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La chiesa seicentesca di San Giovanni Battista di Ragusa

 

di Gaudenzia Flaccavento*

 

 

 

 

 

 

Il grandioso fenomeno della ricostruzione dopo il terremoto del 1693 rischia, spesso, di allontanare l’interesse dal periodo immediatamente precedente. Il pericolo è quello di perdere elementi importanti, sia per valore proprio, sia per il loro possibile contributo alla soluzione di tanti nodi irrisolti della storia successiva, attraverso il recupero di una smarrita linea di continuità.

Un caso esemplare è l'antica chiesa di San Giovanni Battista di Ragusa, di cui ci restano pochi avanzi e scarne notizie: il terremoto la colse quando era ancora fresca di calce e orgoglio massimo di una comunità che ne faceva bandiera contro la parrocchia rivale, quella di San Giorgio. Il conflitto campanilistico tra le due chiese, che si contendevano il titolo di Matrice, nascondeva ragioni politiche, economiche e sociali, che si manifesteranno in tutta la loro evidenza dopo il terremoto. La parrocchia del Battista comprendeva gli abitanti della città posta fuori le mura; tra questi si distingue un’élite che aspira ad ottenere una posizione politica pari al suo potere economico e alla sua intraprendenza. Nel Seicento, infatti, diventano visibili le sostanze accumulate tramite le concessioni enfiteutiche: nuovi ricchi acquistano titoli nobiliari, e sostengono la realizzazione di una chiesa, che, con forme nuove ma autorevoli, possa fronteggiare l’illustre antichità della basilica del Santo cavaliere.

Il recupero di pochi frammenti di memoria getterà qualche squarcio di luce sull’ambiente in cui l’antica chiesa di San Giovanni Battista sorse, sulle aspirazioni che in essa furono riversate, e forse potrà spiegare qualcosa della nuova chiesa innalzata come cuore di Ragusa Nuova, sorta sull’altipiano del Patro. Pochi mesi dopo il terremoto, infatti, per realizzare l’autonomia, che ottennero nel 1695 e conservarono fino al 1703, i sangiovannari decisero la costruzione di una nuova chiesa e di una nuova città.

Tale sorprendente risolutezza significò il completo oblio del tempio in cui per un secolo avevano profuso le loro energie? O più probabilmente il suo ricordo diventò modello per il nuovo edificio, testimonianza dell’attaccamento di una comunità al proprio passato, non completamente rinnegato?

 

Prima del terremoto la chiesa di San Giovanni Battista era collocata appena fuori le mura dell’antica città di Ragusa, sul ripido fianco settentrionale della collina sopra cui si arroccava l’abitato, appena sotto la mole del castello. Essa sorgeva in prossimità della Porta dei Cosentini, che dal centro conduceva ai popolosi quartieri del Raffo, della Pirrera, del Purgatorio. La fiancheggiava la cosiddetta ciancata, strada di collegamento tra i quartieri posti dentro e fuori le mura, spina dorsale del pesce, a cui nel Seicento viene paragonata la Città.

Di questa chiesa conserviamo solo tre archi su pilastri con capitelli corinzi, sormontati da una trabeazione, inglobati nella parete laterale dell’odierna chiesa di Sant’Agnese, e una cripta, a cui si accede da una scala posta sotto il piccolo sagrato prospiciente la facciata.

Per comprendere il valore di questi resti proveremo, innanzitutto, a quantificare i danni causati all’edificio dal terremoto, ed a seguirne i destini dopo il disastro.

