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I ponti abitati di Modica: dalla natura all’architettura

di Daniela Agosta *

 

 

 

 

 

 

Situm est Oppidum Mutycense, vetustate, opulentia, et civium frequentia florentissimum, non longe a Pachino, in utraque parte vallis amplissimae, quae sinuosis flexibus molles habet ascensus, et magnis ornata aedificiis, gemini instar theatri, duas veluti aperit Civitates, torrentis alveo discretas, sed junctas pontibus.

Paret ea Civitas, quae jurisdictionis caput est, et feracissimam quasi Provinciam finibus suis claudit, jure antiquissimo Comitibus Mutycensibus ...

E. AGUILERA

 

 

1.  Quattro altopiani si distinguono nella topografia del centro urbano di Modica: il primo, denominato del Castello, s’incunea profondamente – in direzione nord-sud – fra quelli dell’ Itria e della Giacanda (o Giacanta), formando in basso gli alvei di due fiumi torrentizi, lo Janni Mauro (o S. Francesco) ed il Pozzo dei Pruni (o Santa Maria). Questi alvei si congiungono proprio all’estremo sud dell’altopiano e dello sperone del castello. Da qui si diparte il fondovalle, compreso fra la Giacanda a levante e l’ Itria a ponente, pervenendo poi alla base del quarto altopiano, quello di Monserrato. Ma fra la Giacanda e Monserrato si forma il profondo solco di un altro torrente,   il S. Liberale. Infine, frutto della confluenza di tutti i predetti corsi d’acqua, fra l’altopiano dell’ Itria e quello di Monserrato scorre ampiamente in direzione sud-ovest, verso Scicli ed il mare, il Moticano1.

Sui declivi degradanti delle colline e sullo stesso fondovalle, con una quota media di 310 metri s.l.m., si sviluppa la parte bassa di Modica; sull’altopiano del Castello, ad una quota media di circa 430 metri s.l.m. si estende la parte alta, la più antica, della Città. Sull’altopiano di Monserrato ( ma non sul suo declivio, mai urbanizzato2) si va sempre più estendendo, in questi ultimi decenni, la parte nuova della Città, il quartiere S. Cuore (denominato comunemente ‘Sorda’).

Un’ ampia e suggestiva conca, dunque, formata e circondata da quattro colline, con corsi d’acqua che nel passato l’attraversavano, nonché con numerose sorgive emergenti lungo il fondovalle, insieme alla feracità del suolo sugli altopiani e in prossimità delle ‘cave’ circostanti, ed alla difendibilità del luogo, aveva certamente le caratteristiche per costituire fin dai secoli più lontani un sito ideale per essere stabilmente abitato. Ma la presenza di tali alvei torrentizi e degli altipiani ha pure decisamente condizionato il tipico sviluppo urbanistico della Città. Le ragioni, infatti, che hanno fatto definire questo paesaggio come uno dei più “singolari che si possano immaginare”3, quello che ha fatto scrivere di “rara singolarità della sua topografia”4, sono molteplici e da ricercare, appunto, nella disposizione e nell’aspetto delle quattro colline, e, in connessione con tale dato, nel modo in cui le abitazioni si sono incuneate all’interno degli aspri solchi rocciosi e si sono arrampicate sui crinali scoscesi, assecondando pure il disegno tracciato dagli alvei torrentizi che può essere indicato come una doppia Y.

 

Pur avendo le stesse caratteristiche fisiche, le quattro colline godono di una sorta di ‘identità ‘ propria, dovuta alla storia che le riguarda:

- a sud ovest s’impone il Monserrato: questo il vero nome di quello che è visto come un ‘bastione’, ma che in realtà è un altopiano, considerato sacro5. Il suo nome è di origine spagnola6;

- opposto al Monserrato, avanza l’altopiano del Castello. E’ questo certamente il più ‘nobile’ fra i quattro, perché su di esso sorgeva il castello dei Conti7. Si volge a meridione come un lungo e poderoso sperone con le pareti a strapiombo ad oriente, ma in qualche modo discendente a gradoni verso la confluenza dello Janni Mauro con il Pozzo dei Pruni;

