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RICERCHE ARCHIVISTICHE

 

Inquisizione e ‘superstición’ nella Contea di Modica tra XVI e XVII secolo

 

di Melita Leonardi

 

 

Il tribunale dell’Inquisizione spagnola fu istituito in Sicilia nel 1487. Sembra, tuttavia, che per problemi organizzativi e politici abbia iniziato a funzionare soltanto dopo il 15001. La distruzione dell’archivio palermitano del Sant’Offizio, avvenuto per ordine del viceré Caracciolo un anno dopo l’abolizione del tribunale (1783), rende difficile agli storici la ricostruzione dell’attività svolta dall’Inquisizione nell’isola2. Fondamentale per lo studio dell’Inquisizione spagnola si è rivelata, allora, l’utilizzazione di altre fonti quali le relaciones de causas, sommari dei processi celebrati che i tribunali periferici dell’Inquisizione spagnola dovevano inviare al Consejo de la Suprema y General Inquisición a Madrid*.

La repressione dell’ebraismo e del maomettismo costituirono, in Sicilia come in Spagna, l’obiettivo iniziale della nuova istituzione3. In seguito, dopo il Concilio tridentino, il santo tribunale allargò la propria giurisdizione ad altri delitti certamente minori, ma che gli consentirono di esercitare un controllo fortissimo su tutta la popolazione siciliana. Le competenze sui delitti quali la bestemmia, la bigamia, le opinioni discordanti con il dettato ortodosso, erano in precedenza demandate al tribunale vescovile. L’‘imperialismo giurisdizionale’ del tribunale allargò il suo raggio di azione a questi reati ‘minori’. Simili delitti erano definiti, tecnicamente, mixti fori, poiché la competenza non spettava ad un solo tribunale ma a più di uno (cioè a quello vescovile e a quello inquisitoriale). Si era stabilito, per consuetudine, che essi venissero giudicati dal tribunale che, per primo, avesse avuto notizia del reato. Era ovvio che la capillare diffusione del tribunale inquisitoriale (grazie ai commissari) in tutta l’isola rendesse agli inquisitori agevole arrivare per primi ad istruire un processo e quindi ad avocare a sé il procedimento4. La ‘superstizione’ rientrava anch’essa nel novero dei delitti mixti fori. Secondo il diritto canonico i ministri del tribunale dell’Inquisizione avrebbero dovuto giudicare solo quei casi di magia che implicassero l’eresia o l’uso sacrilego di sacramenti della Chiesa. Il tribunale col tempo avocò a sé anche i maleficia simplicia ed esautorò di fatto i tribunali vescovili5.

 

Col termine ‘superstición’ si esprimeva un concetto che, elaborato lungo i secoli precedenti dalla riflessione della Chiesa, Tommaso d’Aquino sviluppò ed espose sistematicamente6, raggruppando sotto la categoria di ‘superstizione’ tutte le pratiche contrarie al primo comandamento, ossia alla virtù morale della religio. Si cade nella superstizione allorché non si tributa il culto al vero Dio, ma a creature (idolatria). Ma ‘superstizioso’ è anche colui che, pur volgendosi al vero Dio, pecca o per difetto, cadendo nell’irreligio, o per eccesso (“non secundum quantitatem absolutam”, ma perché “in cultu divino fit aliquid quod fieri non debet”) e allora si cade nella superstitio. Fra le pratiche superstiziose rientrano quelle magiche e le tecniche divinatorie. Il problema che, tuttavia, interessava il teologo non era tanto quello di indagare la natura delle pratiche magiche, quanto quello di definire l’intenzione che animava l’operatore magico, il mago. Se si considera che ‘religioso’ per eccellenza è il ‘santo’, il mago finiva per caratterizzarsi come una sorta di ‘antisanto’ perché “cum talia faciunt magi, qualia sancti, diverso fine, et diverso jure fiunt. Illi enim faciunt quaerentes gloriam suam, isti quaerentes gloriam Dei”. In breve, il mago, come antisanto, era considerato colui che tendeva a realizzare falsi prodigi per conseguire vantaggi personali e, comunque, con finalità di utilità immediata (benefica o malefica), effettuando pratiche rituali singolari ed ambigue.

La credenza nella magia e nella stregoneria informava di sé tutti i ceti della società d’antico regime. Una popolazione con un’attesa di vita bassissima, spazzata periodicamente da morbi terribili, assediata dalla carestia, cercava conforto in credenze che riuscissero a placare l’ansia7. Un sentimento di precarietà, di paura e di continuo timore per la propria sopravvivenza fisica si riverberava sui miti che dominavano la cultura popolare, miti che discendevano, largamente, da un sincretismo cristiano-pagano, che riteneva possibile l’intervento di forze della natura, dei pianeti sulla vita umana. I confini che separavano il tangibile dal misterioso erano molto labili: il ‘soprannaturale’ era l’altra faccia della vita quotidiana. Ciò che ‘superava l’esperienza comune’* richiedeva una spiegazione in termini di ‘meraviglioso’8. La questione centrale diventava, alle soglie dell’età moderna, chi – per dir così – dovesse gestire le modalità del rapporto con il soprannaturale. Se, come efficacemente nota Ioan P. Couliano, la Riforma protestante attuò la “radicale censura dell’immaginario”9, la Riforma cattolica riconobbe la ‘sacramentalità’* ma si indirizzò verso il suo disciplinamento10. Infatti, dopo la lunga elaborazione da parte dei Padri della Chiesa, lungo la quale (con eccezione del Battesimo e dell’Eucaristia, sulla cui specificità sacramentale non si dubitava) il termine ‘sacramento’ (‘mystèrion’) era stato inteso in senso pittosto largo, la riflessione teologico/scolastica, prima, specie durante i secoli XII e XIII, e poi l’insegnamento ufficiale della Chiesa, avevano portato ad una determinazione più chiara e precisa: i sacramenti riconosciuti come istituiti da Cristo erano stati fissati a sette ed indicati con sobrietà nei loro elementi costitutivi. In Spagna e nelle nazioni alle quali fu esteso il tribunale inquisitoriale iberico, l’opera di disciplinamento fu condotta in maniera precoce ed incisiva, in maniera autonoma rispetto alla successiva intensa opera di rievangelizzazione post-tridentina. Quanto alla paura verso le streghe, essa in realtà non venne alimentata dai tribunali inquisitoriali spagnoli. Lo scetticismo della Suprema in materia di ‘sabba’* e poteri delle streghe venne dimostrato già nel 1526. La tradizione erasmiana dominava fortemente i ministri del Consiglio di Madrid, consigliando loro cautela. L’accentramento che, ab origine, caratterizzò l’Inquisizione spagnola e una serie di Istruzioni interne, inviate a partire dal 1526 ai tribunali dipendenti, permisero di avviare una risoluzione ‘morbida’ del problema11.