Una relazione, compilata nel 1695 per verificare l’entità dei danni prodotti dal terremoto alle chiese parrocchiali di Ragusa1, e su cui torneremo successivamente, afferma che era rimasta in piedi una navata con sei colonne, alcune cappelle e la facciata, e stima il valore dei ruderi l’ingente somma di onze 4880, circa quattro volte quelli della chiesa di San Giorgio. La testimonianza, a parte gli interessanti indizi che si ricavano, è da valutare anche tenendo conto delle possibili deformazioni apportate dagli interessi di chi l’ha commissionata. Essa fu prodotta su istanza di cittadini dell'antica Ragusa (il capitano di giustizia e il parroco della chiesa di San Tommaso), portati ad evidenziare i lievi danni occorsi alla chiesa di San Giovanni. In tal modo essi speravano di allontanare il Conte dall’intento di sostenere il progetto della nuova chiesa dei sangiovannari, convincendolo dell’opportunità di “ristorare” la vecchia chiesa, impedendo così la scissione della Città. La relazione non era comunque molto lontana dal vero, se qualcosa della vecchia chiesa di San Giovanni Battista è giunta fino a noi, considerando anche la notizia riportata dal Sortino-Trono di una carica di polvere fatta esplodere nel 1696, che distrusse molto di ciò che era sopravvissuto al terremoto2. Testimonianza indiretta di questo avvenimento ci proviene da un memoriale scritto nel 1708 da alcuni sangiovannari dell’antico abitato, che si opponevano al trasferimento nella nuova città, lamentando che la chiesa “può dirsi più che dal tremuoto dall’altrui empietà rovinata e distrutta”3. La rimostranza può, però, riferirsi semplicemente al desolante stato in cui versava l’illustre rudere. Infatti, nel rapporto inviato nel 1703 al viceré dal procuratore generale Pietro Giuseppe La Grua, quando assunse la giurisdizione della Contea di Modica al posto dell’esautorato Giovanni Tommaso Enriquez de Cabrera (fautore della nuova città), si afferma che i sangiovannari dell’antico abitato non tollerano l’abbandono del tempio antico, ed hanno piuttosto l’intenzione di ricostruirlo, usando le stesse rovine4. Ed infatti, sotto gli auspici della nuova classe dirigente si tentò la restaurazione delle prerogative dell'antica chiesa parrocchiale5. Concordemente a questa decisione il vescovo di Siracusa, Mons. Termini, durante una visita pastorale condotta a Ragusa nel 1704, stabilisce che la chiesa di San Giovanni Battista lo vecchio, dai cui resti era stato ricavato il ‘sacello’ o oratorio intitolato ‘Delle Cinque Piaghe di Gesù’, venga ricostruita secondo la forma distrutta, sotto il titolo della Natività di San Giovanni Battista, anche se ciò non preclude l’edificazione dell’altra chiesa sul Patro6.

Ma la disposizione non venne attuata, come testimonia il tentativo, avvenuto nel 1733, di costruire al suo posto la nuova chiesa madre di San Giorgio7, spostandola dal vecchio sito, a cui naturalmente si opponevano i sangiovannari del nuovo abitato, rivendicando il possesso dei ruderi. In un memoriale dei procuratori della chiesa di San Giovanni Battista, rivolto al vescovo di Siracusa nello stesso 1733, essi chiedono che, dovendosi effettuare il trasferimento, siano almeno risarciti del valore delle rovine, che valutano circa 4000 scudi (intorno a 1700 onze)8. Quando poi, nel 1738, la questione della collocazione della matrice viene risolta, stabilendo che fosse edificata al posto della chiesa di San Nicola, in posizione intermedia fra i resti delle due chiese rivali, il conflitto per i ruderi prosegue. Il nuovo sito scelto per la fabbrica non era lontano dalla vecchia chiesa di San Giovanni Battista, dove si cominciò a fare razzia di pietra e di intagli, da riutilizzare nel nuovo cantiere. Pertanto nel 1740 i procuratori della chiesa si rivolgono al vescovo, chiedendo che siano impediti ulteriori trasporti o che almeno siano obbligati “li Sig.ri Canonici a pagarne il prezzo”9. Il vescovo vieta a chiunque l’uso della pietra della chiesa diruta, ma ordina anche che non “dovesse la medesima restare come attualm(en)te si trova”. La disposizione venne però disattesa e così le pietre e gli intagli del vecchio San Giovanni furono usati per fare la nuova chiesa di S. Giorgio, i cui registri riportano gli esiti fatti per il trasporto del materiale, ma nessun risarcimento versato alla chiesa di S. Giovanni10.

