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L’architettura del XVII secolo nella Contea di Modica:

temi e problemi

di Marco Rosario Nobile*

 

 

 

 

 

 

Una corretta premessa a questi sintetici ragionamenti dovrebbe mettere in guardia dalle affrettate conclusioni e dalle generalizzazioni. In realtà le attuali conoscenze sull'architettura del XVII secolo sono scarne, limitate a casi frammentari che non costituiscono regola. Costruire una storia dell'architettura del Seicento in Sicilia sembra oggi un'impresa difficile. D'altra parte il ricorso a generici parametri stilistici o ad alcuni luoghi comuni della storia (oramai si spera definitivamente superati), si è rivelato in definitiva inutile. Per intenderci, non credo che categorie o termini come ‘barocco’ o ‘decadenza’ riescano a farci fare un solo passo avanti nella comprensione di un secolo complesso. Se queste generiche osservazioni possono avere valore a scala regionale, risultano ancora più stringenti in aree, come la Contea di Modica, dove lo studio si scontra con la casualità dei pochi resti che cataclismi e ricostruzioni hanno risparmiato.

 

A un primo sommario consuntivo è tuttavia facile avvertire un sostanziale allentamento dei caratteri costruttivi che almeno per un secolo e mezzo avevano contraddistinto l'area iblea. Se, in altri termini, l'architettura della Contea (e centri limitrofi) fra tardogotico e primo rinascimento risulta fortemente caratterizzata, dotata di una vigorosa identità (si pensi ai portali quattrocenteschi o alle cappelle cupolate del XVI secolo a Comiso, Modica e Scicli), nel secolo successivo questa conformità si disperde e la trasmissione delle esperienze, il mestiere del costruire assumono connotazioni differenziate. A ben guardare, anche la varietas dei risultati (diluita in un secolo e in un numero non molto alto di opere certe) finisce per complicare ogni tentativo di disegnare un quadro coerente.

Certo è comunque che nel XVII secolo il virtuosismo dell'intaglio lapideo, le fabbriche in pietra a vista non costituiscono più i soli sistemi costruttivi apprezzati. La forza della tradizione sembra cioè spegnersi davanti all'urgenza di costruire celermente vaste fabbriche (in primo luogo i grandi conventi degli ordini religiosi). In realtà sarebbe più corretto affermare che il magistero della stereotomia ridusse il proprio raggio di azione, concentrandosi soprattutto in alcune botteghe di scultura, dedite a realizzare portali, finestre, altari, che altri operatori avrebbero posto in opera. Solo ipotizzando una continuità sotterranea o apparentemente defilata si riesce a spiegare il ritorno, in funzione protagonista, della pratica dell'intaglio nel dopo terremoto.

L'esistenza di dinastie artigiane, che con la loro operosità attraversano interamente il lungo XVII secolo, è del resto confermata dai numerosi documenti. Basterebbe citare l'esempio di Iacopo Dierna e Simone Caccamo Blandano che relazionano sui danni avvenuti nel 1693 nella chiesa di S. Giorgio a Modica; si tratta probabilmente di pronipoti dei mastri Iuliano Dierna e Blandano di Caccamo che nel 1607, in solidum, avevano cominciato la fabbrica di S. Giovanni a Vittoria. Probabilmente non si aggiunge niente di nuovo se si registrano le strategie matrimoniali e la struttura tendenzialmente chiusa e corporativa degli operatori del cantiere. Attraverso incroci di parentele, le alleanze accumulate travalicano le generazioni.

 

A chi esamina la grande architettura che si svilupperà nella Sicilia orientale dopo il terremoto del 1693, la Contea di Modica appare come il regno incontrastato delle imprese artigiane. Qui, rispetto ai vicini centri di Noto, Caltagirone, Catania, il ruolo degli architetti risulta drasticamente limitato al cospetto della preponderanza del cantiere. Un vero abisso separa i caratteri locali da quelli di un'altra coeva città siciliana quale è Trapani, un centro quest'ultimo dove nasce e si forma una larga schiera di architetti, dotati di una specifica preparazione teorica e matematica. Nella Contea invece il processo di formazione della maggior parte dei progettisti scaturisce dall'inquieto oceano degli intagliatori e delle botteghe artigiane. Tra le rare volte in cui il termine ‘architetto’ viene usato nei documenti ufficiali c'è quello dell'elezione nel 1654 di Benedetto Cultraro a "consule architetto e capomastro così di legname come di fabriche" di Chiaramonte. Forse per la sua nota abilità, Cultraro non sembra in questo caso avesse sostenuto esami, ed effettivamente, prima dell'incarico, risulta già definito come "scultore di legname et architetto". Conoscenze di carpenteria o ebanisteria potevano costituire (come del resto accade in altre aree europee) un buon punto di partenza per operare nel mondo del progetto di architettura, e i ruoli professionali, non essendo affatto definiti, conservano vaste zone di ingerenza e interscambiabilità.