La nostra indagine è limitata ai casi di superstizione individuati in Sicilia, tra ’500 e ’600, attraverso le relaciones de causas, sommari dei processi celebrati, che ammontano complessivamente per l’isola a 46012. Tra quelli analizzati, venticinque processi riguardarono l’area della Contea di Modica: dodici uomini e tredici donne, nati e/o residenti nella città di Modica e nelle terre di Ragusa, Monterosso, Chiaromonte, Scicli, Comiso13. Di certo, venticinque processi – lungo un secolo circa – su quattrocentosessanta sono un numero non statisticamente rilevante; tuttavia emergono alcuni dati, degni di interesse.

 

Anzitutto è interessante il rapporto uomini-donne. Tra gli inquisiti non c’è alcuna decisa maggioranza femminile e il rapporto tra uomini e donne è di sostanziale parità. Questo dato appare di straordinario rilievo, poiché il delitto di magia e di stregoneria si è configurato, in altre aree geografiche, come tipicamente femminile e di questa peculiarità sono state date complesse spiegazioni di tipo sociale, economico e psicologico14.

 

Quanto allo status sociale degli inquisiti possiamo dire che, in genere, esso non era elevatissimo, ma neanche miserabile. Nei processi modicani non è purtroppo visibile, nella sua interezza, la varietà di tipologie sociali che si incontrano a livello generale. Ben rappresentata è la presenza del clero sia regolare che secolare. Va rilevato che il clero secolare era largamente costituito dal clerigo de missa, ossia da quella parte del clero che, diversamente dal clerigo de parochia, non si caratterizzava certo per preparazione dottrinale, godeva a volte di qualche rendita ecclesiastica e viveva celebrando messe per coloro che lo richiedevano, ricavandone qualche guadagno. L’intervento del Tribunale dell’Inquisizione15 ricade tuttavia, nei processi modicani, più pesantemente sul clero regolare; ordini religiosi che risultano più colpiti sono quello francescano, agostiniano e carmelitano. Si tratta di alcuni frati irrequieti e vagabondi, forse anche a causa della numerosa popolazione nei conventi e di connessi episodi di indisciplina, che furono oggetto di attenzione da parte del tribunale. Nel caso specifico della Contea di Modica, gli inquisitori si occupano di inquisiti la cui vita sregolata aveva già attirato l’attenzione di altri tribunali16.

I processi per superstición che vedevano implicati questi religiosi riguardavano la ricerca di tesori, il ‘battesimo di monete e di calamite’ e vere e proprie invocazioni di demoni con sacrificio di animali. Nel processo contro il sacerdote Vincenzo Lupo, nato a Modica, l’uomo è accusato di aver procurato ai suoi complici (un altro prete, un ‘sollecitatore’ di cause17 e due studenti) i vestimenti e gli animali per un sacrificio al demonio. Lo scopo del rituale era quello di “avere il demonio al suo servizio per trovare tesori e aumentare in scienza delle cose naturali”18.

La ricerca di tesori non era un fatto limitato alla sola Sicilia, ma riguardava anche il regno di Napoli. In altre parti dell’Europa meridionale e settentrionale erano testimoniati episodi simili19. La ricerca di tesori era basata sulla credenza popolare che, in attesa della venuta dell’Anticristo, i demoni custodissero per lui i tesori dei quali egli si sarebbe giovato. Bisognava, per ottenere la benevolenza dei demoni e soprattutto per mandarli via dal luogo dove era nascosto il tesoro, blandirli con preghiere, suffumigi e complessi atti di esorcismo.

Il ‘battesimo di calamite e di monete’ veniva compiuto per essere in grado, con mezzi magici, di sedurre donne e adolescenti o di far tornare nella borsa del padrone le monete una volta spese. Gli strumenti utilizzati (calamite, specchi, carte vergini), però, non assicuravano la riuscita dell’operazione. Era necessario un previo potere sacralizzante: chi poteva esercitarlo se non il sacerdote, colui che, secondo l’immaginario popolare, operava la più grande delle ‘magie’, ossia la transustanziazione? La dottrina teologica sacramentale era stata elaborata (come sopra accennato) molto lentamente lungo i secoli. Pertanto, nell’immaginario diffuso, erano genericamente considerati ‘sacramenti’ tutti quegli atti che, in qualche modo, rendevano possibile il passaggio di un uomo o di una cosa nella sfera del sacro. Ma in particolare uno dei sette sacramenti, l’ordinazione sacerdotale, rendeva un uomo incomparabilmente diverso dai laici20: egli diventava, in modo del tutto singolare, l’uomo del ‘sacro’ e finiva per acquisire ‘potere’ sugli uomini e sulle cose. Questo ‘particolare’ contatto con l’aldilà non era, nel sentire diffuso, privo di possibili ambiguità; il potere sacerdotale avrebbe potuto essere utilizzato anche per scopi anomali, illeciti e, comunque, non ortodossi. Un esempio emblematico è dato dal caso del frate francescano e sacerdote Arcangelo di Scicli, di 32 anni. Un testimone, durante il processo, ammise che questi “celebrava messe sopra le pietre [calamite] e che faceva, per detto scopo, alcuni digiuni e che dopo, indossando il reo la cotta e la stola, leggeva alcuni scritti e consacrava dette pietre con olio santo”. In un altro processo, tre testimoni accusavano il frate carmelitano Egidio Rizzo, nato a Modica, di 30 anni, di aver detto di essere stato in compagnia di altri su una montagna per invocare i demoni. Rizzo, vestito con abiti sacerdotali – cotta, manipolo, stola – , era entrato in un cerchio tracciato in terra; i testimoni lo accusarono di avere invocato il demonio servendosi dell’arte della negromanzia per evocare uno spirito servitore, di avere, per il medesimo scopo, digiunato due giorni della settimana a pane e acqua e di avere detto di possedere libri e manoscritti di negromanzia come la Clavicola di Salomone21.

Accanto all’invocazione orale, un altro aspetto importante da sottolineare era il ruolo della parola scritta nella pratica magica. Il livello di alfabetizzazione giocava un ruolo fondamentale. L’inquisito di sesso maschile quasi sempre sapeva leggere, molto spesso, anche scrivere, aveva accesso ai testi magici della tradizione; la sua era una magia colta o pseudo-colta che teneva conto delle gerarchie demoniche, delle congiunzioni astrali, della forza evocatrice della formula pronunciata in un modo preciso, della necessità di rispettare il rito. Il manuale più utilizzato era senza dubbio la Clavicola di Salomone e i manoscritti di magia attribuiti al filosofo e medico medievale Pietro d’Abano. La parola scritta acquistava un particolare carattere magico per gli analfabeti e costituiva “l’indice della venerazione in cui la parola scritta era tenuta, in generale, in tutte quelle società nelle quali l’accesso alle lettere era ristretto”22. Tradizionale era l’uso di vergare fogli contenenti parole incomprensibili (spesso parole in lingua ebraica ricopiate in maniera errata) o passi delle Scritture considerati protettivi nei confronti di ferimenti e contro il malocchio. Queste ‘polizze’ dovevano essere, rigorosamente, portate addosso. Altrettanto diffusa era la circolazione di foglietti copiati da manuali di esorcismo da utilizzare nell’invocazione dei demoni23.

