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La pietra nelle esperienze
costruttive del territorio degli Iblei,
dopo il terremoto del 1693
di Vincenzo Cicero*
Nelle città
costruite sui monti Iblei, sugli altopiani e nelle vallate che vi si
aprono, la pietra è la vera protagonista dell’arte muraria. Le diverse varietà
di calcare sono state il supporto fondamentale di qualsiasi attività
costruttiva: dei muri a secco, che caratterizzano la campagna (soprattutto dei
territori della Contea di Modica), delle masserie1 e ville, dei
centri urbani e delle chiese che li segnano con le loro facciate e le solenni
scalinate.
Le ragioni
dell’impiego così diffuso del materiale lapideo sono essenzialmente due:
- la presenza
notevole di pietra, facilmente estraibile e lavorabile, sia essa calcare duro o
tenero, o pietra lavica (anche se quest’ultima ha avuto un impiego soprattutto
come basole nella pavimentazione stradale, essendone piuttosto onerosa la
lavorazione);
- la totale
assenza di materiali in laterizio, come i mattoni, dovuta alla mancanza di
materia prima in zona.
Soltanto per
tombe-mausoleo, all’interno di chiese, o per pavimentazioni specie di aule
chiesastiche, troviamo l’uso di marmi policromi, importati.
1. La pietra
nell’edilizia dal 1693 agli anni ’50 del Novecento.
Dopo il
disastroso terremoto del 1693, il territorio sud orientale della Sicilia fu
interessato – con processo graduale ma via via più accelerato – da un’intensa
attività di ricostruzione. Materiali2 e tecnica edilizia rimasero
poi pressoché immutati fino agli anni ’50 del Novecento.
L’edilizia
civile ed ecclesiastica del dopoterremoto si espresse – com’è noto – con opere
quantitativamente e qualitativamente di alto rilievo. Tra le più importanti di
queste accenniamo alle chiese di S. Giorgio (R. Gagliardi, 1746-1775) e di S.
Giovanni nuovo (M. Spada e R. Boscarino, inizio ‘700), a Ragusa; alle chiese di
S. Giorgio (facciata – rielaborata nella progettazione definitiva da capomastri
locali – di P. Labisi, 1761) e di S. Pietro (M. Spada e R. Boscarino, inizio
‘700), a Modica; alla chiesa di S. Domenico ( R. Gagliardi, 1703-1727), alla
cattedrale (architetto ignoto, 1693-1770), al palazzo Ducezio (V. Sinatra,
1764), a Noto; al palazzo Beneventano, con la sua decorazione fantastica, a
Scicli. Ricordiamo pure le grandi e nobili chiese di Palazzolo Acreide, di
Buccheri, di Cassaro, di Buscemi..., sparse sugli Iblei.
Tutto questo
poté realizzarsi certamente grazie all’operosità di architetti, di ingegneri,
di capimastri, di scalpellini, di ‘pirriatori’, di scultori; ma anche grazie
alle qualità della pietra.
Antony Blunt
osserva: “La pietra... è... di un pallido colore giallo-oro che al sole
acquista un’indescrivibile opulenza: abbastanza tenera per consentire un taglio
elaborato, la si può anche lasciare quasi nuda, in modo da dar libero corso al
molteplice linguaggio della materia”3. Tale varietà di pietra è
il calcare tenero, facilmente lavorabile, che pertanto si è adattato molto bene
per creare gli elementi ornamentali degli edifici civili ed ecclesiastici,
anche se l’impiego per scopo ornamentale è stato, da sempre e fino a pochi
decenni fa, coniugato con quello strutturale.
Anche altre
varietà hanno trovato un impiego notevole, come i calcari più duri e
compatti, impiegati nelle pavimentazioni esterne e nei basamenti degli
edifici. Un caso rilevante e di vero interesse è pure l’uso di tale pietra –
lasciata a vista – per le colonne nell’interno della chiesa di S.Giorgio in
Modica. La pietra pece, poi, è stata impiegata largamente nelle
pavimentazioni interne e nelle scalinate antistanti numerose chiese.
Le pietre da
costruzione impiegate nel territorio degli Iblei sono essenzialmente pietre di
composizione carbonatica il cui costituente principale è il carbonato di calcio
(CaCO3), sono molto diffuse su tutta la zona, e, a seconda della porosità e
quindi del grado di compattezza, possiamo distinguerle in due gruppi:
1. calcari
molto porosi e poco compatti;
2. calcari
poco porosi e più compatti rispetto ai precedenti.
1.1. Calcari
molto porosi e poco compatti.
Appartengono a
questo gruppo il calcare tenero e la pietra pece.
Il calcare
tenero, detto anche pietra da taglio, col
suo colore bianco che – a seconda delle cave di estrazione nonché
dell’esposizione diversa agli agenti atmosferici – gradualmente si fa
giallo-oro oppure leggermente grigio, è il materiale lapideo in assoluto più
diffuso in questo territorio, ed ha trovato da sempre impiego sia in elementi
costruttivi (muri, volte, archi, ecc.) sia in elementi decorativi (fregi,
lesene, capitelli, ecc.). La sua formazione geologica risale al periodo che va
dal Serravalliano al Messiniano (10-20 milioni di anni fa).
L’abbondanza
di questo materiale e la facilità con cui poteva essere lavorato giustificano
un impiego così diffuso.
Le cave di
estrazione erano ubicate a ridosso dei centri abitati o all’interno di essi, e
talvolta anche nel sito stesso dove sarebbe sorta la fabbrica. Ad esempio, il
materiale occorrente per gli interventi alla fabbrica della chiesa di San
Giorgio in Modica venne estratto in cave ubicate in zone diverse: in contrada
Vignazza, in contrada S. Filippo, in contrada sopra la Pianta di S. Teresa, a S.
Maria di Gesù, alla Consolazione4; altre cave modicane: in contrada
Vaccalina e in una grande grotta ai piedi della collina dell’Aquila.
Per quanto
riguarda la facilità di lavorazione bisogna dire che non sempre ciò implica
pure – come nel nostro caso – buona resistenza al processo di deterioramento.
Infatti, osservando lo stato di conservazione delle diverse fabbriche sparse
per città e campagne, si evince come gran parte di questo materiale lapideo
utilizzato risulti oggi piuttosto degradato.
Le cause sono
diverse: la cattiva manutenzione del manufatto, talvolta la non corretta messa
in opera dei conci, l’esposizione rispetto agli agenti atmosferici; ma una più
di tutte, stante alla base, è quella legata alla struttura propria di questo
tipo di pietra, cioè la ‘porosità’ che si attesta a valori intorno al
30%5.
La struttura
porosa della pietra dipende dalla sua genesi e dalla sua particolare storia,
cioè dall’insieme dei processi naturali che essa ha subito nel tempo, per cui i
minerali che la costituiscono risultano separati da ‘spazi vuoti’,
normalmente indicati come ‘pori’ o ‘capillari’, di forme e
dimensioni diverse, aperti o chiusi.
Questa
caratteristica accentua soprattutto i processi degenerativi con la presenza di
umidità. “Infatti, l’acqua è fattore preminente in tutti i processi di degrado
e questi avranno quindi evoluzioni ed effetti diversi se il materiale è
compatto, non permeabile per porosità o se, al contrario è poroso e permeabile.
Nel primo caso i processi di alterazione riguarderanno soltanto la superficie
esposta, ed eventuali vene o fessure localizzate entro le quali l’acqua possa
penetrare. Nel secondo caso è tutta la massa del materiale, per uno strato
variabile a seconda della specie litoide, che verrà interessata”6.
Le forme di
degradazione più diffuse sul calcare tenero sono: l’alveolazione, la disgregazione
sabbiosa, le efflorescenze, l’esfoliazione e le croste
nere7.
Oggi,
l’interesse applicativo di questa pietra è notevolmente calato sia per
l’esclusione di elementi decorativi scolpiti sia, appunto, a causa della sua
durabilità minore rispetto al calcare non poroso. Il calcare tenero pertanto
viene impiegato nel recupero di edifici esistenti, anche se non manca l’uso in
qualche nuova costruzione in muratura. Rispetto al passato, le zone di
estrazione si sono notevolmente ristrette: esistono pressochè esclusivamente
tre bacini estrattivi localizzati rispettivamente in contrada Fondi Nuovi di
Palazzolo Acreide, e nelle contrade Porcari e Stallaini di Noto8.