- la collina dell’Itria si distende ad ovest; sui suoi declivi è inserito l’intricato e suggestivo quartiere Cartellone, che fu a lungo abitato anche da comunità ebraiche (almeno fino al 1474, anno in cui si scrisse qui una pagina cupa – l’eccidio di Ebrei – della storia di questa Città8). Su di esso insistono, alcuni da secoli, grandi edifici conventuali;

- la Giacanda, o colle Gigante, si alza ad est, piuttosto tozza e brulla, e contiene la parte forse più nascosta e meno conosciuta della Città. Ai suoi piedi si sviluppa il quartiere del Casale.

 

2.  La parte bassa di Modica “fino alla seconda metà del secolo scorso fu ‘città delle acque’, ornata di ponti sui torrenti e sul fiume”9.

Il Pozzo dei Pruni o S. Maria, di maggiore portata, nasce10 a nord-est, in contrada Rassabia (o Rossabia). Aveva un decorso molto tortuoso ed uno sviluppo totale sino alla foce, sul mare di Donnalucata, di 26 chilometri e mezzo, e una pendenza del 19%; attraversava tutta la valle pianeggiante detta della Vaccalina e, prima di entrare in Città, raccoglieva le abbondanti acque della Fontana Grande (Fontana S. Pancrazio); quindi, costeggiando lo Sbalzo e il Salenitro, antichi quartieri con abitazioni in grotta, prendeva il nome di torrente S. Maria in questo suo tratto inferiore sino alla confluenza con lo Janni Mauro.

Lo Janni Mauro è anch’esso un fiume torrentizio. Nasce(va) a nord-ovest della Città, in contrada Margi, e, dopo aver ricevuto le acque della Funtanedda o Fonte Paradiso, sotto il ponte del Pisciotto, corre(va) davanti all’ex convento di S. Francesco la cava prendendo il nome di ‘torrente S. Francesco’ e dirigendosi verso il centro sino alla confluenza col S. Maria.

Il Moticano11, nato dalla confluenza di questi due affluenti, raccoglieva, dopo avere percorso per circa 300 metri un ampio alveo, le acque della sorgente Pozzillesi e del torrente San Liberale (o Santa Libera o ‘Santa Libranti’), provenienti da sinistra, e, prima di proseguire il suo corso verso il mare, prende a correre ed a slargarsi in un disteso letto, fra orti e saje, alimentato da ruscelli, e dando luogo alla Fiumara finendo per assumere per gran tratto tale denominazione.

Il Pozzo dei Pruni e, poi, il Moticano, lungo il loro corso giravano ventitré molini (sette dei quali dentro la Città) e si offriva per vari lavatoi pubblici.

 

La presenza dei predetti torrenti costituiva fino agli inizi di questo secolo un elemento di separazione fra le varie parti della Città, già peraltro caratterizzata da vuoti da ‘sorvolare’, ostacoli da superare, opposte sponde da collegare in virtù della singolarità della configurazione orografica di Modica col suo andamento articolato ed i suoi profili sinusoidali. Da qui il motivo della presenza di tanti ponti di natura diversa, nell’ambito urbano:

- diciassette ponti in pietra sopra gli alvei (ormai eliminati dopo la copertura dei medesimi);

- il ponte del Castello, che, superando una lunga gradinata, raccorda come ad incastro il corso S. Giorgio e il corso F. Crispi: un ponte “da abbordare tutto d’un fiato”12;

- possiamo oggi aggiungere un lungo ponte, altissimo (il più alto d’Europa fino a pochi anni fa), con pilastri in cemento armato: diretto ed immediato, passa sopra una profonda ed ampia vallata periferica della parte bassa della Città, unendo le sommità di due altopiani;

- infine i ponti abitati che, superando vie e scale, raccordano due corpi di case e associano alla funzione di ponte quella abitativa.

Sono tutti ugualmente ‘ponti’, benché diversi per struttura, materiali, funzioni, dimensioni, forma13.