 

Le tipologie sociali degli altri inquisiti di sesso maschile, presenti nei processi relativi alla Contea, erano molto caratterizzate. Paolo Ficili, alias Paolo Maravela, nato a Comiso, di 33 anni, vagabondo, venne processato due volte dal tribunale. Il primo processo del 1609, brevissimo, indicava velocemente i capi d’accusa e la pena che ne seguì: l’abiura de levi24, frustate e l’esilio a vita dal regno di Sicilia. L’uomo non ottemperò all’esilio e si stabilì nel territorio di Messina. Nel 1612 venne arrestato e condotto a Palermo per il nuovo processo. Egli era definito un vagabondo. Faceva parte, quindi, di un gruppo sociale con una connotazione assolutamente negativa. Egli, specificamente, chiedeva l’elemosina fingendosi “riscattato dal potere dei turchi”. Sembrava anche “spiritato” tanto che venne accusato di commercio con il demonio. Egli confessò di saper operare alcuni malefici che aveva appreso in Turchia25. Bartolomeo Marcantonio, nato a Modica, di 30 anni, processato nel 1630, era un “cieco”, un cantante girovago che andava in giro per il regno recitando preghiere per ottenere in cambio qualche soldo. Nel contempo, si dedicava a pratiche divinatorie, guaritorie e ad invocazioni al demonio26. Paolo Frasca, nato a Modica, di 38 anni, processato nel 1651, era un guaritore che per le sue terapie usava le candele e l’acqua benedetta oppure il piombo sciolto nell’acqua santa di cinque chiese sacramentali e accompagnava i suoi scongiuri con preghiere ‘superstiziose’27.

 

L’inquisito di sesso femminile, che raramente sapeva leggere e tanto meno scrivere, si dedicava per lo più a pratiche di guarigione. La sua arte era affidata alla tradizione orale e univa alla conoscenza delle piante medicinali la forza di preghiere nelle quali si invocavano Dio, i santi e anche il demonio28. In queste pratiche, erano sempre usate candele benedette, acqua benedetta e formule magiche da pronunciare spesso durante l’ascolto della messa. Nel suo processo del 1596, Pina La Scifa, nata a Scicli, vedova, di 41 anni, ammise “di aver recitato alcune preghiere insolite, mal composte ed errate, con candele benedette per fare ritrovare oggetti perduti”29.

Nei casi in cui la maga volesse nuocere, entrava in gioco la costruzione di una bambola o di un oggetto che rappresentasse la persona da colpire. Nel processo di Palma di Stefano, nata a Comiso, vedova, di 45 anni, l’oggetto utilizzato è un frutto, un fico “nel quale erano stati infilzati molti pezzi di canna”; la donna, dopo aver “messo il fico in un bicchiere dove diceva che c’era l’acqua benedetta di tre chiese, mormorò tra i denti certe parole”. La donna è accusata di aver invocato un non meglio precisato ‘vecchio dell’India’, dicendo che era un uomo santo. L’interesse degli inquisitori si appuntò su questo particolare. Le spiegazioni della donna non dovettero fugare tutti i loro sospetti, infatti decisero di sottoporla a tortura. Durante il supplizio, la donna ammise, ovviamente, che il ‘vecchio dell’India’ era il demonio30. Vincenza Lentini, nata a Scicli, di 45 anni, fu processata per aver consigliato ad una donna, per suscitare l’amore di un uomo, di dire al momento dell’elevazione del Santissimo Sacramento: “menti per la gola: tu non sei Dio”31. Un’altra inquisita, residente a Modica, di 32 anni, serva, nel suo processo celebrato nel 1678 confessava “di aver recitato una preghiera a sant’Antonio per far celebrare un matrimonio”32.

 

Nei processi modicani, accanto all’invocazione di demoni, al battesimo di monete e calamite e alle preghiere ‘superstiziose’, era perseguita la credenza in esseri femminili soprannaturali, volgarmente chiamati ‘donne di fuori’. I procedimenti erano diretti contro donne, ma anche contro uomini, che confessavano di uscire di notte al seguito di misteriose entità. Su un totale di quattrocentosessanta processi per superstición questi procedimenti ammontano a circa settanta. Al comprensorio modicano appartengono cinque degli inquisiti: quattro donne e un uomo33. Un numero statisticamente poco significativo. Simili processi hanno, però, una grande importanza. Sono la testimonianza di una cultura che solo riduttivamente può definirsi popolare34. Questa fonte è inoltre importante per lo storico, perché può aiutarlo a ricostruire uno dei nuclei intorno al quale si sviluppò la credenza nel ‘sabba’. Le azioni degli inquisiti venivano infatti lette dal tribunale attraverso l’immediata assimilazione al negativo, al diabolico. Nel processo a Pasqua La Mundaza, nata a Modica, di 70 anni circa, era sottolineato dagli inquisitori che la donna “andava con le streghe, che chiamano qui ‘donne di fuori’”35.

Per risalire all’identità di queste misteriose ‘signore’, dobbiamo riandare brevemente ad una credenza diffusa nel Medioevo36. ‘Donne di fuori’ erano chiamate dal popolo siciliano le dominae nocturnae, ricordate nei testi medievali. Esse, secondo quanto raccolto da Giuseppe Pitrè, sarebbero state delle donne bellissime, di alta statura, di forme opulente e dai lunghi e lucenti capelli. Di giorno si nascondevano e uscivano solo di notte (specialmente il martedì, il giovedì e il sabato) guidate da una ‘regina’ (oppure troviamo, a loro comando, la ‘signora greca’ o ‘la savia Sibilla’). Preferivano le case ordinate e pulite, in cui entravano passando per le fessure delle porte e i buchi delle serrature37. Croce De Caro, nato a Modica, di 50 anni, contadino, affermava di conoscere “molte superstizioni simili e diceva che quei rimedi glieli avevano insegnati le streghe con le quali andava di notte; erano una compagnia di dodici e si chiamavano ‘i dodici apostoli’”38. Nel processo già citato a Pasqua La Mundaza, le testimonianze rivelavano una realtà complessa e fortemente sentita. Con facilità le ‘donne’ si adiravano contro coloro che le avevano offese e li punivano con la miseria e le malattie. Un testimone, donna, depose di avere raccontato “ [a Pasqua La Mundaza] una malattia che aveva un’altra persona”; la rea le aveva risposto che la causa della malattia era dovuta alla circostanza che “le streghe l’avevano toccata”; la testimone raccontava di averle detto “di avere un neonato che piangeva sempre e [l’inquisita] le disse che non era quello il suo [bambino], che lo avevano cambiato le streghe; [l’inquisita le disse] di portarlo alla riva del mare e di metterlo a terra dicendo [alla ‘strega’]: “prenditi tuo figlio e dammi il mio” e che ella si sarebbe dovuta nascondere; sarebbero venute le streghe e se lo sarebbero preso”39.