Per questo il nome commerciale è pietra di Palazzolo e pietra di Noto,
o più in generale pietra bianca di Siracusa9.
L’estrazione
avviene in cave ‘a fossa’, in cui si procede per livelli orizzontali
discendenti. Questo metodo di coltivazione abbisogna di una preliminare
asportazione del terreno superficiale e della creazione di una piazzola
orizzontale, abbastanza ampia da consentire i movimenti dei mezzi di trasporto.
A questo punto si dispongono opportunamente, sul piano di cava, dei binari sui
quali scorreranno due tipi di seghe a disco. Il taglio dei blocchi, infatti,
viene eseguito tramite l’azione combinata di queste due macchine a disco, una
con disco ad asse orizzontale, chiamata ‘tagliatrice’ che esegue i tagli
verticali e l’altra con disco ad asse verticale, denominata ‘stozzatrice’ che
esegue i tagli orizzontali; il distacco del blocco viene poi completato con
l’ausilio di leve e cunei.
In questo
modo, si possono ottenere blocchi con dimensioni predeterminate, piccoli o
grossi: i primi chiamati ‘blocchetti’, di 43×20×17 cm, sono utilizzati
per la realizzazione di muri portanti, i secondi, di maggiori dimensioni, sono
destinati agli stabilimenti di lavorazione. Le dimensioni massime (larghezza e
spessore) del blocco dipendono dal diametro del disco che viene utilizzato nel
taglio. Si possono ottenere blocchi con lunghezze fino a 250 cm. In passato,
prima dell’introduzione delle tagliatrici a disco, la coltivazione avveniva
sempre per livelli orizzontali discendenti ma il taglio era effettuato
completamente a mano con picconi, cunei e mazze10.
Quella che
comunemente viene chiamata pietra pece11 (o anche roccia
asfaltica, pietra da asfalto, ecc...), è un calcare impregnato di bitume.
La formazione geologica è collocabile nel Miocene (10-26 milioni di anni
fa). Si tratta di un calcare che è venuto a contatto con gli idrocarburi,
durante il tempo stesso della sua formazione; pertanto nella pietra pece si
trovano, oltre ai caratteri degli ordinari calcari, anche quelli dovuti
all’impregnazione di bitume, che sono evidentemente funzione del tenore di
bitume. Il colore di questa pietra va gradatamente dalla tinta chiara (color
cioccolato), alla scura (color bruno intenso) col crescere della percentuale di
bitume. La tinta, qualunque sia la sua intensità, sbiadisce quando la pietra
viene esposta all’aria.
Conosciuta
dall’uomo sin dai tempi più antichi, questa pietra è stata utilizzata, non solo
nel campo delle costruzioni, ma anche per scopo ornamentale.
Opere
rilevanti sono un fonte battesimale del 1545, scolpito da Vincentio de Blunto,
una lapide sepolcrale del 1577, conservata presso la chiesa di San Francesco
all’Immacolata a Ragusa inferiore, la balaustra di uno scalone nell’annesso
convento (sec. XVII), una grande acquasantiera a S. Maria di Betlem in Modica,
la statua di ‘San Giovanni u niuru’ (San Giovanni il nero) conservata
presso la cattedrale di San Giovanni Battista a Ragusa, sette pregevoli altari
e due eleganti balaustre che si distendono con originalità sui lati lunghi
nella chiesa dei PP. Cappuccini a Modica.
Dal XVIII
secolo in avanti, “la pietra pece appare molto usata nei ballatoi dei balconi
in lastre lunghe circa un metro, nelle pavimentazioni degli interni, nelle
gradinate (come quelle davanti alle chiese di S. Giorgio e S. Pietro a Modica),
ed anche in parti architettoniche vere e proprie: a Ragusa, nella chiesa di San
Giovanni, sono di questo calcare bituminoso le colonne interne, coperti
d’intonaco i fusti, in vista le basi ed i capitelli; in quella di San Giorgio,
le colonne delle navate hanno le basi di una bella varietà nera tirata a
pulimento e lucidata. Nella stessa chiesa il pavimento è bicolore, prevalendo
il calcare grigio bituminoso su quello bianco normale”12.
A partire dalla
fine dell’ottocento e fino ai primi decenni del novecento, la pietra pece è
stata sfruttata dall’industria dell’asfalto per la pavimentazione stradale.
Questo tipo di sfruttamento fu sperimentato, ed ebbe maggiore successo,
dapprima all’estero come in Inghilterra e in Germania, e soltanto più tardi in
Italia, poichè lo sfruttamento dei giacimenti era in mano agli stranieri13.
Intorno al 1930, questo sistema di pavimentazione stradale va in crisi, perché
non risponde alle nuove esigenze del traffico automobilistico, che richiede
superfici più adatte. L’unica via di sfruttamento industriale fu perciò quella
della distillazione per ricavarne olii combustibili.
Nella pratica,
i cavatori individuano almeno sei qualità di questa pietra, denominati con nomi
diversi: albame bianco, albame nero, giurbina, pece nera, pece grassa,
pignatura di colore rossastro; la più adatta, per l’impiego in edilizia è
quella a più alto tenore di bitume ed è usuale distinguerla in due diversi
tipi, a seconda del grado di impregnazione: zoccolo e pece.
I metodi di
estrazione della roccia asfaltica dipendono dalle applicazioni alle quali è
destinata, a loro volta condizionate dal tenore di bitume.
Il materiale
destinato alla produzione di mattonelle compresse, richiede un maggior tenore
di bitume che deve essere compreso entro limiti ristretti, mentre invece il
materiale che va alla distillazione richiede una scelta meno accurata poiché il
tenore di bitume può essere compreso in un intervallo più ampio.
La pietra
destinata alla costruzione edilizia deve avere, invece, un tenore di bitume che
non sia né troppo alto, né troppo basso (~ 5%). L’alta percentuale di bitume
rende inutilizzabile la pietra per questi lavori, a causa della sua grande
suscettibilità al rammollimento all’aumentare della temperatura.
In base
all’attitudine della roccia si hanno quindi cave e tecniche di coltivazione
differenti. La coltivazione come pietra per la distillazione e per la
produzione di mattonelle compresse, può avvenire sia in galleria che a cielo
aperto. Nel primo caso si procede con il metodo a camere e pilastri
abbandonati; nel secondo invece, dopo un primo sbancamento totale, la
coltivazione prosegue a gradoni che si sviluppano con andamento ad anfiteatro.
In entrambi i casi, la roccia viene abbattuta mediante l’uso di esplosivi. La
coltivazione come pietra da taglio per costruzione, avviene solo in cave a
cielo aperto e si procede per livelli orizzontali discendenti, con le stesse
modalità di taglio del calcare tenero, usando seghe dentate.
1.2. Calcari
poco porosi e compatti.
Appartengono a
questo gruppo la ‘pietra di Comiso’ e la ‘pietra di Modica’.
La formazione
della ‘pietra di Comiso’14 risale all’Oligocene Superiore (37-38
milioni di anni fa). Si trova nelle colline sovrastanti la città di Comiso,
presentandosi in diverse stratificazioni di varia qualità, dalla struttura più
porosa a quella più compatta. Sin dai tempi più antichi, la pietra di Comiso è
conosciuta ed utilizzata, non solo in loco, ma anche altrove. In città la
troviamo in alcune latomie, che risalgono all’epoca delle colonie greche, nei
sarcofaghi e nei sepolcri delle necropoli greco-romane del IV secolo a. C.. I
resti bizantini, normanni ed aragonesi del castello feudale, e le costruzioni
più recenti di chiese, edifici pubblici e privati, testimoniano come fosse
frequente e diffuso l’utilizzo e la lavorazione della pietra di Comiso.
L’esportazione
della pietra cominciò alla fine dell’Ottocento, favorita dalla costruzione
della ferrovia Siracusa-Licata avvenuta nel 1889; se ne è fatto uso in tutta la
Sicilia (sono da ricordare il Teatro Massimo e il palazzo delle poste a
Palermo), a Tripoli, a Bengasi, a Malta, ecc.
La coltivazione
della pietra di Comiso viene fatta in cave a ‘cielo aperto’, dato
che questo tipo di roccia presenta una certa omogeneità su un fronte
sufficientemente ampio tale da consentire l’attacco con i mezzi di estrazione.