L’intitolazione a Sant’Agnese precede queste ultime vicende: risulta sotto questo nome già nel 1728, durante la visita di Mons. Marini11, anche se ancora nel 1767 si dichiara che la chiesa di San Giovanni Battista è “rovinata”12.

 

In questo complicato gioco di abbandoni, depredazioni e riusi bisogna considerare con attenzione i resti ‘archeologici’ che possediamo, valutando la possibilità che essi siano stati in parte manomessi. Da operazioni di montaggio e ripristino potrebbero, infatti, essere causate le differenze che osserviamo tra i due archi centrali e l’arco e la porzione di arco posti alle due estremità della parete.

Questa, in sintesi, è la storia dei ‘resti’ materiali: ma quali sono i frammenti di memoria che sono sopravvissuti? Pochissimi i dati sulla forma e la struttura dell’edificio, che tenteremo di raccogliere, facendo alcune ipotesi, che restano in attesa di maggiori riscontri.

La cosiddetta relazione del Lauretta, compilata nei primi del Settecento sulla scorta di una descrizione di Ragusa di un anonimo seicentesco, ci fornisce qualche notizia sulla chiesa, come appariva prima del terremoto: “Poco distante di questo luogo compariva il tempio meraviglioso di S. Giovanni Battista nel quartiero de’ Cosentini ed il massimo in detto quartiero; prima d’aversi incorporato alla città allorchè s’intitolava della disciplina (?) accresciuto poscia di fabbriche e di sito parea un miracolo dell’arte poiché simile al Vaticano di Roma (!!!) con due ali, nave, tao d’altissima mole tutto incrostato di pietre sceltissime col tetto dorato e con quadri vagamente ripartiti al vivo rappresentanti il martirio del glorioso Precursore San Giovanni Battista, con Cappella assai cospicua per la sontuosità degli intagli alla moderna, vari fregi ed immagini sacre lavorate dalla mano maestra di Giovanni Portalone o Pantaleone romano”13.

L’entusiastica descrizione (lo scrivente è un sangiovannaro) ci presenta una chiesa dal tipico impianto basilicale a tre navate, riccamente rivestita di materiali lapidei e provvista di transetto, che è d’altissima mole. Restano in dubbio gli elementi che la rendevano simile alla basilica di San Pietro di Roma: la facciata, la planimetria interna, o semplicemente il suo linguaggio ispirato al classicismo romano?

Oltre al tetto dorato, altri elementi di pregio sono infatti gli intagli alla moderna della cappella maggiore14.

La chiesa del Battista era stata oggetto di lavori di ampliamento e abbellimento, avvenuti nel corso di un lungo cantiere che occupa, in diverse fasi, l’intero Seicento, avviati forse già nel secolo precedente. E’ del 1588 il pagamento ad un mastro Leonardo Ingarao di Modica per lavori “in fabrica ditta Ven. Eccl.a”15. Testimonianze di lavori si hanno poi nel 1618 (donazione per fare fabbrica di detta chiesa) e nel 1628 (trasporto di carrichi di pezzi)16. Dal 1670 al 1682 possediamo testimonianze di una fase di lavori in un libro d’esito della chiesa17: in quegli anni si procedeva alla realizzazione della copertura, mentre, sotto la guida del capomastro Francesco Hodierna, proseguiva ancora il lavoro di intaglio e posa in opera dei “pezzi di carrico”, che vengono acquistati assieme ai materiali necessari alla copertura del tetto (travetti d’abete e tegole). L’acquisto di oro e i contemporanei pagamenti ad un mastro Francesco Di Marco per l’intaglio delle travi del tetto fanno supporre un soffitto con capriate a vista, o a cassettoni, con dorature, a conferma della testimonianza del Lauretta. Nel 1673 sono registrati pagamenti a mastri muratori che hanno rivestito le cappelle e “intagliato e murato...l’ordine bastardo (quello dell’attico) sopra le tre cappelle di S. Pietro, S. Giovanni e delle Sante reliquie” e  spese per il gesso che “servio per gettarlo sopra lo tetto delle suddette cappelle (quelle sul lato sinistro) e per aggiuto a voltare il tetto sopra detta ala e per involtare la tau sopra il crocifisso”: questi dati suggeriscono soluzioni con volte per le navate laterali, per le cappelle e il transetto. E’ probabile, comunque, che, alla data del terremoto, la costruzione dell’edificio fosse stata appena terminata, o addirittura non ancora completa, almeno nel prospetto18.