Le ‘donne di fuori’ amavano essere trattate con gentilezza e circondate di rispetto. Se erano accolte con l’offerta di cibi prelibati (marmellate, confetti, ma più spesso miele), musiche e balli, ricambiavano i loro ospiti con la buona salute e la fortuna. Non ci meraviglia, quindi, la circostanza che le ‘signore’ appaiano, nei processi, rispettate e temute dal popolo.

Nasceva da qui la forte ambivalenza verso di loro, nonostante il costante tentativo, perseguito e mai raggiunto dal tribunale, di demonizzare la credenza.

 

NOTE

 

* (Catania, 1966). Si laurea in Filosofia nel 1992 presso l’Università degli Studi di Catania. Frequenta i corsi all’Ecole Française de Rome e ottiene nel 1994 il Diplôme d’Etudes Approfondies (D.E.A.), specialité – Histoire et Civilisations presso l’Ecole Française de Rome e l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales de Paris. Nel 1998 consegue il titolo di dottore di ricerca in Storia moderna (IX ciclo) presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Catania con la tesi Inquisizione, magia e stregoneria nella Sicilia spagnola (secoli XVI-XVII).

Altre pubblicazioni: Aggiornamento bibliografico del volume di H. Koenigsberger, L’esercizio dell’impero, Sellerio, Palermo 1997, pp. 235-236; Le disposizioni di ultima volontà di Mario Cutelli, a cura di Melita Leonardi, in V. Sciuti Russi, Mario Cutelli. Una utopia di governo, Bonanno, Catania 1994, pp. 69-130.

 

(1) P. Burgarella, Diego de Obregón e i primi anni del Sant’Uffizio in Sicilia (1500-1514), in ‘Archivio storico siciliano’, 20 (1972), pp. 257-327. La popolazione siciliana tentò di opporsi all’introduzione dell’Inquisizione di rito spagnolo in Sicilia. La volontà di ottenere il ritorno alla forma tradizionale medievale (esercitata dai frati domenicani, ma ormai da tempo in Sicilia inoperante) fu espressa chiaramente con il ribadire che “si la Inquisizioni è ordinarizata in omni regno, si voli usare comu antiquamenti si havi usato, zoe chi li Piscopi in la sua diocisi faczano lo loro offitio et cussì la religione di Sancto Domingo come si havi custumato antiquamenti”: cfr. I. La Lumia, Storie siciliane, Palermo, 1883, III, p. 234. La rivolta del 1516 contro il vicerè Moncada colpì anche l’Inquisizione, costringendo l’inquisitore Cervera a fuggire: cfr. G. Giarrizzo, La Sicilia dal Cinquecento all’Unità d’Italia, in V. D’Alessandro-G. Giarrizzo, La Sicilia dal Vespro all’Unità d’Italia, Torino, 1989. Sulla diffusa ostilità all’introduzione del Sant’Offizio in Sicilia si veda anche V. Sciuti Russi, Ebrei, Inquisizione, Parlamenti nella Sicilia del primo Cinquecento, in L’Inquisizione e gli ebrei in Italia, a cura di M. Luzzati, Roma-Bari 1994, pp. 161-178 (in particolare pp. 170-172).

(2) Il tribunale del Sant’Offizio fu abolito nel 1782; il rogo dell’archivio fu ordinato nel 1783. Sull’abolizione del santo tribunale, cfr. V. Sciuti Russi, La supresión del Santo Oficio de Sicilia, in “Revista de la Inquisición”, 1998, pp. 309-319. Sui risvolti della politica borbonica in quegli anni, cfr. R. Ajello, I filosofi e la regina. Il governo delle Due Sicilie da Tanucci al Caracciolo (1776-1786), in ‘Rivista storica italiana’, 103 (1991), pp. 398-454 e pp. 657-738.

* “A capo del sistema inquisitoriale [spagnolo] era un Consejo... (detto la Suprema) di sette membri, presieduto dall’Inquisitore generale nominato dal re in nome del papa, che doveva tuttavia ratificarlo. La Suprema aveva autorità su ventidue tribunali inquisitoriali [di cui uno in Sicilia]...”: F. Cardini, L’Inquisizione, Giunti ed., Firenze 1999, pag. 54. (N.d.C.)

(3) Per la particolare posizione geografica della Sicilia, la lotta contro il maomettismo, nelle differenti categorie di musulmani convertitisi al cattolicesimo o di cristiani passati all’islamismo, non si esaurì nel tempo come in Spagna, ma costituì uno degli interventi più frequenti e di lunga durata: cfr. W. Monter, Frontiers of Heresy. The Spanish Inquisition from the Basque Lands to Sicily, Cambridge, 1990, pp. 164-185.

(4) A. Borromeo, Contributo allo studio dell’Inquisizione e dei suoi rapporti col potere episcopale nell’Italia spagnola del Cinquecento, in ‘Annuario dell’Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea’, XXIX-XXX, 1977-78, pp. 219-276 (in particolare sulla situazione siciliana, cfr. pp. 249-258). L’arcivescovo di Palermo Pietro Tagliavia d’Aragona rivendicò, nel 1556, le proprie competenze nei delitti di negromanzia e sortilegio ma senza alcun esito (cfr. ivi, p. 250, nota 95). La vittoria del tribunale inquisitoriale siciliano fu completa quando anche il delitto di bigamia e di blasfemia entrò all’interno della sua giurisdizione con la bolla papale In multis depravatis del 1554 (cfr. ivi, pp. 253-254). Nel 1586 la bolla papale Coeli et terrae Creator sanciva ufficialmente (oltre la condanna della magia colta) la giurisdizione dell’Inquisizione sui delitti di superstizione in cui non vi fosse eresia manifesta. Nel secolo XVII pare che i vescovi riacquistino capacità di resistere alle pretese del santo tribunale: cfr. H. C. Lea, L’Inquisizione spagnola nel Regno di Sicilia, a cura di V. Sciuti Russi, Napoli, 1995, pp. 59-60.

(5) J. M. García Marín, Magia e Inquisición: derecho penal y proceso inquisitorial en el siglo XVII, in “Revista de derecho publico”, II, 112, Madrid, 1988, pp. 661-741.

(6) Summa Theologiae, pars 2a-2ae, qq. 42-46.

(7) Sulla figura del vagabondo come portatore di una ‘controcultura’, cfr. P. Camporesi, Il paese della fame, Bologna, 1978 e Id., Il pane selvaggio, Bologna 1980. Sulla cultura popolare, cfr. N. Zemon Davis, Le culture del popolo, Torino, 1980; P Burke, Cultura popolare nell’Europa moderna, Milano, 1980. Sulla devianza e l’emarginazione, cfr. B. Geremerek, Mendicanti e miserabili nell’Europa moderna, Roma, 1985; Id., La pietà e la forca. Storia della miseria e della carità in Europa, Roma-Bari, 1986; Id., La stirpe di Caino, l’immagine dei vagabondi, Milano, 1988.