Questo determina l’apertura di cave ad ‘anfiteatro’, quando i giacimenti
affiorano a mezza costa sui rilievi, mentre nelle zone pianeggianti gli scavi
vengono effettuati a ‘fossa’.
L’abbassamento
della superficie del suolo avviene in modo graduale, seguendo la successione
degli strati, fino ad arrivare ad una profondità che va da 30 a 100 m.
Successivamente i cunei vengono battuti con mazze fino a produrre una
spaccatura lungo il piano su cui sono allineati. Effettuata la spaccatura il
pezzo viene spostato attraverso leve e poi movimentato con l’aiuto, nel caso
della cava in esame, di una pala meccanica .
Ogni cava è
costituita dalla successione di una serie di strati, generalmente ventiquattro
per le cave a ovest di Comiso, un numero maggiore per quelle a est; la qualità
e il tipo della pietra variano a seconda della profondità dello strato in cui
viene estratta. Lo spessore degli strati è variabile, e ognuno di essi presenta
una maggiore o minore durezza rispetto all’altro. Ogni strato ha una propria
denominazione dialettale, derivante dalla tradizione locale; la sequenza degli
strati, procedendo dall’alto verso il basso, è la seguente: 1) base, 2)
timpazza di sopra; 3) timpazza di sotto; 4) scuoccio; 5) buttignuni; 6)
marcasita; 7) timpa di quattro palmi; 8) selvaggia; 9) carruara selvaggia; 10)
crapazza selvaggia; 11)...17) selvaggi; 18)assisa di tre palmi; 19) latina;
la sequenza continua sempre con denominazione locale.
La ‘pietra
di Modica’15 detta anche ‘calcare duro’ o ancora ‘pietra
forte’, la cui formazione geologica è collocabile nel Miocene (10-26
milioni di anni fa) come le pietre di tutta la zona dei monti Iblei, ha un uso
antico e continuato nei secoli, fino al 1950-60, quando subisce un calo
nell’utilizzazione a causa del massiccio impiego del cemento armato. Questa
pietra ha trovato larghissimo impiego, nel passato, per elementi di
zoccolatura, per basamenti, per pavimentazioni esterne lastricate, per
cantonali, per gradini e per tutti quegli elementi che non richiedevano una
lavorazione troppo elaborata data la sua durezza. Da alcuni anni la pietra di
Modica è stata notevolmente riscoperta, ed è sempre più valorizzata per la sua
rusticana e, ad un tempo, nobile bellezza.
Non sono
esistite, né esistono a tutt’oggi, cave propriamente dette di estrazione, ma
esiste una zona abbastanza ampia del territorio modicano, dove questo tipo di
pietra è presente sotto forma di massi chiamati ‘balate’, affioranti sul
piano di campagna. “Prima dell’uso delle pale meccaniche, per sollevare e
movimentare le ‘balate’ affioranti sul terreno, gli scalpellini
lavoravano direttamente su di esse in aperta campagna, riquadrando con solchi a
V, del tipo di quelli per il calcare tenero, i diversi pezzi secondo le misure
richieste; poi, inserendo in essi dei cunei, con colpi di mazza si rompeva a
misura voluta la roccia. Le tecniche di lavorazione antiche si sono in parte
conservate nella attuale seconda lavorazione fatta sui pezzi squadrati con
seghe a disco diamantato”16. A seguito dell’estrazione delle ‘balate’
dal piano di campagna, non si ottiene soltanto materiale per l’edilizia, ma
si consente pure di bonificare il terreno agricolo, rendendolo coltivabile.
I massi
affioranti, con dimensioni dell’ordine di 1-1.5 m in larghezza, di 2-3 m in
lunghezza e di 0.3-0.6m in spessore, vengono oggi estratti dal suolo con
l’ausilio di pale meccaniche, e poi mediante camion vengono trasportati all’interno
dello stabilimento di lavorazione. I fiorenti stabilimenti più importanti per
la lavorazione sono concentrati nel territorio di Modica, specie nei dintorni
della frazione di Frigintini e presso la Torre Rodosta.
2.
Procedimenti costruttivi.
Nei procedimenti
costruttivi fu dunque determinante – come sopra accennato – l’uso del
materiale lapideo locale. Da questo si ottenevano i blocchi e i conci
sagomati a seconda delle esigenze, ma pure la calce tramite la
cottura di pietrame di fiume in forni detti localmente ‘carcare’. Altro
legante molto usato era il gesso. A questi materiali da costruzione
possiamo aggiungere per completezza il legno e le canne. “Questi
materiali locali venivano utilizzati secondo una lavorabilità propria in grado
di conformare diversi elementi costruttivi. Essi sono organizzati o secondo
lavorazioni semplici come la ‘formatura’ eseguita con getto di malta di
gesso in cassaforme lignee dentro le quali era stato predisposto del pietrame
minuto....Oppure secondo lavorazioni complesse come ‘l’addizione’ di
conci, irregolari o squadrati”17. Con la prima lavorazione si
potevano realizzare, modellando indirettamente con la cassaforma, o setti per
partizioni interne portanti o portate, oppure archi e volte per chiusure
orizzontali o rampe di scale. Con il procedimento dell’‘addizione’ di
conci, si realizzavano ‘setti’ di murature per chiusure verticali oppure
archi o volte per chiusure orizzontali, completati successivamente con
lavorazioni a ‘stratificazione’ sia per gli intonaci che per le
pavimentazioni.
Gli elementi
di fabbrica che esamineremo nell’analisi seguente sono:
1) le
fondazioni;
2) i muri
portanti esterni;
3) i muri
di divisione interna;
4) le volte;
5) le
pavimentazioni.
2.1. Le
fondazioni.
Esistono casi
in cui la muratura poggia direttamente sullo strato di roccia compatta, che
affiora dal piano di campagna o si trova poco al di sotto, ed è quindi
raggiungibile dopo un breve scavo. Se lo strato di roccia compatto era
inclinato, prima che venisse iniziata la muratura esso veniva sistemato a
gradoni orizzontali.
Quando invece
lo strato di roccia compatta, o comunque di terreno più consistente, si trovava
ad una profondità maggiore, veniva eseguita una fondazione vera e propria, con
una muratura a sacco, fatta con conci di ‘calcare duro’ o pietrame di
fiume, di grandezza differente, e abbondante malta, confezionata con ‘ciarera’18,
sabbia di fiume e calce. Lo scavo veniva completamente riempito procedendo per
strati sovrapposti di pietrame e calce.
Rispetto al ‘calcare
tenero’, venivano preferiti questi materiali per due motivi principali:
- perché più
resistenti;
- perché
offrivano una maggiore coibenza, limitando l’ascesa dell’umidità del sottosuolo
per capillarità.
2.2. I muri
portanti.
La distinzione
fra un tipo di muratura ed un altro riguarda principalmente l’utilizzo di conci
perfettamente squadrati rispetto a quelli mediamente squadrati o a quelli
appena sbozzati; queste differenze tra i conci erano determinate dal tipo di
pietra dalla quale questi venivano ricavati, e perciò dipendevano dalla
presenza o assenza in un certo luogo di un certo tipo di pietra. Così ad
esempio a Modica è più facile trovare muri realizzati con conci mediamente
squadrati in quanto ottenuti dal ‘calcare duro’; mentre a Noto, in cui
abbondava la pietra tufigna, si hanno in genere muri realizzati con conci
grossolanamente squadrati solo sulla faccia esterna. Indipendentemente dal
luogo, invece, l’utilizzazione di conci squadrati dipendeva dall’importanza
dell’opera da realizzare e se la muratura doveva essere lasciata a vista.
In tutti i
casi, i conci, provenienti dalla cava o ricavati sul posto, venivano squadrati
in cantiere dal muratore, che li murava secondo il senso della loro
stratificazione.
La muratura veniva
eseguita a due facce parallele, procedendo per corsi orizzontali aventi
spessore dipendente dalle dimensioni dei conci; tale spessore di solito non
superava i 40 cm. La sovrapposizione dei corsi veniva fatta in modo da ottenere
lo sfalsamento dei giunti verticali dei conci. Per avere una buona
distribuzione dei carichi su tutto il muro, ogni corso veniva spianato o rasato
riempiendo tutti i vuoti con scaglie di pietrame e malta, e talvolta, per
meglio garantire un’omogenea distribuzione dei carichi, veniva realizzato uno
strato di malta e pietre minute, aventi tutte la stessa altezza, alternato allo
strato di pietre più grosse. La ‘rasatura’ o lo ‘spianamento’ dipendevano
dalla dimensione e dalla squadratura dei conci utilizzati.