 

3.  Il ponte è un elemento che si giustifica come superamento di un ostacolo naturale e appare come elemento di congiunzione tra parti divise. Si impone e, ad un tempo, si distacca dal paesaggio in cui si colloca. Conciliare la ‘levitas’, la ‘gravitas’ e l’‘impetus’: questa la sfida posta a progettisti e costruttori di ponti. “Il ponte”, infatti, “è diviso tra il principio di sospensione, una linea che è sospesa nel vuoto, e il radicamento alla terra, dato dalle sue spalle...”14.

Ma oltre le accezioni funzionali, il ponte riveste una valenza qualitativa, connessa alla sua natura di legamento di parti separate: diventa simbolo di incontro, di unità, di pace...se vogliamo, ma anche di salto, di volo. Costituisce pertanto un riferimento metaforico costante, in particolare per il suo forte richiamo alla dialettica dell’unità.

In tale contesto il ponte abitato, oggetto specifico della nostra indagine, indica – specie se presente come una costante nell’assetto urbanistico – una ‘qualità’ della vita di una Società e perciò una consapevolezza progettuale da riconquistare e rivitalizzare.

 

Con l'espressione ‘ponte abitato’ si indica quella tipicità di ponti il cui piano calpestabile o le cui strutture portanti vengono utilizzati per costruirvi edifici dalle più diverse destinazioni.

Tali ponti, destinati o no a residenza, supportano i nodi della maglia urbana, ridisegnano l’abitato urbano e ne articolano i margini. Interconnessioni spaziali, dunque, che finiscono per disegnare case e città come legamenti e radici verso un’ordine nuovo’, i ponti abitati costituiscono una fenomenologia assai vasta, che va da opere come il ponte di Rialto a Venezia, il ponte Vecchio a Firenze (per citare solo i più noti), fino ad esempi più modesti.

Ciò che li accomuna sembra essere l’accostamento tra il principio del ponte e una o più funzioni. Tale fenomenologia costituisce, di fatto, una realtà concreta, precisa, e tuttavia senza nome, sfuggita per lungo tempo ad una presa di coscienza relativa alla sua specificità ed al suo interesse.

Questo soggetto d’architettura, ricorrente nella storia della città europea, non ha infatti una denominazione propria: non esiste una tipologia ‘ponte abitato’, quanto piuttosto una disponibilità dell’idea di ponte ad assumere significati aggiuntivi.

C’è solo un termine tedesco, ‘Uberbautebrucken’ – letteralmente “ponti ai quali vengono sovrapposti edifici o sovrastrutture architettoniche” – che cerca di sopperire a questa carenza. Qualche studioso usa l’espressione ‘ponti sopraedificati’ o ‘ponti urbanizzati’, preferendola a quella di ‘ponti abitati’, giudicata un po’ “ambigua e sentimentale e limitante eccessivamente il concetto alla destinazione rara e restrittiva della residenza”15. Ma, poiché negli esempi presenti a Modica la destinazione è quasi sempre quella abitativa o a questa funzionale, noi preferiamo qui mantenere, per indicarli, l’espressione ‘ponti abitati’, come si è fatto finora. Si tratta infatti di spazi abitabili di più o meno modeste dimensioni o di passaggi da un corpo all’altro del medesimo edificio di abitazione.

Le caratteristiche morfologico-relazionali di tali ponti abitati modicani sono presenti in molteplici versioni, dando luogo ad un’elevata organicità di cammini, sentieri, percorsi. Ed è proprio camminando fra le vie più nascoste del centro antico della Città, letto nella sua integrazione mimetica nell’ambiente, che si trovano i numerosi ponti abitati, conferenti continuità fisica all’appropriazione del circostante entro le strutture significative del paesaggio. Per questo motivo i ponti abitati vanno qui considerati un ‘fenomeno territoriale’, poiché la loro presenza ha una relazione precisa con l’orografia del territorio e la morfologia urbana.

Abbiamo rilevato, infatti, che il ponte tende a superare un ostacolo. Nel nostro caso le vie e le scale che attraversano il territorio costituiscono l’ostacolo da superare: un “ostacolo che è artificiale”.