* Qui ‘soprannaturale’ non viene inteso nell’accezione propria secondo cui fu coniato ed assunto dai teologi cristiani medievali, ossia per indicare Dio stesso o l’elevazione ‘soprannaturale’ dell’Uomo a partecipare della stessa vita divina non in virtù di un’esigenza ‘naturale’, ma di un dono gratuito, concretizzato con l’Incarnazione del Verbo e comunicato secondo l’economia salvifica da Cristo consegnata alla Chiesa. ‘Soprannaturale’, inoltre, non va confuso con ‘preternaturale’. (N.d.C.)

(8) P. Burke, Cultura popolare, cit., p. 168.

(9) I. P. Couliano, Eros e magia nel Rinascimento. La congiunzione astrale del 1484, Milano, 1995, p. 284.

* ossia, la necessità per l’uomo di cercare, in aderenza alla sua natura anche corporea, pure ‘luoghi’ e modi sensibili in cui incontrare e sperimentare il rapporto col Trascendente. Ma i ‘segni sensibili’ (materia e parole) istituiti positivamente da Cristo come strumenti di comunicazione della Grazia – e perciò ‘segni sacri’ (‘sacramenti’) – vanno amministrati e celebrati, ai fini della loro efficacia salvifica, nelle forme rituali volute da Cristo stesso e/o determinate non arbitrariamente dalla Chiesa. (N.d.C.).

(10) Disciplina dell’anima, disciplina del corpo, disciplina della società tra medioevo e età moderna, a cura di P. Prodi, Bologna, 1994 (in particolare, cfr. il saggio di W. Reinhard, Disciplinamento sociale, confessionalizzazione, modernizzazione, pp. 101-123).

* Convegni delle streghe col demonio.

(11) Nel 1526, l’inquisitore generale Manrique convocò una giunta di dieci eminenti giuristi e teologi per decidere della realtà del volo delle streghe e del loro andare al sabba. Si impose la tesi che le streghe andassero corporalmente al sabba per sei voti contro quattro. Una maggioranza risicata che celava forti dissensi: cfr. H. C. Lea, Historia de la Inquisición española, Madrid, 1983, III, pp. 604-607 e H. Kamen, Inquisition and society in Spain in the Sixteenth and Seventeenth centuries, London, 1985, pp. 210-211. Sull’argomento si veda anche W. Monter, Frontiers of Heresy, cit., pp. 260-261 e G. Romeo, Inquisitori, esorcisti, streghe nell’Italia della Controriforma, Firenze, 1990, pp. 70-75. Per l’influenza di Erasmo nella Spagna di Carlo V, cfr. il classico studio di M. Bataillon, Erasme et l’Espagne, Paris, 1937, pp. 242-299.

(12) Ho ampiamente sviluppato la tematica nella tesi di dottorato Inquisizione, magia e stregoneria nella Sicilia spagnola (secoli XVI-XVII), Università degli Studi di Catania, Dottorato di Storia moderna (IX ciclo), triennio 1994-1997. I processi siciliani costituiscono il più alto numero di procedimenti registrati per il delitto di superstición in un tribunale inquisitoriale spagnolo. Sono, però, un numero molto basso rispetto ai processi celebrati dell’Inquisizione romana nel resto d’Italia. Considerando tutto il corpus di relaciones de causas relativo alla Sicilia (3188 relazioni) il periodo che va dal 1570 al 1650 è quello meglio documentato con una serie di relazioni pressoché continua; il periodo che va dal 1650 al 1701 è, invece, gravemente lacunoso con interruzioni lunghe nella serie dei documenti. Il dato riferito per il periodo 1547-59 è sicuramente errato per difetto in quanto esiste la trascrizione degli atti di un processo super magariam del 1555 e la notizia di altri procedimenti, anche se questi processi sono andati perduti; per la trascrizione del processo del 1555, cfr. C. A. Garufi, Fatti e personaggi dell’Inquisizione in Sicilia, Palermo, 1978, pp.59-78. Per un quadro statistico globale delle relaciones de causas dei vari distretti inquisitoriali in tutto l’impero spagnolo, cfr. J. Contreras-G. Henningsen, Forty-Four Thousand Cases of the Spanish Inquisition (1540-1700): Analysis of a Historical Data Bank, in The Inquisition in Early Modern Europe. Studies on Sources and Methods, Dekalb, Illinois, 1986, pp. 100-129.

(13) Per una sintesi delle vicende storiche della Contea di Modica si veda P. Revelli, Il Comune di Modica, Ed. Sandron, Milano 1904, pagg. 63-100; R. Solarino, La Contea di Modica, 2 voll., Tip. Piccitto e Antoci, Ragusa 1885 e 1905, rist. 1973; G. Raniolo, Introduzione alle consuetudini e agli istituti della Contea di Modica, 2 voll., Ed. Dialogo, Modica 1985 e 1987; Id., La Contea di Modica nel Regno di Sicilia, Dialogo, Modica 1997; G. Colombo, Collegium mothycense degli Studi secondari e superiori (Modica, 1630-1767; 1812-1860), Ed. Ente Liceo Convitto, Modica 1993, capp.1-2-3. Notevoli informazioni in P. Corrao, Governare un Regno, Ed. Liguori, Milano 1991.

(14) La teoria di un base di credenze popolari su cui poi si innestò l’opera codificatrice e demonizzatrice ecclesiastica e laica è già presente nei Materials toward a history of witchcraft collected by H. C. Lea, raccolti e pubblicati da A. C. Howland, New York, 1957. Per la teoria che vede la strega e in generale i “devianti” come capro espiatorio su cui ricadono tutti i mali di una società, cfr. H. R. Trevor-Roper, La caccia alle streghe in Europa nel Cinquecento e nel Seicento, in Protestantesimo e trasformazione sociale, Bari, 1969, pp.133-240. Sulla strega come “ribelle” si veda il classico saggio di J. Michelet, La strega, Torino, 1980 (Paris, 18621). Sullo stereotipo della strega come donna vecchia, povera e squilibrata si veda anche B. P. Levack, La caccia alle streghe, Roma-Bari, 1988 (in particolare, pp. 145-172).

(15) Il Tribunale siciliano dell’Inquisizione, di rito spagnolo, aveva sede a Palermo dal 1487. A livello locale aveva creato un efficace sistema di controllo del territorio (sostanzialmente uguale, come apparato, in tutte le provincie dell’impero spagnolo dove era esteso il tribunale dell’Inquisizione: dalla Spagna, alla Sicilia e all’America meridionale) grazie alla presenza dei commissari dell’Inquisizione. Questi erano incaricati dal tribunale, in ogni terra e città, di raccogliere le denuncie anonime o firmate che segnalavano un possibile delitto contro la fede. Il commissario procedeva ad un primo esame delle testimonianze e le trasmetteva a Palermo. Su ordine degli inquisitori, procedeva ad una convocazione dei testimoni. Se le prove raccolte sembravano sufficienti per avviare un procedimento penale, provvedeva all’arresto della persona in questione. L’inquisito era poi trasferito a Palermo nelle carceri dell’Inquisizione dove avrebbe subìto un regolare processo. Altra procedura molto importante, regolare fino ai primi decenni del XVII secolo, era quella della ‘visita’. Uno degli inquisitori compiva una visita nei vari distretti inquisitoriali e riceveva personalmente le denuncie; procedeva poi, con l’aiuto degli ufficiali del tribunale e dei ‘foristi’ del tribunale, all’arresto degli inquisiti: cfr. H. C. Lea, L’Inquisizione spagnola nel Regno di Sicilia, cit., pp. 59-61. Per la Contea di Modica, ad esempio, una lunga visita dell’inquisitore Lopez de Varóna è segnalata nel dicembre del 1588; l’inquisitore, proveniente da Noto, si recò il 28 dicembre a Modica passando anche per Scicli, Chiaramonte, Spaccaforno e Comiso: cfr. Notamento delle visite del Regno (1560-1604), ms. Qq.F.239, in Biblioteca comunale di Palermo.