La parte intermedia, fra le due facce, veniva
riempita a sacco con pietrame minuto e malta, e per aumentare la resistenza del
muro veniva creato un efficace collegamento tra le due facce, disponendo
trasversalmente, circa uno ogni metro, conci di calcare, squadrati e lunghi quanto
la larghezza del muro (fig. 1). Anche in senso orizzontale, la muratura
veniva collegata con blocchi a forma regolare murati a scala su entrambe le
facce del muro (fig. 2).
Lo spessore
dei muri era determinato in base ai carichi che dovevano sopportare, e in base
al numero di piani da realizzare; a seconda quindi del tipo di edificio, al
piano terreno lo spessore dei muri può raggiungere anche i 200 cm, mentre i
muri portanti interni, possono raggiungere spessori di 80-100 cm. Ovviamente,
man mano che si sale ai piani superiori, diminuisce lo spessore di tutti i
muri, con riseghe che si aggirano intorno ai 30-35 cm.
Per la
realizzazione di questo tipo di muratura, era necessaria la presenza in opera
di due operai che lavoravano contemporaneamente ai due lati del muro. “Sul lato
interno, il cui allineamento era comandato dalla ‘lenza’, lavorava il
mastro ‘magistro’ o ‘faber murarius’ aiutato da uno o più
manovali che preparavano e trasportavano in opera la malta e il pietrame. Nella
parte interna del muro lavorava invece un altro mastro oppure un mezzo mastro”19.
Maggiore cura
e particolare attenzione richiedeva l’esecuzione della muratura in punti
specifici, dove questa veniva integrata da numerosi elementi, variamente
sagomati e scolpiti a seconda della loro funzione, ottenuti con il ‘calcare
tenero’ e a volte con il ‘calcare duro’: elementi che definiscono lo
stile della costruzione. Si tratta di:
a) zoccolature
o basamenti;
b) stipiti
ed architravi di porte e finestre;
c) balconi
sostenuti da mensole;
d) spigoli
e cantonali degli edifici;
e) marcapiani
e cornicioni.
2.2.1. Zoccolature
o basamenti.
La
zoccolatura, fascia posta nella parte bassa della facciata principale, veniva
proporzionata in base all’importanza, all’altezza e anche in base alla destinazione
di un edificio.
Negli edifici
più importanti la zoccolatura, quando non raggiungeva il marcapiano del primo
piano, nella parte alta veniva fatta terminare con una cornice variamente
sagomata; di solito veniva fatta sporgere rispetto al filo della muratura tra
gli 8 e i 12 cm, era costituita da conci che facevano parte integrante della
muratura, mentre solo raramente veniva realizzata con lastroni agganciati alla
muratura retrostante.
I materiali
adoperati erano il ‘calcare duro’, il ‘calcare tenero’ e la ‘pietra
pece’. I conci di calcare tenero e di pietra pece venivano ‘lavorati di
liscio’ o a ‘pelle liscia’; la superficie della zoccolatura che ne
derivava era continua e liscia. I conci di calcare duro, invece, subivano una
finitura superficiale ottenuta con il procedimento ad urto: gli strumenti più
utilizzati erano la bocciarda, nelle varie versioni, e la martellina. La
zoccolatura poteva essere anche realizzata, specie se si trattava di edifici
più importanti, con una bugnatura ottenuta con conci detti ‘bolognini’,
di dimensioni 35x25x25, variamente sagomati.
2.2.2. Stipiti
e architravi di porte e finestre.
La creazione
di porte e finestre rendeva necessario l’inserimento, ai bordi dei vuoti, di
elementi di rinforzo: la soglia o il davanzale, gli stipiti o le spalle nei
bordi laterali delle aperture, l’architrave o l’arco nella parte culminante. La
loro messa in opera poteva essere fatta con più conci parzialmente squadrati e
con modanature, ammorsati alla muratura, o con semplici manufatti monolitici.
Nella maggior
parte dei casi il materiale utilizzato era il ‘calcare tenero’,
soprattutto quando a questi elementi era richiesta una funzione estetica, e
quindi i vari blocchi dovevano essere scolpiti e sagomati secondo le richieste
del tecnico progettista. Ma, per la realizzazione di questi elementi, il ‘calcare
duro’ trovava pure largo impiego, soprattutto nelle zone dove questo era
presente in abbondanza, per un tipo di edilizia meno importante e ‘povera’.
Gli stipiti
venivano realizzati con conci lavorati, nella faccia a vista a ‘pelle
liscia’ quando si trattava di ‘calcare tenero’ (fig. 3), con
il procedimento ad urto (bocciarda, martellina) quando si trattava di calcare
duro (fig. 4), mentre la parte del concio destinata ad essere nascosta subiva
una lavorazione più grossolana.
Nella parte
alta l’apertura veniva completata con una piattabanda a concio unico di
dimensioni 120x25x20 quando la luce non superava i 110 cm; per luci maggiori il
completamento avveniva con una piattabanda a più conci, oppure, più
frequentemente con un arco.
Per non
caricare l’architrave di tutto il peso della muratura soprastante, veniva
eseguito un arco di scarico, e, sulla porta d’ ingresso delle abitazioni,
l’apertura veniva completata con un sopraluce (fig. 5).
Tra i tipi di
piattabanda a più conci, utilizzata per coprire luci superiori ai 110 cm, più
diffusa è quella a tre conci, costituita da due conci laterali e da un terzo
centrale, a sagoma cuneiforme detto ‘concio chiave’.
Quando
l’apertura aveva una luce molto grande, l’architrave veniva composta da cinque
o sette conci; quando era possibile, questa veniva sostituita con un arco a
tutto sesto o ribassato.
Negli edifici
più importanti, le aperture, specie quelle ai piani superiori, venivano
arricchite con mostre, colonne, e spesso veniva realizzato un fregio
dell’altezza di 25-30 cm, scolpito con i disegni del progettista. Il fregio,
per evitare che scaricasse il suo peso sull’architrave, veniva impostato a 3-4
mm da quest’ultima. A fianco dell’architrave e del fregio, venivano inserite
delle mensole dette ‘orecchioni’ e, al di sopra di queste e del fregio,
veniva installata una cornice con spessore di circa 15 cm detta ‘cappieddu’ (cappello),
oppure un frontone curvilineo o triangolare.
2.2.3. Spigoli
e cantonali.
Altro punto
singolare di un edificio, che richiedeva essere rinforzato e quindi particolare
attenzione nell’esecuzione della muratura, era costituito dagli spigoli, i
quali dovevano essere eseguiti con precise ammorsature nelle due direzioni, in
modo da garantire un perfetto ancoraggio tra le due pareti. Spigoli e
cantonali, oltre a costituire un rinforzo per la muratura, avevano una funzione
estetica, infatti potevano essere decorati a seconda dell’importanza
dell’edificio; venivano costruiti con grossi conci di ‘calcare tenero’,
lavorato a ‘pelle liscia’ nella parte a vista, soprattutto quando erano
richieste sagome e decorazioni; il calcare duro invece, veniva usato per
cantonali molto semplici, senza particolari lavorazioni, soprattutto nell’edilizia
rurale.
I cantonali
venivano fatti partire dal basamento dell’edificio, e si fermavano al di sotto
del cornicione; rispetto al filo della muratura venivano fatti sporgere da 4 a
10 cm. A volte, per edifici di notevole importanza, partivano dal piano strada
ed avevano un proprio basamento rispetto a quello dei prospetti.
Nell’edilizia ‘povera’
i cantonali hanno solo una funzione di rinforzo, venivano fatti partire dal
piano di campagna con il muro e si concludevano, sempre con il muro,
all’altezza della linea di gronda.
2.2.4. Balconi
sostenuti da mensole.