E, però, il ponte abitato, spesso pregnante d’intensità emotiva e carico di memorie, può essere legittimamente evocato come segno che ‘rimanda’ ad altro: non solo alla rappresentazione di una regola d’ordine, o al richiamo a contrastare un’architettura indifferente ai luoghi, ma pure al ‘sentire’ intensamente la Città, la convivenza civica, i rapporti quotidiani, il radicamento e la memoria storica..., in breve, al recupero di valori urbani spesso perduti. Il ponte abitato, cioè, può contribuire a ristabilire e valorizzare – come accennato – un antico ‘simbolico’ che segna un popolo16.

 

4.  Percorrendo (a piedi prevalentemente) Modica Alta e Modica Bassa, in tutte le direzioni, con andamenti piuttosto tortuosi (nel caso delle vie), e alquanto ripidi (nel caso delle scale), consideriamo ‘artificiali’ tali ostacoli, poiché questi occupano una superficie del tessuto urbano che in realtà è costituito da spazi vuoti. Le superfici occupate dalle vie, dalle strade, dalle scale, da tutti i possibili attraversamenti, si possono infatti considerare spazi vuoti (o aperti) della maglia, se confrontati con gli spazi occupati dall’edificato che si configurano come spazi pieni (o chiusi).

Ma i tornanti e le ripide scale e tutti gli stretti vicoli – ostacoli ‘artificiali’ – sono, a loro volta, conseguenza immediata della tormentata configurazione orografica del territorio e, in questo senso, sono un altro modo di affrontare, forse di aggirare, l’ostacolo naturale delle colline e delle cave. Ebbene, i ponti abitati, nel rispetto di tali precedenti strutture, sorte dall’adeguamento all’andamento del territorio, finiscono per occupare lo spazio da esso sottratto, realizzando così una continuità spaziale della città piena, del tessuto urbano. Con la realizzazione dei ponti abitati è perciò come se la parte ‘piena’ della Città si riappropriasse di uno spazio che si configura come struttura aperta.

Ma, se questo è l’affascinante ordito urbanistico che verifichiamo, l’effetto di una progettualità immanente per secoli a questa Città, perché nasceva la necessità di riappropriarsi dello spazio aperto, sottratto all’eventuale spazio chiuso? Dove risiedevano le ragioni immediate di questa connessione fra le case?

I motivi della volontà di connessione possono essere molteplici, per cui le ipotesi da noi avanzate a questo proposito sono varie. Esponiamo le più esemplificative:

- unire due o più unità edilizie separate da una via, in un primo tempo appartenenti a proprietari diversi e che in un secondo diventano proprietà di uno solo;

- intervenire contro il rischio sismico collegando con funzione di contrafforte le costruzioni separate;

- recuperare spazio per carenza e/o alto costo delle superfici edificabili;

- ricavare aria e luce in costruzioni talvolta ostruite dalla roccia e chiuse fra case “attaccate l’una all’altra”;

- ‘cultura’ di continuità urbanistica con i tanti ponti presenti sui torrenti di Modica.

Osserviamo che a Modica, prima che innesti edilizi dell’ultimo cinquantennio, frutto anche di una smarrita consapevolezza della cultura dell’abitare di questa Città, rompessero in alcuni punti la coerenza fra sistema viario, isolato e unità edilizia, la continuità del rapporto uomo-sito era più facile da cogliere. Per ritrovarla, basta salire per “la miriade di scale che si dipanano dalla città bassa o andare per vicoli e vanedde”17.

 

Un possibile percorso può avere inizio dalla Piazza Corrado Rizzone, là dove si trovava il ponte ‘Stretto’ o ‘dei Sospiri’, alla base della collina del Monserrato.