Per l'organizzazione della sede/distretto dell'Inquisizione a Modica, cfr. riquadro.

(16) Il sacerdote Vincenzo Lupo (processato nel 1586) era stato già inquisito presso la corte vescovile per sodomia e spaccio di moneta falsa: cfr. Archivo Histórico Nacional, Madrid, Inquisición (d’ora in poi AHNM, Inq.), lib. 898, f. 407v. Per i capi d’accusa del frate carmelitano Egidio Rizzo (processato nel 1603), cfr. la Relazione che riportiamo in Appendice, pagg. 26-28 da AHNM, Inq., lib. 898, ff. 156r-156v. Il frate Arcangelo di Scicli, terziario francescano (processato nel 1635) disse di aver preparato un maleficio per la sua amante che la notte prima non aveva voluto aprirgli la porta; il capitano della terra di Scicli lo voleva arrestare perché girava armato di schioppo ed egli gli sparò, senza ucciderlo: cfr. AHNM, Inq., lib. 901, ff. 262r-264v.

(17) Sul ruolo del ‘sollecitatore’ nei processi giudiziari, cfr. G. Modica Scala, I tribunali della Contea di Modica, in Archivum Historicum Mothycense, 2, 1996, pp. 5-18 (in particolare, cfr. p. 17).

(18) Per il processo del sacerdote Vincenzo Lupo, che fu condannato all’abiura de vehementi ed alla galera per sei anni, cfr. AHNM, Inq., lib. 898, f. 407v. L’Inquisizione preferiva condanne socialmente utili. L’invio dei condannati alle galere come rematori – pena comminata sia dai tribunali inquisitoriali che laici – sopperiva alla carenza ormai cronica di remigatori volontari. L’indice medio di sopravvivenza pare fosse di tre anni, anche se occorrerebbe fare numerose distinzioni. Innanzitutto sembra, per esperienza di altri tribunali inquisitoriali spagnoli, che la pena raramente fosse scontata interamente. Frequenti erano la riduzione della pena o la sua commutazione: cfr. W. Monter, Frontiers of Heresy, cit., p. 328-329. Pare che alcuni di questi galeotti godessero, in qualche caso, di un regime di semi-libertà, esistendo “une catègorie privilégiée de forçats, laissés libres le jour avec un seul anneau au pied (...), mais qu’on enchaîne la nuit”: cfr. M. Aymard, Chiourmes et galères dans la Méditerranée du XVIe siècle, in Mélanges en l’honneur de Fernand Braudel, Paris, 1972, I, pp. 49-63 (in particolare per la citazione, cfr. ivi, p. 54). Per il dato globale e la rilevanza statistica delle condanna a galera comminate dal tribunale inquisitoriale siciliano dal 1579 al 1598, cfr. V. Sciuti Russi, Gli uomini di tenace concetto. Leonardo Sciascia e l’Inquisizione spagnola in Sicilia, Milano, 1996, pp. 121-132.

(19) Per il Regno di Napoli si veda P. Lopez, Clero, eresia e magia nella Napoli del Viceregno, Napoli, 1984, pp. 153-236. Nel saggio è citato il clamoroso arresto del vescovo di Pozzuoli per aver cercato tesori nella sua diocesi (cfr. ivi, p. 169). Nell’isola di Maiorca sono segnalati numerosi procedimenti contro ‘buscadores de tesoros’: cfr. J. L. Amoros, Brujas, medicos y el Santo Oficio. Menorca en la época del Rey Hechizado, Menorca, 1991, p. 28; per la Polonia, cfr. F. Cardini, Magia, stregoneria, superstizioni nell’Occidente medievale, Firenze 1979, p. 165.

(20) M. Bloch, I re taumaturghi. Studi sul carattere sovrannaturale attribuito alla potenza dei re particolarmente in Francia e in Inghilterra, Torino, 1995 (Strasbourg, 192411), p.151.

(21) Cfr. Appendice, pag. 26.

(22) P. Burke, Scene di vita quotidiana nell’Italia moderna, Roma-Bari, 1988, p. 155.

(23) G. Romeo, Inquisitori, cit., p. 153.

(24) Il tribunale comminava sentenze spirituali che qualificavano il sospetto di eresia presente negli atti operati o nelle parole pronunciate dall’inquisito. Se il sospetto di eresia era lieve egli doveva pronunciare un’abiura de levi; se il sospetto di eresia era forte, un’abiura de vehementi. Nel caso di conclamata apostasia, cioè di un vero e proprio distacco dottrinale dalla religione cattolica, l’inquisito, qualora avesse ritrattato, veniva ammesso alla riconciliazione, cioè al rito che nella disciplina penitenziale cattolica consentiva all’interdetto di rientrare nel novero dei fedeli e di riaccostarsi ai sacramenti.

(25) Simili vagabondi in una pubblicazione del 1585 venivano specificamente indicati come mendicanti fraudolenti; portavano catene di ferro alle caviglie e gridavano: “Illalla, Illalla, Maumeth rissollala” e altre frasi di questo genere: cfr. P. Burke, Scene di vita quotidiana, cit., p. 86. Per il termine ‘spiritato’, cfr. G. Pitrè, Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, Torino, 1870-1913, IV, pp. 40-57.

(26) A Palermo, nel XVIII secolo, esisteva una confraternita di ciegos che cantavano ballate tradizionali: cfr. P. Burke, Cultura popolare, cit., p. 97.

(27) Sull’argomento si veda P. Burke, Cultura popolare, cit., p. 104 e, inoltre, Id., Scene di vita quotidiana, cit., pp. 259-277.

(28) J. M. Sallmann, Chercheurs de trésors et jeteurs de sorts. La quête du surnaturel à Naples aux XVIe siècle, Paris, 1986, pp. 155-184.

(29) AHNM, Inq., lib. 898, ff. 295r-295v.

(30) Per il processo di Palma di Stefano, cfr. AHNM, Inq., lib. 898, ff. 304r-304v. Per la diffusione di simile tecnica, cfr. J. L. Amoros, Brujas, pp. 153-154.

(31) Per il processo di Vincenza Lentini, cfr. AHNM, Inq., lib. 902, ff. 221r-221v.