I balconi
erano costituiti da lastroni di pietra sostenuti da mensole o gattoni,
denominati ‘cagniuoli’ secondo il dialetto locale. La procedura seguita
nella costruzione, prevedeva la costituzione di un letto di posa per le
mensole, mediante la messa in opera sulla muratura di una fascia in conci di
pietra da taglio (calcare tenero), aventi uno spessore di 15-20 cm, lavorata ‘a
pelle liscia’ e scorniciata nella parte a vista. Sopra la fascia venivano
impostate le mensole in pietra da taglio di dimensioni 140x35x22 cm, che aveva
la funzione di ripartire il loro peso nella muratura.
Le mensole,
nella parte aggettante venivano scolpite e sagomate, mentre in corrispondenza
della muratura, nel vuoto tra una mensola e l’altra, veniva inserito un blocco
avente la stessa altezza, chiamato ‘cugno’ cioè cuneo. Nel giunto tra la
mensola e il cuneo veniva creata una canaletta, che successivamente veniva
riempita con malta di gesso, allo scopo di migliorare l’ancoraggio. Sopra le
mensole, il cui numero varia in base alla lunghezza del balcone, veniva
collocata un’altra fascia dello spessore di 10-12 cm, e scorniciata nella parte
a vista; quindi venivano posati i lastroni, di solito in pietra pece, sagomati
nella parte a vista e lavorati ‘a pelle liscia’ nelle due facce,
superiore ed inferiore (fig. 6). I balconi, sugli edifici importanti
venivano completati da un parapetto con ringhiere in ferro battuto o composto
talvolta da balaustre in pietra calcarea tenera.
2.2.5. Marcapiani
e cornicioni.
La cornice
marcapiano veniva installata in corrispondenza del bordo dei lastroni del
balcone e scorniciata con la stessa sagoma; il materiale usato era il ‘calcare
tenero’ lavorato a pelle liscia.
Negli edifici
più importanti, la cornice marcapiano aveva un’altezza che andava dalla fascia
sotto le mensole fino alla fascia superiore dei lastroni, con un’altezza
complessiva che poteva raggiungere i 60-70 cm.
I cornicioni
di coronamento avevano lo scopo di proteggere l’edificio dalle acque
piovane e di completarne l’aspetto architettonico; venivano proporzionati
all’altezza dell’edificio e al suo stile.
Le parti
fondamentali di cui risulta composto un cornicione sono quattro: la sottocornice,
il gocciolatoio, la sopracornice e l’attico; venivano
costruiti con blocchi di ‘calcare tenero’ lavorati a ‘pelle liscia’ e
variamente sagomati (fig. 7). Negli edifici pubblici ed in costruzioni
comunque importanti, il cornicione veniva realizzato con due o tre ordini di
cornici man mano aggettanti. Lo sporto era uguale all’altezza della cornice, ed
in ogni caso non superava lo spessore della muratura sulla quale poggiava. I
vari conci venivano collegati, per maggior sicurezza, mediante canalette
verticali riempite con malta di gesso.
L’attico,
consistente in un muretto alto da 80 a 100 cm in funzione dell’altezza
dell’edificio, veniva realizzato sulle cornici di notevole dimensione con lo
scopo di definire il prospetto, e nello stesso tempo serviva da contrappeso
all’aggetto della cornice. Alla base dell’attico, nella parte interna, veniva
realizzata una canaletta per raccogliere e convogliare le acque piovane in un
piccolo pozzo, solitamente realizzato in pietra pece ed avente due fori: uno
per smaltire le acque verso l’esterno e l’altro per immetterle nella cisterna
dell’edificio.
Il tipo di
sagome maggiormente utilizzate per la composizione delle striscie marcapiano e
dei cornicioni erano:
- listello o
pianetto, liscio;
- tondino,
convesso;
- ovolo a
quarto di cerchio, convesso;
- guscio o
cavetto a quarto di cerchio, concavo;
- gola
diritta a S;
- gola
rovescia a S;
- toro a
semicerchio, convesso;
- scozia,
convessa;
- fascia,
lastra lunga posta verticalmente e poco sporgente.
Queste sagome
potevano essere anche ornate a seconda dello stile e dell’importanza
dell’edificio.
Le sagome
convesse, come il toro e la gola rovescia, venivano denominate sagome di
sostegno; mentre quelle concave, come il guscio e la gola diritta, venivano
denominate sagome di coronamento.
2.3. I muri
di divisione interna.
La
suddivisione dello spazio interno veniva fatta con tramezzature di limitato
spessore rispetto alle murature portanti esterne; tali tramezzature venivano
realizzate principalmente mediante l’utilizzazione di conci ben squadrati20.
Talvolta questo tipo di muri, oltre ad avere la funzione principale che era
quella di dividere lo spazio interno, dovevano avere la capacità di portare la
chiusura orizzontale di copertura a tetto, e le eventuali volte controsoffitto,
realizzate, la prima con travi in legno, incannato, cappa di gesso e tegolato,
le seconde in canne, gesso e orditura in legno – strutture, queste,
sufficientemente leggere da essere portate con spessori di modeste entità, come
quelli sopraindicati – .
Per la
realizzazione dei divisori interni con capacità portante, venivano utilizzati
conci denominati secondo il dialetto locale ‘tabbiuni’ o ‘pizzuotti’,
aventi dimensioni di cm 50x20x25 e di 50x25x25, e trasportabili a mano dal
manovale. I divisori non portanti venivano realizzati con lastre di calcare
tenero, dette localmente ‘tabbia’, aventi dimensioni di cm 50x50 e
spessore variabile di 6-8-10-12 cm; le facce venivano ‘puntiate’ dall’intagliatore
con il martello da taglio per favorire la presa dell’intonaco; sui bordi invece
venivano ricavate delle scanalature che durante la messa in opera venivano
riempite con beveroni di malta di gesso o di cemento21.
2.4. Le
volte portanti.
Le volte,
nella costruzione degli edifici, venivano molto usate per realizzare le
chiusure orizzontali intermedie e per realizzare la struttura portante delle
scale; venivano impostate sui muri portanti e potevano essere realizzate con il
procedimento a conci o con il procedimento a getto. I conci di calcare
tenero venivano sagomati e posati in opera collegandoli fra loro con giunti
di malta ‘sottile’22.
Meno usato nei territori di Modica, Ragusa,
Scicli l’altro procedimento23, cioè quello a getto di malta di gesso
e pietrame, utilizzato a volte anche per la realizzazione di altri elementi di
fabbrica come i divisori interni.
“La
costruzione di questo tipo di volta si eseguiva gettando la malta di gesso su
centine lignee, a volte anche mobili data la rapidità della presa. Lo spessore
si aggira intorno ai 20÷30 cm. Le modalità esecutive prevedono che subito dopo
la predisposizione delle centine e prima del getto vero e proprio, si spalmava
sulle centine un leggero spessore di malta di gesso sul quale venivano fissati
i ‘testotti’ di pietra tufigna per evitare che rotolassero verso il
muro. Dopodiché veniva gettata la malta di gesso molto lavorabile in modo da
riempire ogni vuoto fino a formare lo spessore previsto della volta. Lo
spianamento dei rinfianchi veniva eseguito con controvoltine ai lati realizzate
con gli stessi materiali e lo stesso procedimento di prima. Successivamente
sopra si gettava una spolverata di sabbia grossa ricavata dalla lavorazione del
pietrame tufigno, per spianare eventuali fuoruscite di testotti più alti. Sopra
poi si realizzava l’allettamento e il pavimento”24.
Di solito, al piano
terreno e nelle scale di maggior impegno architettonico, le volte venivano
relizzate con il procedimento a conci, mentre nei piani sopraelevati e
nelle scale di modeste dimensioni (con luce compresa fra 100÷120 cm) le volte
venivano realizzate con il procedimento a getto.
La costruzione
delle volte comportava, indipendentemente dal procedimento usato, il montaggio
delle centine in legno che reggevano il soprastante tavolato sagomato secondo
la forma intradorsale della volta da realizzare.
Le forme più
comunemente usate erano (fig. 8):
- volte a
botte a tutto sesto;
- volte a
botte ad arco ribassato;
- volte a
botte con teste a padiglione (usate nei vani rettangolari molto lunghi);
- volte a
botte lunettata;
- volte a
padiglione;
- volte a
crociera;
- volte a
cupola o a calotta;
- volte a
vela;
- volte
rampanti (usate soprattutto nella realizzazione delle rampe per le scale).