Avanzando sul corso Umberto I fino alla piazza del Municipio, si perviene (e ci lasciamo a destra, nascosto sulla via Lavinaro-S.Paolo, un ‘romantico’ ponte abitato-veranda...) all’ex convento dei Domenicani, ora sede del Municipio, ed all’annessa chiesa di S. Domenico. Sul lato sinistro di tale chiesa, ecco una sequenza di ponti abitati, bassi, arcani, ora silenziosi ma un tempo vivacizzati da mercati e da un vicino albergo, e sfocianti sulla via Giardina e sulla via Franzò.

Proseguendo verso la chiesa di S. Maria di Betlem, in via I. Galfo si trova il più lungo dei ponti abitati della Città che sfocia sul piazzale della chiesa ed apre ad una improvvisa, suggestiva vista dal basso dello sperone del Castello dei Conti.

Ritornando sulla via Marchesa Tedeschi si rileva a destra, di fronte alla piazzetta Mazzini, il ponte abitato, di più recente costruzione (liberty), sul vico Medica; lo stesso vicolo è sorvolato, poco oltre, da un ulteriore piccolo ponte abitato. Ma proseguiamo sempre sulla destra dell’ampia Via Tedeschi ed immettiamoci nella via Grimaldi, intima ed elegante, silenziosa e nobile, con pavimentazione in basole di pietra; qui si passa sotto uno dei ponti abitati più noti della Città. Continuando sulla medesima via e passando, a destra, sotto un altro ponte abitato si giunge ad uno slargo, sul quale si apre l’ingresso dell’antica chiesetta rupestre di S. Nicolò inferiore contenente un rilevante ciclo di affreschi.

Ritornando per breve tratto sui propri passi, si prosegue e, passando sotto un altro dei ponti abitati di via Grimaldi, – uno tra i più frequentemente attraversati, da secoli –, si sbuca ad una nuova altezza del corso Umberto I. Di fronte si alza il quartiere Cartellone, e, in basso, si distende il grande edificio dell’antico monastero delle Benedettine, dal 1866 divenuto Palazzo di giustizia; sulla destra del ponte e a ridosso del medesimo, la scalinata del duomo di S. Pietro (sec. XVI-XVII).

Superato tale ponte abitato e immettendosi verso destra sul corso principale, si apre, sulla sinistra, un ponte abitato – anzi due immediatamente successivi –. Esso raccorda, ai suoi lati, un edificio più modesto ed un altro di una certa pretesa e dignità architettonica. Tale ponte, che si configura come un tunnel ascensionale, costituisce di fatto l’accesso non informale allo storico quartiere ‘Cartellone’, cui si perviene dopo una ripida scalinata salendo, appunto, la ‘Salita Barbieri’ (cognome di una famiglia ivi una volta residente). Ma lo stesso ponte, sormontato al suo inizio da un ambiente abitato sulla cui facciata è inserito un blasone romboidale in pietra scolpita, e da un terrazzo che è quasi un palco teatrale sullo scenario urbanistico antistante, costituisce pure, in direzione opposta, un’apertura luminosa e sorprendente sulla scenografica scalea di S. Pietro e sull’ imponente facciata di quella chiesa basilicale.

Dopo il settecentesco palazzo Tedeschi, si incontra il solenne Palazzo degli Studi, già Collegio dei Gesuiti fondato nel 1629. Dalle tre ali laterali di tale nobile edificio, che si estende per 5000 mq, si accede alla quarta attraverso due alti (6 e 9 metri e larghi m 6 ca.) e possenti ponti abitati (vi si sviluppano ampi e luminosi corridoi scolastici) in calcare duro modicano, costruiti per superare con vigorosa decisione progettuale addirittura la Via Lunga/corso Garibaldi, che altrimenti taglierebbe posteriormente il complesso edilizio.

Dal corso Garibaldi si sale poi per una lunga e splendida scalinata che unisce la parte bassa e quella alta della Città, e si perviene al Duomo di S. Giorgio. Sulla destra della chiesa e superato il sagrato laterale, s’ insinua, tra vanelle attraversate da un mistico silenzio, il ponte abitato e con terrazzo di via S. Michele. Sempre sulla destra del tempio, ma proseguendo un attimo per il corso S. Giorgio e piegando poco dopo, giù, verso un’acciottolata scala, s’impone il passaggio sotto il noto ponte abitato della ‘Squaglia’: “un ponte oscuro, sudicio, sinistro e riservato ai ‘pilacchi’ ”18, ma uno dei varchi inevitabili per raggiungere più rapidamente la parte bassa della Città, o viceversa. Il cavaliere Squaglia aveva disteso in quel sito, e pure sul ponte, la sua casa patrizia con annessi nascosti orti e grotte; successivamente, in un tetro ambiente di quell’edificio, era stata allogata una cupa loggia massonica.