(32) Per il processo di Francesca Zangara, cfr. AHNM, Inq., lib. 902, ff. 338v-339v. Un testo di questa preghiera superstiziosa da recitare davanti una candela accesa ci viene fornito da J. L. Amoros, Brujas, cit., p. 131: “Santo Antonio glorioso, vestito con los hábitos menores, aquí os vengo a suplicar que vuestros fuegos llamen de par aquel más ardiente aquel más sublimante, que así sublime el corazón de fulano como sublima esta candela, hasta que pueda tratarlo”.

(33) Rimando per un quadro completo a M. Leonardi, Inquisizione, magia e stregoneria, cit., pp. 152-182. Questi processi sono stati anche analizzati nell’articolo di G. Henningsen, The Ladies from outside: an archaic pattern of the witches’ Sabbath, in Early Modern witchcraft: centres and peripheries, a cura di B. Arkaloo and G. Henningsen, Oxford, 1990, pp. 191-215. La diffusione della credenza in Sicilia era già stata individuata, attraverso fonti diverse dalle relaciones de causas, da G. Bonomo, Caccia alle streghe. La credenza nelle streghe dal secolo XIII al XIX con particolare riferimento all’Italia, Palermo, 1959, pp. 65-69.

(34) Per la complessa definizione di cultura popolare, cfr. P. Burke, Cultura popolare, cit.

(35) Per il processo di Pasqua La Mundaza, cfr. AHNM, Inq., lib. 902, ff.77r-80r.

(36) Nell’Alto Medioevo il famoso Canon Episcopi minacciava di scomunica quelle donne che, “retro post Satana conversae”, credevano di andare in giro di notte, sopra certi animali, in compagnia della “dea paganorum” Diana o di altre entità soprannaturali: cfr. C. Ginzburg, Storia notturna. Una decifrazione del sabba, Torino, 1989, pp. 65-98.

(37) Per la credenza popolare nelle ‘donne di fuori’ cfr. G. Pitrè, Usi, costumi, cit., IV, pp. 153-176.

(38) Per il processo di Croce de Caro, cfr. AHNM, Inq., lib. 902, f. 208v.

(39) Per il processo di Pasqua la Mundaza, cfr. nota 35.

 

 

 

Il Tribunale dell’Inquisizione a Modica

 

Nell’opera citata di Placido Carrafa, Motucae descriptio seu delineatio (cfr. l'ed. critica P. Wander, Lugduni Batavorum 1725, col. 26), è chiaramente enucleata l’organizzazione del Tribunale dell’Inquisizione nella sede di Modica.

Questi gli Officiali qui operanti:

 

- il Commissario, che esaminava le denunce pervenute al tribunale;

- il Capitano, che era un luogotenente del Commissario e lo sostituiva quando questi era assente;

- un Tesoriere (proreceptor) che amministrava in loco i beni del tribunale derivanti da beni sequestrati agli inquisiti, da rendite percepite o da ammende comminate;

- uno Scrivano o Cancelliere (tabellio), con il compito di trascrivere le testimonianze rese dagli inquisiti.

- A Modica operavano inoltre venti Familiari (cioè foristi) del tribunale, collaboratori del Tribunale per segnalazioni ed arresti. I Familiari godevano di importanti prerogative connesse al loro status: la più importante era il privilegio di foro, l’essere sottoposti, cioè, ad una giurisdizione privilegiata (ridimensionata, però, per i reati più gravi dalla fine del XVI secolo) nel contenzioso civile e penale sia come attori che come convenuti; usufruivano inoltre di franchigie fiscali, della possibilità di portare armi e dell’esenzione dal servizio militare.

                                                                    (Melita Leonardi)

 

Riferiamo pure che V. Amico, Lexicon topographicum, Ed. 1757 (nella trad. di S. Di Marzo, Dizionario topografico della Sicilia, Palermo 1859, vol. 2 pag. 147) accenna al fatto che a Modica c’era un “magistrato ecclesiastico [che] esercita [va] le veci del vescovo, [anzi era] dotato di più ampia potestà”. “Tale ‘più ampia potestà’ rispetto a quella del Vescovo si riferiva forse a processi canonici (ad esempio, cause matrimoniali), per i quali, per disposizione pontificia, venivano designati magistrati ecclesiastici operanti presso Sedi di rilievo civile ed ecclesiastico (come, appunto, Modica); potrebbe anche trattarsi di un giudice per i giudizi che riguardavano i ‘Religiosi’, o, ancora, del Tribunale dell’Inquisizione” (che però, in quanto tale, non "esercitava le veci del vescovo"...); G. Colombo, Collegium Mothycense degli Studi Secondari e Superiori, citato, pag. 47, nota 51.

 

 

APPENDICE

 

 

Ho trascritto il processo del frate Egidio Rizzo rispettando la grafia originale. Lo spagnolo in cui è stilato il documento ha, ovviamente, tutte le caratteristiche di incertezza ortografica, grammaticale e sintattica tipiche di un’età di transizione verso forme codificate. Ho aggiunto gli accenti e alcuni segni di interpunzione; i sostantivi, le forme verbali e sintattiche mancanti sono inserite tra parentesi quadre.

 

Relación de las personas que salieron al auto de fee que se celebró en Palermo por los inquisitores doctor Paramo y doctor Llanes en la yglesia de Santo Domingo a 14 de diziembre de 1603*.

 

Fray Egidio Rizo, frayle profeso de la orden del Carmen, sacerdote y predicador, natural de Módica diócesis de Çaragoça, de edad de 30 años, fue testificado con cinco testigos, dos contestes, de que haviendo predicado un día exhortando a la castitad, la noche seguiente se fue a dormir con una mujer pública y diziéndole élla que cómo haviendo predicado aquel día la castidad era el primero que no la guardava, respondió que el tener accesso carnal con los frayles predicadores y confessores no era pecado. Con los otros tres [testigos fue testificado] de haverle oydo dezir que havía ydo en compañia de ciertas personas a una montaña donde hizieron un círculo y se metió en él vestido de sacerdote con su alva, manípulo y [e]stola y que havía ynvocado al demonio conforme al arte de negromancia con fin de haver un [e]spíritu familiar y que para el mismo effetto havía ayunado dos dias de la semana a pan y agua y que tenía en su poder libros y escritos de nigromanzia con la Clavícula de Salomón y que haviendo buelto al convento dezía que non erat Egidius sed spiritus Egidii y que se alabava deque por medio de la confessión havía solicitado y tenido accesso carnal con algunas donzellas y aconsejava a otros frayles que hiziesen lo mismo. Y uno de estos [frayles] dijó que havía dicho que el acceso carnal de los frayles no era pecado. Y dos [frayles dijieron] que havía revelado la confessión de sus penitentes declarando las personas. Con esta ynformación fue preso.

En sus audiencias confesó solamente haver tenido la Clavícula de Salomón y otros libros y escritos de nigromanzia y que se los havía dado un penitente para que los quemase negando todo lo demás. Hizó defensas en que pretendío reprobar [a] los testigos por enemigos y no probó cosa de consideración sino en el número uno [de los testigos] que con mucho número de testigos conste haver sido su enemigo capital pero que después hizieron pazes y en esta causa lo presentó por testigo en un capítolo de sus defensas.