Altri dati ci provengono da un memoriale redatto nel 1737 da alcuni affezionati della chiesa di San Giorgio che, durante il dibattito per la scelta del luogo dove ricostruire il loro tempio, rifiutavano il vecchio sito di San Giovanni proposto da alcuni, mettendone in evidenza i difetti19. Essi giudicano inadatto il luogo, che da una parte si affaccia su un “orribile precipizio” e dall’altra è premuto dalle pendici della collina del castello; per cui sarebbe necessario, per ampliare il suolo edificabile, rassodare a nord le fondamenta e scavare a sud la roccia, per non ripetere l’errore dei sangiovannari, che, allargando la loro chiesa in quel posto, la realizzarono di “mediocre modello ... corta, stretta nel cappellone e larga nella facciata”, che in più risentiva dell’umidità proveniente dal monte a destra dell’edificio “essendo più alto il terreno della strada sopra la Chiesa dal pavimento della medesma di canne quattro circa, quantoche non fu possibile in detta Ala farvi cappelle, perché sarebbero state sotterranee, senza lume, e sotto al passaggio delle bestie per la predetta strada che sta di sopra”. La chiesa si estendeva forse oltre il limite dell’attuale via Ten. Distefano: l’antica ciancata aveva probabilmente un tracciato irregolare, più vicino alla parete rocciosa e con maggiori dislivelli altimetrici.

Ulteriori notizie ci provengono dalla già citata relazione del 1695, da cui si rileva “intatta ed illesa un’ala con sei colonne cum capitelli corinzi di pietra di forte”, oltre che alcune cappelle poste nella stessa ala (quella di sinistra). Tra queste, notevole appare la cappella del Battista “con tre altari dentro e due cappellette d’intaglio di forte”, una dedicata al Battista e l’altra alle Sante reliquie: sono proprio quelle alla cui copertura si lavora nel 1673, che risultano quindi collocate entro un vano di un certo respiro, con soffitto a volta e ordine bastardo.

La perizia parla anche in modo scarno della facciata “con tre porte e balconata di pietra di forte poco dannegiate”. Nel documento sono ripetutamente citate le colonne (colonne e piedistalli di dette colonne) che separano le navate, mentre finora, ritenendo che i pilastri rimasti fossero parte dei resti di una navata illesa, è stato supposto che la chiesa fosse una basilica a tre navate spartita da pilastri20. Può certamente trattarsi di un’imprecisione lessicale dei mastri relatori (che usano il termine ‘colonne’ al posto di pilastri)21, oppure si può ipotizzare che la chiesa fosse impostata su colonne e che gli archi e i pilastri rimasti siano quelli che immettevano in due cappelle laterali della navata sinistra, descritte nel documento.

L’ipotesi che vede la pianta estesa quasi interamente a sud dei resti si accorda con la testimonianza del 1737 (la chiesa ha da un lato un disastroso monte) e trova anche una conferma dall’unica testimonianza grafica dell’antica chiesa del Battista fornitaci dalla pianta di Ragusa del 1837 redatta da Santo Puglisi. Questi, seppur con notevole approssimazione, ci mostra la “pianta di d.a antica Chiesa di S. Gio Batt.a rovinata al 1693”, e colloca la chiesa di Sant’Agnese, già oratorio delle Cinque Piaghe, nella parte nord dei resti, in corrispondenza delle cappelle della navata sinistra. In base a tali considerazioni nulla vieta di pensare che la divisione delle navate fosse costituita da colonne come riferisce la perizia, e come era più comune nei modelli dell’epoca (vedi le chiese di San Giorgio e San Pietro a Modica, dall’impianto pre-terremoto) e come si ritrova anche nella nuova chiesa di San Giovanni Battista.