La scelta
della forma dipendeva dalla figura geometrica dell’ambiente; nel caso in cui
questo non era di forma regolare, ossia i lati non erano paralleli, il problema
poteva essere risolto affiancando al concio chiave un particolare concio a
spessore variabile in grado di compensare il difetto. Un esempio di questo tipo
ci viene dato da una volta nel monastero del S. Salvatore a Noto25.
2.5. Le pavimentazioni interne.
Anche nella
pavimentazione interna i materiali lapidei locali hanno avuto un impiego molto
diffuso. Le pietre utilizzate nella pavimentazione interna erano principalmente
due: la pietra pece e la pietra da taglio (calcare tenero), sotto
forma di lastre chiamate ‘balate’.
I pavimenti
che si ottenevano potevano essere monocromatici, quando veniva utilizzato uno
dei due tipi di pietra; in questo caso le ‘balate’ di forma quadrata
avevano il lato compreso tra i 35 e i 40 cm. ed uno spessore intorno ai 3 cm.
Una maggiore varietà compositiva era senz’altro ottenuta attraverso
l’accoppiamento e la combinazione delle due pietre in varie forme geometriche;
le dimensioni variavano in base alla forma geometrica. “I pavimenti possono
formarsi di balate di diverse figure; ma non è necessario che noi troppo ci
affatichiamo a spiegarli potendosene formare de’ bellissimi, in una ammirabile
varietà, di soli quadrati di due diversi colori, o per dir meglio, di quadrati
risoluti diagonalmente in due triangoli di diversi colori, in quella guisa che
ha insegnato Truchet, per via delle leggi dell’arte combinatoria”26.
La pietra
pece era anche molto usata per la pavimentazione delle scale interne.
Attualmente
così come per gli altri settori, anche in quello delle pavimentazioni degli
interni vi è una riproposizione dei materiali lapidei locali. Ancor più che in
passato, grazie alle moderne tecnologie per il taglio e la lucidatura, si
possono ottenere varie combinazioni e geometrie.
2.6. Le pavimentazioni
esterne.
Le
pavimentazioni esterne in passato erano riconducibili a tre modelli principali:
l’acciottolato, il selciato ed il lastricato.
L’acciottolato. Esso era costituito da elementi già pronti in natura, come
i ciottoli (di fiume o di cava) a spigoli più o meno arrotondati, con forme che
vanno dal tronco di cono all’ovoide. Le forme di acciottolato più comunemente
usate variano a seconda del tipo di superficie da pavimentare:
- per alcune
strade la pavimentazione era ottenuta accoppiando le ‘basole’ nere di pietra
lavica e acciottolato bianco di fiume per il riempimento dei riquadri;
- nella
pavimentazione di vicoli, i riquadri venivano ottenuti con lastre di pietra
bianca (calcare duro) riempiti con acciottolato bianco di pietre di fiume;
- per la
pavimentazione di alcuni vialetti di ingresso e gli spiazzi antistanti ad
alcune chiese, veniva usato un acciottolato realizzato con pietre più piccole,
di colore chiaro e scuro, disposte secondo disegni diversi.
Attualmente
questo tipo di pavimentazione è poco usata, tranne che per il recupero e
ripristino di vie e vicoli di interesse storico.
Il selciato. Esso rappresenta un’evoluzione tecnologica del semplice
acciottolato, collocandosi in una posizione intermedia tra quest’ultimo ed il
lastricato. I materiali utilizzati erano il ‘calcare duro’ e/o la ‘pietra
lavica’. Gli elementi impiegati per la sua realizzazione (denominate
localmente ‘cuticcie’) avevano una forma cubica o parallelepipeda, erano
di modeste dimensioni (circa cm 10/12 di lato) ed erano lavorati
grossolanamente; essi venivano ricavati dalle lastre di roccia con l’ausilio
della mazzetta e di uno scalpello largo. Il tipo di apparecchiatura
maggiormente utilizzata era quella a corsi rettilinei, poggiati su un letto di
sabbia.
In passato il
selciato era usato per la pavimentazione di cortili, vicoli, ecc. Attualmente,
però, esso non viene quasi più realizzato, tranne che in casi particolari, come
ad esempio, per il recupero di antichi vicoli.
Il lastricato. Era, ed è tutt’oggi, una delle forme di pavimentazione
lapidea più diffusa nei centri urbani della zona Iblea, sia per la durata sia
per la scarsa manutenzione che richiede. I materiali utilizzati per la
pavimentazione delle strade, ma anche delle piazze, erano il calcare duro e
la pietra lavica, tagliati in lastre rettangolari, di spessore dai 15 ai
20 cm., una lunghezza che poteva raggiungere anche i 100 cm. ed una larghezza
dai 30 ai 50 cm. La superficie in vista, cioè quella di marcia, veniva lavorata
con procedimento ad urto, mediante l’uso del piccone, mentre le superfici
laterali erano inclinate verso l’interno della lastra e, così come il piano di
posa, lasciate a spacco naturale. La manutenzione ordinaria, richiesta da
questo tipo di pavimentazione, consiste principalmente nel restaurare la
finitura della superficie in vista, usurata nel tempo dalle sollecitazioni
causate dal traffico veicolare o pedonale. Pertanto la ruvidità della
superficie viene ripristinata picconando le lastre di pietra direttamente sul
posto; questa operazione è garantita anche dallo spessore notevole delle lastre
stesse.
Il tipo di apparecchiatura maggiormente
impiegata in passato per la pavimentazione di strade e piazze è stata quella a corsi
inclinati rispetto all’asse stradale; essa era particolarmente indicata quando
si voleva evitare che le ruote ferrate percorressero le direzioni dei giunti
che rappresentano le parti più deboli ed esposte del manto stradale. Infatti le
sollecitazioni dinamiche potevano determinare azioni dirette sui bordi che li
avrebbero danneggiati, ma anche lo spostamento degli elementi con conseguente
creazione di tensione sulle loro superfici perimetrali. Con l’inclinazione gli
spigoli delle lastre in corrispondenza delle connessure venivano meglio
risparmiati dal transito.
Attualmente
questo problema è venuto meno, dato che tutti i veicoli ormai montano ruote
gommate; pertanto si ricorre quasi sempre ad apparecchiature con giunti
paralleli e/o perpendicolari all’asse stradale. Le lastre impiegate nei
lastricati attuali, hanno uno spessore che può variare dai 3 ai 10 cm. con
forma che può essere regolare, se le lastre sono ricavate da blocchi squadrati,
oppure irregolare quando sono ricavate dagli scarti, realizzando con queste
ultime un lastricato ad ‘opera incerta’ utilizzato soprattutto nella
pavimentazione di superfici prevalentemente pedonali. Le lastre vengono posate
in opera su sottofondo di calcestruzzo (armato quando sono previste
sollecitazioni particolari). Nei giunti viene versata una boiacca fluida
e ricca di cemento in modo che le congiunzioni risultino completamente
riempite; dopo qualche ora, quando la malta dei giunti ha acquistato una certa
consistenza, si ripuliscono le stuccature con la cazzuola e si segna con riga e
ferro la fuga. La stilatura può essere evitata se dopo la stesura della boiacca
cementizia viene eseguita una tiratura con stracci bagnati fino alla
perfetta pulizia. Queste operazioni devono essere eseguite con molta cura per
non lasciare le lastre sporche di cemento che una volta essiccato,
difficilmente potrà essere asportato dalla superficie lapidea, con conseguenti
e rilevanti aspetti antiestetici. Nella pavimentazione dei vialetti e dei
sentieri non carrabili in giardini, parchi ecc., viene spesso adottata l’opera
incerta mediante la posa cosiddetta a ‘cementazione botanica’; in questo
modo le lastre vengono posate direttamente sul terreno con previa
interposizione di un modesto strato di sabbia. La stabilizzazione delle lastre
viene così affidata all’azione connettiva dell’erba, la quale viene fatta
crescere tra gli interstizi delle pietre garantendone la loro stabilità
mediante una vera e propria cementazione effettuata attraverso l’azione delle
radici.
3. Muri a
secco.
Il muro di
pietra a secco è espressione muraria tipica soprattutto della campagna della
Contea di Modica, e ne tesse e ravviva sia i distesi ed abitati altopiani sia i
declivi delle colline. Esso è fatto con pietrame spaccato e sagomato col
martello a testa, e murato senza malta. Per la costruzione, la pietra viene
recuperata sul posto, raccogliendo i conci che si trovano sparsi nell’intorno,
e, in aggiunta a questi, può essere ricavata dai filoni di roccia (‘puntare’)
affioranti dal terreno.