Ma torniamo sui nostri passi, e, costeggiando il fianco sinistro della chiesa di S. Giorgio, si prosegue per la via S. Chiara. Ci si addentra così per scale e vanelle nel quartiere S. Lucia o Francavilla, uno dei più antichi di Modica. Superata l’antica e silenziosa chiesa di S. Lucia, si svolta a destra per via Francavilla, quindi per le vie Nativo e Lorefice lungo le quali sono presenti altri ponti abitati. Si raggiunge l’alto piazzale Principe di Piemonte o Belvedere Pizzo (m 449 s.l.m.), uno dei più aperti e trionfali balconi panoramici sulla vallata e su tutta la Città.

Procedendo per la vicina via Pizzo fino alla solenne chiesa di S. Giovanni Evangelista, lungo il percorso s’individua in via Turlà un altro ponte abitato.

Alla base della scalinata di S. Giovanni, sul lato sinistro il ponte abitato di vico S. Carlo; di fronte alla medesima gradinata si aprono, sulla via Iabichino, due alti ponti abitati. L’itinerario invita a passare sotto di essi e piegare poi verso C.so Regina Margherita, arteria principale e ‘aristocratica’ – per via dei palazzi patrizi, oltre che dell’elegante facciata della chiesa di S. Ciro e della mole dell’ Albergo dei poveri, che si schierano ai suoi lati – della parte alta della Città. Scendendo per questa strada, prima di giungere alla neoclassica chiesa di S. Nicolò, si può osservare il ponte abitato di via Guerrieri che collega due antichi palazzi nobiliari.

5.  Ma diversi altri ponti abitati sono sparsi per vanelle, alimentando il tessuto urbano. Nonostante il succedersi delle varie stratificazioni protrattesi per secoli, nella città antica di Modica l’interrelazione costruito-roccia, architettura-natura è stata costantemente alimentata e si è mantenuta strettissima fino ad epoca abbastanza recente, consegnandoci così una testimonianza, alta ed emblematica, di un processo dinamico avvenuto pur sempre dentro un perseverante sistema di comportamenti, più che di regole.

E’ stato pertanto spontaneo partire dalla lettura del territorio fisico, nella sua stretta connessione con l’insediamento umano, e giungere all’osservazione dei ponti abitati, come manifestazione di uno sviluppo del costruire, proprio di Modica. Ed i ponti abitati hanno finito per costituire una precisa e caratteristica componente di questa Città.

Di ponti abitati a Modica ce n’è più di sessanta: simili per alcuni aspetti, propongono soluzioni spesso diverse; se ne osserva la molteplicità degli esempi; li si può confrontare con le strategie di utilizzazione del suolo; se ne legge soprattutto la ricorrenza nel contesto urbano.

Non solo sono numerosi e distribuiti quasi uniformemente sull’intera area che comprende la parte alta e quella bassa della Città, ma si può affermare che la loro intensiva presenza tiene – per dir così – ‘cucita’ la maglia del tessuto urbano nel suo particolare rapporto con l’elemento naturale.

Un rapporto quindi di profonda connessione, un assecondare rispettoso,  benché pure necessario: si direbbe quasi un atteggiamento di affettuosa complicità con i luoghi – severi e insieme accoglienti, aperti a prospettive luminose e sempre nuove su una vallata degradante da più lati come cavee di teatri greci – da parte di una Popolazione che per secoli ha lasciato sapientemente che le geometrie urbanistiche della propria Città venissero dettate dalle risorse offerte e proposte dalla struttura stessa del territorio.