Infatti un’ulteriore testimonianza, può essere quella ‘riflessa’, ovvero quella offerta dalla basilica ricostruita a Ragusa Nuova. La struttura compositiva degli archi su pilastri che incorniciano i vani delle cappelle laterali è analoga a quella osservata nei resti della vecchia chiesa, seppur con lievi aggiornamenti nelle modanature. L’ipotesi che anche il precedente edificio fosse impostato su colonne spiegherebbe meglio la soluzione scelta per l’odierna cattedrale, che finora è apparsa come un passo indietro sia rispetto alla fabbrica anteriore, che al gusto settecentesco, che predilige l’uso del pilastro nei progetti delle grandi chiese basilicali. La nuova chiesa poté ispirarsi alla vecchia anche per la struttura della facciata: dall’antico modello può provenire l’articolazione tramite un ordine gigante (risolto poco felicemente con un debole secondo ordine) e forse l’uso delle semicolonne, che non ha altri esempi locali. Non dimentichiamo che la vecchia chiesa era simile al “Vaticano di Roma”. La nuova, maestosa fabbrica fu realizzata, probabilmente, mediante un processo di imitazione ‘migliorativa’, ovvero operando e contrario, attuando le potenzialità presenti in quella vecchia ed eliminandone i difetti evidenti. Anche in questo caso troviamo conferma della tendenza che informa di sé l’era post-terremoto: quella di liberare forze ed energie già presenti ed attive, ma compresse all’interno di un tessuto economico, sociale e urbanistico poco adatto allo sviluppo. Così come si libera la spinta verso l’altopiano, già attiva prima, così la voglia di monumentalità dello stile moderno, presente nel vecchio tempio, si esprime in tutta la sua pienezza nella nuova e grandiosa   basilica.

 

Un tale processo imitativo, dettato da rispettoso attaccamento al passato, spiegherebbe gli anacronismi e la scarsa originalità, spesso lamentati nell’imponente chiesa di Ragusa Nuova. Ciò sarebbe ancora più plausibile, ipotizzando nel vecchio edificio la presenza di qualche firma illustre. L’unico nome accostabile alla fabbrica è, al momento, quello di Antonino Di Marco: architetto ragusano, sangiovannaro, presente assieme a Giovanni Battista Hodierna alla fondazione di Palma di Montechiaro al seguito dei Tomasi-Caro. La già citata relazione del Lauretta22 gli attribuisce il disegno della cappella maggiore della chiesa del Battista “d’ammirabile struttura”, già definita notevole per gli “intagli alla moderna”23. E’ riferita anche la sua presenza a Roma durante il pontificato di Innocenzo X (della famiglia Panphili, 1644-1655), nel cantiere dell’obelisco Panphilio diretto dal Bernini; ma non è solo questa l’unica possibile fonte di contatti diretti tra il nostro cantiere e l’ambiente romano. Il promotore della prima separazione della parrocchia di San Giovanni Battista da quella di San Giorgio, è Don Ascenzo Gurrieri (1587-1645), primo parroco della nostra chiesa dal 1620 al 162624. Uomo molto colto, vicino al Papa Urbano VIII (al secolo Maffeo Barberini, pontefice dal 1623 al 1644), che gli affidò l’educazione del cardinal nepote Francesco Barberini. Pur risiedendo poco a Ragusa (solo dal 1609 al 1620), fu sicuramente direttamente interessato all’edificazione in nuove forme della chiesa del Battista.

Vicino al pontefice Barberini era anche il fratello uterino del Gurrieri, Vincenzo Laurifici, anche lui acceso sostenitore della causa sangiovannara. Nunzio apostolico, nominato vescovo di Monreale, morì però prima di prendere possesso della sede, nel 1624, e fu sepolto a Ragusa nel tempio del Battista. Da tali illustri patroni venne forse l’ispirazione moderna, così come possiamo immaginare che, grazie a loro, il Di Marco poté tentare l’esperienza romana, che proseguì, stante la scarna testimonianza, oltre la morte dei prelati ragusani e del pontefice loro protettore.

