per complessive tremila pagine (tre volumi per il testo e  uno per l’apparato critico).

d) Sui problemi teorici controversi del marxismo contemporaneo e sull’interpretazione storica di alcuni concetti fondamentali del pensiero marxiano pubblicò una serie di saggi su ‘Critica marxista’, tra il 1970 e il 1972. Essi sono stati  riproposti dall’Autore nel volume Ricerche di storia del marxismo (Ed. Riuniti, 1972).

Dal 1971 al 1996 fu nominato professore incaricato di storia della filosofia nella Facoltà di Magistero dall’Università degli Studi di Salerno. Nell’anno accademico 1972-73 il suo corso fu mutuato anche per la Facoltà di Lettere e Filosofia. Presso tale Università, ove insegnò fino al 1996 (nei primi anni Settanta, V. Gerratana vinse il concorso a cattedra presso l’Universita di Siena, ma preferì rimanere a Salerno), svolse pure rilevanti corsi monografici su ‘Antonio Labriola e la filosofia italiana nella seconda metà del secolo XIX’, su ‘Il pensiero di J. J. Rousseau nella filosofia dell’Illuminismo’, su ‘Marxismo e filosofia nell’opera di F. Engels’, su ‘Aristotele e l’aristotelismo nel pensiero moderno’.

Nel 1995 Modica gli conferisce la Medaglia d’oro - premio alla Modicanità.

Muore a Roma il 16 giugno 2000.

Con Valentino Gerratana - osserva V. Parlato (Il Manifesto, 18.6.2000) - “è un'epoca che è finita, è il ciclo lungo apertosi nel 1917 che è stato chiuso... V. Gerratana ci lascia due cose importanti: 1) la testimonianza della sua vita, di un siciliano di Modica e comunista e partigiano e italiano e pertanto europeo; 2) l'edizione critica dei Quaderni di Gramsci”.

 

 

NOTE

 

 

* Intervista rilasciata ad Eugenio Manca nel 1987.

 

**  I  ‘tre’ sono  Alfonso  Leonetti, dirigente della stampa ‘illegale’, Paolo Cavazzoli, capo del movimento sindacale, e Pietro Tresso, capo dell’Ufficio di organizzazione, che non condividevano il documento dell’Ufficio politico del Partito Comunista d’Italia (PC d'I) secondo il quale non era accettabile il sorgere o l’appoggio di un partito politico ‘di democrazia borghese’, ma occorreva senz’altro procedere a modalità rivoluzionarie.   (N.d.C.)