La funzione dei
muri a secco era quella di delimitare le diverse proprietà27, di
chiudere da qualche lato i bagghi (grandi cortili interni delle
masserie), e, se elevati notevolmente, gli orti ed i giardini delle ville del
‘700 e ‘800, di recintare ovili e porcili; inoltre, il muro aveva la funzione
di paraterra e di sostegno.
Normalmente, i
muri per delimitare le proprietà hanno la base maggiore di 85 cm, quella
minore di 40 cm conclusa con una ‘traversa’ semicircolare (fig. 9a),
ed un’altezza dal piano di campagna pari a 120 cm. Può capitare, anche se
raramente, di trovare muri con la base maggiore più larga di 85 cm, chiusi
nella parte superiore da due ‘traverse’ a forma di parallelepipedo con
base rettangolare. I muri di recinzione hanno una sezione rettangolare,
larga 50-60 cm ed un’altezza superiore ai 120 cm; possono essere costituiti di
pietrame più squadrato e sono presenti le legature (‘liaturi’)
trasversali (fig. 9b). Le dimensioni dei muri paraterra e di
sostegno sono calcolate in base alle necessità.
La costruzione
del muro a secco richiede pochi attrezzi: la mazza per rompere i massi; il
martello da taglio per sagomare i conci, in modo particolare le ‘traverse’ e
i cantoni (‘cusciate’); il filo (‘a lenza’), di aiuto,
all’inizio, per allineare le pietre di base. A seconda delle dimensioni e del
grado di lavorazione, si possono individuare tre categorie di conci: conci
informi di dimensione medio-piccola, utilizzati per il riempimento a sacco;
conci parzialmente sagomati, utilizzati per apparecchiare le pareti; conci
sagomati, utilizzati come rinforzo negli angoli, per chiudere il muro in cima e
in testa.
I muri
riempiti a sacco, e a maggior ragione quelli costruiti senza l’uso della malta,
vengono interessati da fenomeni di spanciamento, che costituiscono la principale
causa di distruzione; tuttavia, la durata di un muro di pietra a secco, se bene
eseguito, può superare i cento anni.
Dopo un
periodo in cui l’attenzione verso questo tipo di murature ha subito un calo,
negli ultimi anni si è assistito ad un rinnovato interesse con la conseguente
nascita di piccole imprese, specializzate nella costruzione di muri a secco,
che ricevono commissioni sia dai privati sia dall’ente pubblico.
Ma la funzione del muro a secco da qualche tempo è in qualche
misura mutata: esso infatti viene oggi costruito non tanto per delimitare le
proprietà e gli spazi per gli animali domestici, ma ad esempio per recinzioni
più o meno basse di giardini privati e pubblici (divenendo pertanto elemento
apprezzato di arredo urbano) o per la protezione della sede stradale come muro
di controripa.
NOTE
* (Modica 1969). Dopo avere
conseguito il diploma di Geometra presso l'Istituto ‘L.B. Alberti’ di Modica,
si laurea in Architettura, indirizzo tecnologico, presso la Facoltà di
Architettura del Politecnico di Torino nel 1997; nello stesso anno si abilita
all’esercizio della professione di architetto presso l’Università degli Studi
di Palermo.
Si occupa di progettazione nel
settore dell’edilizia ad uso residenziale, commerciale e artigianale. Vive e
lavora a Modica. Tel. 0932/904151.
(1) La masseria,
residenza agricola molto diffusa specie nella campagna della Contea di Modica,
é costruita interamente in muratura, ed è costituita spesso da un grande
cortile circondato dalle stanze di abitazione, dai granai, dalle stalle, dai
magazzini per i formaggi, per l’olio, per le carrube e le mandorle.
(2) Il materiale lapideo, di
cui trattiamo nel presente studio, nella zona dei monti Iblei era largamente
impiegato anche nel periodo antecedente il 1693. Una testimonianza in
tal senso ci viene data dalle opere sopravvissute all’evento calamitoso, come,
ad esempio, il chiostro e la chiesa di S. Maria del Gesù, sagrestia e facciata
della chiesa del Carmine, la cappella Palatina all’interno della chiesa di S.
Maria di Betlem, il portale di casa De Leva, a Modica; la navata
sinistra della chiesa di S. Maria delle Scale, i portali della chiesa di S.
Giorgio, della chiesa di S. Franceso all’Immacolata, della chiesa di S.
Antonio, a Ragusa; la chiesa e il convento di S. Maria della Croce a Scicli.
Inoltre, durante il periodo
della ricostruzione post-terremoto troviamo figure professionali locali come
capimastri, scultori, scalpellini, intagliatori ecc., già molto esperti nella
lavorazione della pietra. Tale esperienza poteva derivare solo da un uso
continuativo del materiale lapideo nel tempo.
E’ fondato anche supporre che
gran parte del materiale lapideo, derivante dalle costruzioni demolite dal
sisma, sia stato riutilizzato nella successiva ricostruzione.
“...Il Calandra ci dà notizia
che già a partire dal 1300 la pietra bianca degli Iblei veniva utilizzata in
altre parti della Sicilia per elementi decorativi finemente lavorati”.
Corrado Fianchino, Le pietre nell’architettura, I.D.A.U. (Istituto
Dipartimentale di Architettura e Urbanistica), Catania 1988, p. 95.
(3) Anthony Blunt, Barocco
siciliano, Edizioni il Polifilo, Milano 1968, p. 31.
(4) G. Morana, L. Scribano, Cronologia
degli interventi (1628-1842), in P. Nifosì, G. Morana, La chiesa di S.
Giorgio di Modica, Provincia regionale di Ragusa – Archivio di Stato di
Ragusa, pp. 69-70.
(5) Il valore della porosità è
dato dal rapporto tra il volume dei pori aperti e il volume apparente del
campione; viene espresso in percentuale e può essere ricavato in base alla
norma UNI 9724/7 e/o in base alla Normal 4/80.
(6) Raffaella Rossi Manaresi, Pietre
porose: alterazione e conservazione, in Bollettino d’Arte,
supplemento al n° 41, gennaio-febbraio 1987, p.133.
(7) Per la definizione di
queste forme di degradazione, si rimanda alla RACCOMANDAZIONE NORMAL 1/88, Lessico
per la descrizione delle alterazioni e degradazioni macroscopiche dei materiali
lapidei, I.C.R.-C.N.R., Roma 1988.
Una soluzione ottimale di
questi problemi purtroppo non esiste. E’ possibile rallentare l’evolversi di
tali fenomeni facendo una corretta manutenzione degli edifici, unitamente a
trattamenti protettivi della superficie lapidea. Questi trattamenti prevedono
l’utilizzazione di prodotti chimici, che, applicati al manufatto, funzionano da
schermo fra questo e l’ambiente, avendo essenzialmente lo scopo di ridurre la
penetrazione dell’acqua all’interno del materiale poroso, riducendo pertanto
l’innesco dei fenomeni degenerativi. Per quelle parti altamente compromesse non
rimane altro che la sostituzione integrale.
(8) Anche nella zona di Lentini
sono attive alcune cave in cui si estrae un tipo di calcare tenero simile a
questo ma meno compatto.
(9) Per quanto riguarda le
caratteristiche fisiche e meccaniche, i dati riportati da C. Fianchino in Le
pietre nell’architettura (op. cit. p. 94), si riferiscono ai risultati
delle prove eseguite su n° 15 provini da 5×5×5 cm., n° 12 provini da 10×10×10
cm., n° 12 da 6×30×3 cm.
-
Imbibizione:
per immersione: 17%
per capillarità: 15%
- Massa
volumica:
reale: 2700 kg/m3
apparente: 1853 kg/m3
-
Porosità: 31.4%
-
Resistenza a compressione: 18.4 N/mm2
su provini saturi d’acqua: 11 N/mm2
-
Resistenza a flessione: 4.4 N/mm2
- CaCO3:
95.1%
I dati riportati da I. Sansone
in L’uso della pietra da taglio e di altri materiali edilizi nella
ricostruzione della Sicilia sud-orientale,(op. cit. p.132), si riferiscono
a campioni prelevati non in cava ma su monumenti: alla chiesa del Purgatorio di
Sortino, i primi; alla chiesa di S. Antonio di Cassero, i secondi.