L’ispirazione classicista, che rendeva la chiesa simile al Vaticano, sarà giunta grazie a questi, o tramite un progetto realizzato ad hoc, o più facilmente attraverso l’imitazione di illustri modelli romani. Il mito dello stile moderno romano (anche se per questo si intende il classicismo tardo cinquecentesco, e difficilmente le ultime innovazioni pienamente ‘barocche’ di Bernini e Borromini) è tanto forte da trasformare anche il Portalone, pittore seicentesco nato a Licata, e presente nella nostra chiesa, in “romano”.

La raccolta e l’esame delle scarne notizie su questa chiesa ci hanno permesso, comunque, di gettare uno sguardo sulla Ragusa della prima metà del Seicento, e di rilevare, soprattutto nella parrocchia di San Giovanni Battista, un ambiente fertile e ricco di rapporti con l’esterno, forse tra i più interessanti della storia di questa Città.

Contemporaneamente, infatti, ai fratelli Laurefice e Gurrieri e all’architetto Di Marco vive l’illustre filosofo Giovan Battista Hodierna, figlio di un mastro murifabro, e certamente imparentato con i Dierna od Hodierna, che abbiamo rilevato in questo cantiere.

Un filo di relazioni, appena intravisto, e tutto da dipanare, potrebbe gettare luce, non solo sulla storia dell’architettura del Seicento in area iblea, ma sulla storia della cultura, che meglio di tutte potrebbe spiegare i molti nodi irrisolti delle diverse storie ‘particolari’.

 

 

NOTE

 

* (Ragusa, 1972). Si è laureata presso l'Università degli Studi di Catania in lettere moderne, discutendo una tesi di Storia dell'Arte moderna (relatore prof. Vito Librando). Ha continuato poi le sue ricerche nell'ambito della storia dell'architettura barocca della Sicilia sud orientale, effettuando diverse indagini storiche su edifici da restaurare. E' stata membro dell'équipe che ha effettuato la ricerca storico archivistica sulla Cattedrale di Noto, condotta dal Prof. Stephen Tobriner dell'Università di Berkeley (California). Al momento lavora presso l'Università di Catania, nell'ambito del progetto per l'istituendo Museo dello Studio.

Ha pubblicato: Un esempio di urbanistica barocca: il quartiere degli Archi e la chiesa del Purgatorio di Ragusa dopo il terremoto del 1693,  sta in ‘Barocco e tardo barocco negli Iblei occidentali’, a cura di Marco Rosario Nobile, Distretto scolastico 52, Ragusa 1997, pagg. 99-105; Musica e scultura nell'ultima opera di Biagio Miceli, sta in ‘Pagine dal Sud’, Ragusa dicembre 1997, anno XIII n. 4, pagg. 27-28.

Risiede a Ragusa, via Veneto, 450/b - tel. 0338 2413682

(1) Modica, Archivio di Stato (A.S.M.), Not. Santoro Spatula, vol. 14, ff. 170v/173v, 6/3/1695, relazione dei mastri Giuseppe Dierna, Teodoro Antoci e Giorgio Calabrese. La relazione era stata resa nota - senza però l'indicazione della fonte - da VENINATA GIORGIO, Due chiese dell’antica Ragusa, che sta in Pagine dal Sud, Ragusa, nov.-dic. 1989, anno V, n. 5-6, pag. 31.

(2) SORTINO-TRONO EUGENIO, I conti di Ragusa (1093-1296) e della Contea di Modica (1296-1812), Ragusa, 1907, pag. 273; la notizia non ha mai però trovato un riscontro documentario.

(3) Archivio Capitolare della Cattedrale di Ragusa (A.C.C.R.), vol. IV scritture della chiesa, ff. 444r e segg.

(4) FLACCAVENTO GAUDENZIA, Un esempio di urbanistica barocca: il quartiere degli Archi e la chiesa del Purgatorio di Ragusa dopo il terremoto del 1693, in Barocco e tardobarocco negli iblei occidentali, Ragusa, 1997, pag. 102.