 

 

 

NOTE

 

* (Siracusa, 1970). Dopo avere frequentato il Liceo scientifico ‘G. Galilei’ di Modica, si laurea in Architettura presso l’Università degli Studi di Palermo (1997). E’ Operatore di restauro di decorazioni d’epoca su superfici lapidee. Ha partecipato al seminario di ‘Disegno e Rilievo’ (Facoltà di Architettura dell’Università di Genova), al corso di ‘Recupero edilizio e conservazione dei materiali lapidei’ (CEE ed ISIS di Palermo), al corso di ‘Restauro e manutenzione delle decorazioni d’epoca’ su superfici lapidee (DLD di Milano), ad uno Stage formativo sulle tecniche: affresco, graffito, marmorino (Milano). Borsa di studio in Francia e Svizzera (conoscenza diretta delle opere di Le Corbusier e di altri Maestri di Architettura).

Ha partecipato al restauro di decorazioni d’epoca (Palazzo Polara, Modica; Pal. Montesano, Chiaramonte; chiesa S. Anna, Ispica; chiesa di S. Carlo Borromeo, Noto; edicole votive). Ha progettato l’ampliamento della chiesa della Missione di Lukanga (Congo) e il centro laboratori d’artigianato (ivi, Congo).

Risiede a Modica, in via Modica Sorda, 8. Tel.0932/946809.

 

(1) Cfr. G.Assenza, Il risanamento di Modica: le grotte abitate, in Angelo Scivoletto, Una questione meridionale. Le grotte abitate di Modica, Milano 1974, pagg. 22-23.

(2)...eccettuato, piuttosto fuori dal centro urbano (sulla ‘fiumara’), l’alto insediamento rupestre di Cava Ddieri (antica età del bronzo, e, poi, in età greca, romana, araba e normanna). Cfr. V. G. Rizzone, Alcune osservazioni sulla chiesa rupestre di ‘Cava Ddieri’, in Archivum Historicum Mothycense, n. 2/1996 , pagg. 49-56.

(3) (4) S. Minardo, Modica antica. Ricerche topografiche archeologiche e storiche, Palermo 1952 , pagg. 130-131, rist.1998.

(5) Secondo la leggenda, il gigante Mudoc, che si cibava di miele, se ne stava nella gola di queste montagne coi suoi buoi, i più belli della Terra, e pur essendo di indole pacifica la sua gelosia verso le mandrie lo portò ad urtarsi con Apollo che su di esse avanzava delle pretese. La lotta si protrasse per secoli, fino a quando Apollo non addormentò il rivale serrandolo fra le gole delle montagne e lasciandogli scoperto solo il capo, con la faccia rivolta ad oriente. Il mito vuole che un giorno Mudoc, il gigante buono, si desterà spaccando la montagna, il suo corpo verrà fuori più vigoroso di prima. Allora il mito solare avrà compiuto il suo ciclo...Cfr. E. V. Marino, Pellegrinaggi nella Sicilia sconosciuta, in A. Belluardo, Alla scoperta di Modica, Modica 1970, pag. 388.

(6) E’ noto infatti il riferimento al ‘Monserrat’, in Catalogna, il monte ove sorge un famoso santuario mariano spagnolo; anche in vetta al declivio del modicano Monserrato sorgeva (fino al 1933-34) il santuario di S. Maria della Croce. Cfr. G. Colombo, Maria di Nazaret, una donna fra noi (sul culto mariano a Modica), ed Vatjg, Modica 1991, pagg.99-100 (S. Maria di Monserrato).

(7) Circa l’abitazione, lungo i secoli, di questa rocca, cfr. A. M. Sammito, Elementi topografici del centro urbano di Modica, in Archivum..., n. 1/1995, pagg. 25- 36; F. Pompei, Il Castello dei Conti di Modica tra il XVII e il XVIII secolo, in Archivum..., n. 3/96, pagg. 5- 20; P. Carrafa, Il Castello di Modica prima del 1693 ,ivi, pagg. 21-24.