-
Imbibizione: a) 17.8% ; b) 13.8%
- Massa
volumica:
reale: a) 2120 kg/m3; b) 2580
kg/m3
apparente: a) 1700 kg/m3; b)
1800 kg/m3
-
Porosità reale: a) 19.5%; b) 30.1%
-
Porosità apparente: a) 30.5%; b) 25.1%
-
Resistenza a compressione: a)15.2 N/mm2; b)13.3 N/mm2
-
Resistenza a flessione: a) n.d.; b) n.d.
- Prova
sclerometrica: a) 14.6 N/mm2; b) 10.3 N/mm2
- CaCO3:
a) 98% ; b) 94%
(10) Rimandiamo ad un prossimo
studio una presentazione analitica circa gli strumenti e i procedimenti per la
lavorazione delle pietre.
(11) Per quanto riguarda le
caratteristiche fisiche e meccaniche, i dati riportati da C. Fianchino in Le
pietre nell’architettura (op. cit. p. 121), si riferiscono ai risultati
delle prove eseguite su n° 15 provini 5×5×5 cm, n° 12 provini 10×10×10 cm, n°
12 provini 6×30×3 cm, della varietà zoccolo e su altrettanti della
varietà pece.
Varietà
zoccolo.
-
Imbibizione:
per immersione: 10.4%
per capillarità: 7.1%
- Massa
volumica:
reale: 2520 kg/m3
apparente: 1948 kg/m3
-
Porosità: 22.7%
-
Resistenza a compressione: 16.1 N/mm2
su provini saturi d’acqua: 10.1 N/mm2
-
Resistenza a flessione: 3.4 N/mm2
- CaCO3:
95.1%
Varietà
pece.
-
Imbibizione:
per immersione: 0.9%
per capillarità: 0.01%
- Massa
volumica:
reale: n.d.
apparente: 1980 kg/m3
-
Porosità: n.d.
-
Resistenza a compressione: 12.9 N/mm2
su provini saturi d’acqua: 10.5 N/mm2
-
Resistenza a flessione: 8.2 N/mm2
- CaCO3:
32.3%
(12) Mario Spadola, L’asfalto,
volume primo, Erea, Ragusa 1977, p. 4.
(13) Francesco Rodolico, Le
pietre delle città d’Italia, Le Monnier Editore, Firenze 1953, pp. 462-463.
(14) Per quanto riguarda le
caratteristiche fisiche e meccaniche, i dati riportati da C. Fianchino in Le
pietre nell’architettura, (I.D.A.U., Catania 1988, p. 127), si riferiscono
ai risultati delle prove eseguite su dodici provini di dimensioni 10×10×10 cm,
della varietà ‘latina’:
-
Imbibizione:
per immersione: 4.17%
per capillarità: 2.66%
- Massa
volumica:
reale: 2680 kg/m3
apparente: 2450 kg/m3
-
Porosità: 8.6%
-
Resistenza a compressione: 92.3 N/mm2 - Resistenza a flessione: n.d.
I dati riportati da I. Sansone
in L’uso della pietra da taglio e di altri materiali edilizi nella ricostruzione
della Sicilia sud-orientale, (in quaderni del Mediterraneo, a cutra di P.
Giansiracusa , AICS, n° 1, 1993, p. 130), per una varietà non precisata ma
molto più porosa della varietà latina sono i seguenti:
-
Imbibizione: 17%
- Massa
volumica:
reale: 2680 Kg/m3
apparente: 1850 Kg/m3
-
Porosità: n.d.
-
Resistenza a compressione: 18.4 N/mm2
-
Resistenza a flessione: n.d.
- CaCO3:
95.15%
(15) Per quanto riguarda le
caratteristiche fisiche e meccaniche, i dati riportati da C. Fianchino in Le
pietre nell’architettura (op. cit. p. 107), si riferiscono ai risultati
delle prove eseguite su n° 15 provini da 5×5×5 cm, n° 12 provini da 10×10×10
cm, n° 12 da 6×30×3 cm.
-
Imbibizione:
per immersione: 1.6%
per capillarità: 0.8%
- Massa
volumica:
reale: 2680 kg/m3
apparente: 2510 kg/m3
-
Porosità: 6.3%
-
Resistenza a compressione: 81 N/mm2
su provini saturi d’acqua: 72 N/mm2
-
Resistenza a flessione: 14 N/mm2
I dati riportati da I. Sansone
in L’uso della pietra da taglio e di altri materiali edilizi nella ricostruzione
della Sicilia sud-orientale,(op. cit. p.131), sono i seguenti:
-
Imbibizione: 1,6%
- Massa
volumica:
reale: 2680 Kg/m3
apparente: 2510 Kg/m3
-
Porosità: 6.3%
-
Resistenza a compressione: 14 N/mm2
-
Resistenza a flessione: n.d.
(16) Corrado Fianchino, Pietre
nell’architettura, cit, p. 110.
(17) Corrado Fianchino, Caratteri
tecnologici della ricostruzione settecentesca nella Sicilia sud-orientale,
I.D.A.U. (Istituto Dipartimentale di Architettura e Urbanistica), Catania 1983,
pp. 21-22.
(18) ‘Ciarera’: sabbia
di cava scavata e passata al crivello per uniformarne la granulometria.
(19) Corrado Fianchino, op.
cit., p. 39.
(20) Un secondo tipo di
divisorio, anche se meno usato in questa zona, è quello costruito con il
procedimento del getto in casseforme lignee, di malta di gesso e pietrame
informe, di dimensioni variabili in funzione dello spessore del divisorio. Gli
spessori variavano da un minimo di 10 cm, per muri che dovevano avere soltanto
la funzione di dividere lo spazio interno, fino a 20 cm e anche 30 cm quando il
divisorio doveva avere anche una funzione portante, seppure per carichi non
eccessivi. Nella costruzione, si procedeva per strati orizzontali sovrapposti
di 30 cm o 60 cm di altezza; normalmente il getto veniva eseguito riempiendo la
cassaforma con il pietrame, fissandolo con la malta di gesso, avendo cura di
disporre i conci non a contatto con le tavole della cassaforma e ad una certa
distanza l’uno dall’altro, lasciando così dei vuoti che successivamente
venivano colmati con malta di gesso molto lavorabile. Dopo il disarmo, veniva
eseguito con le stesse modalità lo strato superiore, e così via fino al
completamento dell’intero divisorio.
Sulla faccia esterna del muro,
così eseguito, non era visibile alcuna traccia dei conci perché risultavano
coperti da uno strato di malta di gesso; la superficie si presentava quindi,
pronta ad essere intonacata.
Un terzo tipo di tramezzatura
era quella costruita con canne e gesso; questo tipo di muratura aveva il
vantaggio di essere molto leggera.
(21) AA. VV., Tecnica
edilizia e attrezzature usate dai maestri muratori ragusani dal terremoto del
1693 al 1945, Assessorato alla Cultura della Città di Ragusa, Ragusa 1991,
p. 33.
(22) ‘Sottile’: malta
composta di grassello con poco detrito calcareo finemente crivellato. Veniva
utilizzata per murature in pietra da taglio.
(23) Questo procedimento era
molto usato a Noto.
(24) Corrado Fianchino, Caratteri
tecnologici..., cit., pp. 55-56.
(25) Ibid., p. 55.
(26) F. M. Sortino, traduzione
de Gli Elementi dell’architettura civile di C. Wolff, per uso di Paolo
Labisi. (Citato da Corrado Fianchino, op. cit., p. 60.
(27) Nella Contea di Modica, l’abitudine di recintare le
proprietà con i muri di pietra a secco era già in uso probabilmente prima
dell’anno mille. Tra il 1550 e il 1565, i Conti Enriquez Cabrera concessero in
enfiteusi gran parte delle loro proprietà, a patto che gli assegnatari avessero
cura di realizzare le recinzioni. Cfr. Giuseppe Raniolo, Il muro a secco,
in ‘Dialogo’, anno IX, n° 4, Modica 1984.
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fig. 1 -
Legature trasversali tra le due facce della muratura
fig. 2 - Collegamento della muratura in senso orizzontale