(5) Come testimonia una lapide conservata nell’odierna chiesa di Sant’Agnese, e precedentemente murata sul fianco esterno: Sub auspiciis invict.mi catholici n.ri regis Phi V cui semper a Deo salus et templum D.vi Ioanis Baptistae a devoto populo erectum ac re a citum anno 1703 ad maiorem de  n.ri catholici Regis gloriam.

(6) FLACCAVENTO GAUDENZIA, Un esempio ... cit., pag. 102.

(7) FLACCAVENTO GIORGIO, Uomini, campagne e chiese nelle due Raguse, Ragusa – Modica, 1982, pag. 187.

(8) A.C.C.R., vol. V delle scritture della Chiesa di San Giovanni Battista, fasc. 21, 15/12/1733

(9) A.C.C.R., vol. V delle scritture della Chiesa di San Giovanni Battista, fasc. 43, 4/2/1740.

(10) Archivio della Curia Vicariale di Ragusa, presso la chiesa di San Giorgio (A.C.V.R.), vol. 25, Raccolta fatti e questioni, fogli non numerati, anni 1740 e segg.

(11) SORTINO TRONO EUGENIO, Ragusa Ibla Sacra. Università (Municipio) di Ragusa Ibla (1619-20, 1818-22), Ragusa, 1928, pag. 122.

(12) NIFOSÌ PAOLO, Ibla delle meraviglie. Ragusa tra tardobarocco e rococò. Il cantiere del Settecento, Modica 1997, pag. 194.

(13) Pubblicata in appendice in SORTINO TRONO EUGENIO, I conti di Ragusa (1093-1296) e della Contea di Modica (1296-1812), Ragusa, 1907, pag. 340.

(14) Dall’antico tempio del Battista proviene forse un altare lapideo che si trova ora nella navata sinistra della chiesa del Purgatorio: la ‘cona’ bidimensionale ripete il modello di un prospetto chiesastico a due ordini, spartito da paraste. Il riferimento obbligato è ai trattati classicistici del Cinquecento, e soprattutto al Serlio, interpretato però con ricchezza di decorazioni. Anche se non direttamente, questo ci può fornire una testimonianza del gusto, e di che cosa si intendeva per ‘intagli alla moderna’.

(15) A.S.M., Not. Blundo Giuseppe, anno 1587/88, f. 255r/v.

(16) VENINATA GIORGIO, Due chiese...cit., pag. 33.

(17) A.C.C.R., vol. 27, Libro d’esito della chiesa di San Giovanni Battista dal 1657 al 1682, ff. 110 e segg.

(18) SORTINO TRONO EUGENIO, Ragusa ... cit., pag. 26.

(19) FLACCAVENTO GIORGIO, Uomini...cit., pag. 193.

(20) GURRIERI OTTORINO, Il casato Gurrieri. Ricerche storiche e personaggi. Perugia, 1977, pagg. 36-38; è allegata anche la ricostruzione realizzata dall’architetto E. P. Puppo. L’ipotesi è confermata anche da NOBILE MARCO ROSARIO, Architettura religiosa negli Iblei. Dal Rinascimento al barocco, Siracusa, 1990, pag. 34.

(21) Sebbene in un’altra relazione del 1697, redatta per la chiesa di San Giorgio di Modica da tre mastri delle stesso ambiente culturale (due sono imparentati con quelli del 1695), è espressa chiaramente la distinzione tra colonni e  pillastroni. NIFOSÌ PAOLO - MORANA GIOVANNI, La chiesa di S. Giorgio di Modica, 1993, pagg. 33-34.

(22) SORTINO-TRONO E., I conti... cit., pag. 349.

(23) Lo stesso Di Marco figura tra i mastri che partecipano dell’allestimento della festa del SS. Sacramento nella chiesa di San Giovanni (PAVONE MARIO, La scienza nuova ed assoluta. Profilo biografico e scientifico e scritti inediti di Giovan Battista Hodierna, Ragusa 1997, pag. 101); esisteva inoltre nella chiesa una cappella delli Marchi (NOBILE M. R., L’architettura...cit., pag. 47.

(24) Le notizie su Ascenzo Gurrieri e Vincenzo Laurifici provengono da GURRIERI OTTORINO, Il casato Gurrieri...cit, pagg. 27-48.