Vista su causa con ordinario y consultores se votó que fuese puesto a questión de tormento sobre el hecho y la yntención con la claúsula citra prejuditium probatorium. Y en el [tormento] confesó que estando en casa de una mujer pública quiriendo tener acceso carnal con élla, [la mujer] le havía dicho que cómo haviendo predicado él el mismo día y dicho que fuesen honestas y castas las mujeres era el primero en quebrantarlo, a que respondío que [élla se] callase que era necia, que el tener accesso carnal con él no era pecado y que esto se lo havía dicho por pasatiempo y no porque lo creyese así. Confessó también haver dicho a ciertas personas que havía ydo en compañia de otros a una montaña y hecho allí algunos círculos e ynvocado demonios y vestidose para este efetto con alva, estola y manípulo y hábito sacerdotal con yntención de buscar un [e]spíritu y que, preguntándole quándo bolvío al convento de dónde venía llamándole por su nombre de Egidio, havía dicho que non erat Egidius sed spiritus Egidii y que esto lo havía dicho por burlar y no porque huviese hecho círculos ni ynvocado demonios. Asimismo confesó que tuvó los dichos libros y escripturas prohibidas del arte de nigromanzia y los leyó algunos dias y después los quemó. Y que también havía dicho a ciertos frayles de su orden, confesores, que havía solicitado a actos torpes y deshonestos a sus hijas [e]spirituales y que lo hiziesen éllos assí, pero que se lo havía dicho burlando; y [dijó] que no havía confesado estas cosas antes con [e]sperança de reprobar [a] los testigos por enemigos y que visto que esto no le aprovechava se havía resuelto en dezir la verdad.

Vista de nuevo su causa con ordinario y consultores se votó que saliese al auto en forma de penitente, abjurase de levi, fuese recluso en un monasterio de su orden por tiempo de cinco años, desterrado de Módica por otros cinco [años], privado por el tiempo de la reclusión de la administración de los sacramentos y del de la penitencia perpetuamente y de voz activa y passiva durante su reclusión y que en el capítulo, choro, refitorio y processiones tuviese el postrer lugar y penitencias [e]spirituales. Executose.

 

 

 

Traduzione

 

Relazione delle persone penitenziate nell’atto di fede che fu celebrato in Palermo dagli inquisitori dottor Paramo e dottor Llanes nella chiesa di San Domenico il 14 dicembre del 1603.

 

Frate Egidio Rizzo, frate professo dell’ordine del Carmelo, sacerdote e predicatore, nato a Modica, diocesi di Siracusa, di anni 30, fu accusato da cinque testimoni, due contestuali, che dopo avere un giorno predicato per esortare [il popolo] alla castità, la notte seguente andò a dormire con una prostituta. Chiedendogli questa [donna] come [mai] avendo predicato quel giorno stesso la castità era il primo che non la rispettava. Egli le rispose che avere rapporti sessuali con i frati predicatori e con i confessori non era peccato. Fu accusato dagli altri tre testimoni di avergli sentito dire che era andato in compagnia di altri su una montagna dove avevano tracciato un circolo e che egli vi era entrato vestito da sacerdote con alba, manipolo e stola e di avere invocato il demonio secondo l’arte della negromanzia per avere uno spirito servitore; [fu accusato di aver detto] di avere, per lo stesso scopo, digiunato due giorni la settimana a pane e acqua e di possedere libri e scritti di negromanzia come la Clavicola di Salomone e di aver detto, tornato al convento, che non erat Egidius sed spiritus Egidii; [fu accusato] di essersi vantato di avere, per mezzo della confessione, sollecitato e di avere avuto rapporti sessuali con alcune ragazze e di avere consigliato ad altri frati di fare lo stesso. E uno di questi [frati] disse che [frate Egidio] aveva dichiarato che l’avere rapporti sessuali per i frati non era peccato. E due [frati dissero] che egli aveva violato il segreto della confessione dei suoi penitenti rivelando i loro nomi. Con queste accuse fu imprigionato.

Nelle sue udienze [frate Egidio] confessò soltanto di aver posseduto la Clavicola di Salomone e altri libri e scritti di negromanzia ricevuti da un penitente per bruciarli e negò tutto il resto [delle accuse]. Si difese ricusando i testimoni perché [disse che erano] suoi nemici, ma non provò niente contro di loro se non contro il primo testimone che da diverse testimonianze consta essere stato suo nemico capitale, però [si dice che] dopo avevano fatto pace; in questa causa [frate Egidio] lo presentò quale testimone a suo favore. Esaminata la sua causa con l’ordinario e con il consultore si votò la tortura sopra il fatto e l’intenzione con la clausola citra prejuditium probatorium e sotto tortura [frate Egidio] confessò che mentre si trovava a casa di una prostituta per avere un rapporto sessuale con lei, questa [donna] gli domandò come mai avendo predicato quel giorno raccomandando alle donne di essere pure e caste era il primo a infrangere [la castità]. Egli le rispose che stesse zitta che era una sciocca e [le disse] che avere rapporti con lui non era peccato e ciò, [disse agli inquisitori], lo aveva detto per scherzare e non perché lo credesse veramente. Confessò anche di aver raccontato ad alcune persone di essere andato in compagnia di altri su una montagna e di aver tracciato lì alcuni circoli e di aver invocato i demoni e di essersi vestito per questo scopo con alba, stola, manipolo e abito sacerdotale con intenzione di evocare uno spirito e che, domandandogli [alcuni frati] quando tornò al convento da dove venisse, chiamandolo con il suo nome di Egidio, egli aveva risposto che non erat Egidius sed spiritus Egidii; [confessò] che ciò l’aveva detto per scherzare e non perché avesse fatto circoli né invocato demoni. Rivelò anche di avere posseduto i libri e gli scritti proibiti dell’arte della negromanzia e di averli letti per alcuni giorni e dopo di averli bruciati. [Confessò] di avere anche detto a certi frati del suo ordine, confessori, che aveva sollecitato ad atti turpi e disonesti le sue figlie spirituali e [di averli esortati] a farlo anche loro, però [disse] di averlo detto per scherzo; dichiarò di non avere confessato prima [agli inquisitori] queste cose [perché aveva sperato] di ricusare i testimoni come nemici e visto che questo non [gli] aveva giovato si era risolto a dire la verità.

Vista di nuovo la sua causa con l’ordinario e con i i consultori si votò che uscisse all’atto in forma di penitente, che abiurasse de levi e che fosse recluso in un convento del suo ordine per cinque anni e fosse esiliato da Modica per altri cinque anni; [fu] privato per la durata della reclusione dell’amministrazione dei sacramenti e di quello della penitenza in perpetuo e di voce attiva e di voce passiva [nelle elezioni del convento]; [fu condannato inoltre] ad occupare l’ultimo posto nel capitolo, nel coro, nel refettorio e nelle processioni [del convento] e ad altre penitenze spirituali. Si eseguì.