L’altopiano si prolunga e si amplia notevolmente verso settentrione e, all’estremo Nord, degrada prendendo la denominazione di ‘Aquila’.

(8) Cfr. G. Modica Scala, Le Comunità ebraiche nella Contea di Modica , Ed. Setim, Modica 1978.

(9) G. Cavallo, Conoscere, amare, rispettare Modica, Modica 1996 , pag. 12.

(10) Anche adesso è presente, ma si disperde in gran parte ben presto per molteplici cause.

(11) La sua portata calcolata alla foce, assai limitata in tempo di siccità, raggiunse durante l’alluvione del 26 Settembre 1902 il valore approssimativo di 900 metri cubi al secondo, cioè circa la metà della portata media del Po al suo delta, nel breve spazio di un quarto d’ora, dalle 5:30 alle 5:45 di quell’infausto giorno. Cfr. P. Revelli, Il Comune di Modica , Palermo 1910, pagg. 128-147 e pagg. 220-229; cfr. anche G. Modica Scala, La grande alluvione, Modica 1969. Si rilevi come già V. Amico, annotando T. Fazello, De rebus siculis decades duae, 3a ed. Catania 1749-1753, vol. 2 , pag. 464, osservasse : “In orientali valle amnis Motycani Ptolomaeo memorati fontes, quos inter speciali mentione dignus est ille quem Puteum a Prunis vulgo dicunt , ex quo hyemali tempore tam grandi vi ingens aquae copia erumpit, ut ad passus circiter sex aliquando in altum sublata arcum insigni spectaculo exhibeat, sub quo mortales immadidi ultro citoque permeant”.

(12) E.V. Marino, Il castello, in A. Belluardo, Alla scoperta di Modica, Modica 1970, pag. 457.

(13) Altri ponti, di modeste dimensioni, sono sparsi qua e là per le cave che si aprono e si irradiano nel territorio che si estende al di là del centro urbano di Modica.

(14) Vittorio Gregotti, Dario Matteoni, Introduzione, in Rassegna, n. 48, pag. 9, Bologna 1991.“Il problema del superamento degli ostacoli più importanti viene spesso risolto nelle nostre città con sinistre passerelle pedonali e squallidi passaggi sotterranei; il loro carattere opprimente rivela un fallimento dal punto di vista urbano e una deriva verso un materialismo primordiale”; Jean Dethier, Storia e attualità del ponte abitato, in Rassegna, n. 48, pag. 19, Bologna 1991.

(15) Jean Dethier, Storia e attualità ..., cit. , pag. 10.

(16) Col termine ‘simbolico’ intendiamo “il sistema di ‘simboli’ linguistici, verbali e non verbali , nella cui specificità, rispetto a sistemi di simboli di diversi luoghi e di diversi tempi, può individuarsi la tipica modalità di vedere (e di organizzare) la vita, ossia una specifica ‘cultura’”. G. Colombo, op. cit., pagg. 121-122.

(17) F.A. Belgiorno, Modica, Modica 1990, pag . 86.

‘Vanedde’ (lett. ‘piccoli vani’): si intendono le vie urbane modicane di larghezza notevolmente ridotta. Rileviamo che sulle vanedde non si aprono soltanto abitazioni modeste bensì pure grandi case patrizie, essendo Modica una città in cui (con esclusione delle vie principali lungo le quali nell’ ’800 fu distesa una serie continua di palazzetti borghesi) permane la struttura urbana medievale con innesti di palazzi barocchi ed ottocenteschi e con un retaggio di comunicazione e di frequenza tra i vari ceti sociali. E le stesse interconnessioni mediante i ‘ponti abitati’ sono comuni alle une ed alle altre abitazioni, anche se, ovviamente, agli edifici con almeno un piano sopraelevato.

Il termine ‘vanedda’ viene pure utilizzato per le antiche, numerose, talvolta lunghe strade interpoderali del contado.  (N. d. C.)

(18) G. Colombo, Le erbe amare - Dalla storia di una Comunità cristiana in Sicilia negli anni 1967-1973, Ed. Dialogo, Modica 1978, pag. 137.