Una personalità che sembra emergere rispetto ai suoi contemporanei per una presumibile esperienza romana, per la fiducia accordatagli dai Tomasi all'atto della fondazione di Palma e per il vasto raggio di azione delle sue prestazioni, il ragusano Antonino di Marco, forse ha una storia formativa analoga se una delle prime opere svolte a noi note è quella della realizzazione di un tabernacolo in legno per l'altare maggiore di S. Giorgio a Modica, su commissione di donna Antonia Grimaldi.

 

Non è improbabile che per evitare conflitti di competenza o per desiderio di apparire super partes le cariche più alte tra i capimastri, chiamati a servire le amministrazioni municipali e comitali, fossero sovente personalità esterne. Nel 1649, all'atto dell'elezione a "Capomastro e Ingegnere della città di Modica" del palermitano Carlo d'Amico (che stava seguendo il cantiere della chiesa madre di S. Giorgio), si ricordavano i predecessori che avevano rivestito il ruolo: Vincenzo Cassata, Giuseppe di Caccamo, Silvestro Perruccio; a giudicare dai cognomi nessuno di loro sembra nativo della Contea.

Se non abbiamo certezze definitive (dal momento che per i secoli precedenti difetta la documentazione che possa offrire una certa sicurezza statistica sulle ‘presenze’ forestiere), è tuttavia facile constatarne il consistente aumento.

Proviamo a enumerare, come ulteriore tenue filo conduttore, ruoli e significati di alcune tra le presenze esterne emerse negli studi. Vincenzo Mirabella da Siracusa, aristocratico, accademico dei Lincei, archeologo e architetto dilettante è coinvolto nel progetto della chiesa di S. Maria delle Grazie a Modica (post 1615). Si tratta di un progettista estremamente colto, molto probabilmente autore del progetto del palazzo vescovile di Siracusa (completamento prima fase 1618); nella sua tomba a Modica (S. Maria delle Grazie, 1624) se ne ricorda la perizia nelle arti liberali; tra l'altro una delle statue muliebri allegoriche qui raffigurate è forse identificabile con l'architettura, rappresentata come è con un compasso. In passato ho immaginato che il disegno di talune raffinate cappelle del primo Seicento a Modica (in S. Pietro e in S. Maria di Betlem), con coperture a padiglione cassettonato (in pietra) possano essere state ispirate dalla presenza di una personalità colta come il Mirabella, ma forse ci possiamo trovare in presenza di esiti dovuti alla sapienza di botteghe che sfruttavano con autonomia il trattato di Sebastiano Serlio.

Del francescano riformato frate Marcello da Palermo, che a Modica (post 1643) progetta il rinnovamento della chiesa di S. Giorgio e il convento di S. Anna, non si conosce ancora molto, ma si deve trattare di una personalità non secondaria nella Sicilia del secolo; lo prova ancora la fiducia accordatagli dal viceré Giovanni Alfonso Enriquez, e i lavori successivi, come le perizie svolte per la facciata campanile del duomo di Enna (1674). Non è raro, tutto sommato, che architetti nati all'interno di un ordine religioso (nel caso di frate Marcello, i Francescani Osservanti Riformati) e presumibilmente destinati a coprire una nicchia specialistica di prestazioni (complessi conventuali e chiese dell'ordine) abbiano, su invito della committenza, allargato il loro specifico campo di azione. Progetti di architetti esterni dovevano essere quelli dei Gesuiti a Modica (post 1610) e Scicli (1650 ca.), ma molteplici congregazioni religiose si stavano dotando di quadri tecnici interni.

E' nota una modesta prestazione (una perizia per la costruzione di un ‘trappeto’, 1644) da parte del "Mastro di fabbriche Antonio Ferrante milanese", forse operante a Palermo. Si tratta dell'unica traccia, sinora, di quel fenomeno di migrazione di lombardi legati al mondo della costruzione che interessa in misura soverchiante Palermo e la Sicilia occidentale. Appare probabile che l'agguerrita concorrenza locale non lasciasse molto spazio a operatori che occupavano un ambito di attività del tutto analogo, concentrandosi nell'arte dell'intaglio e della posa in opera.

Se questo è il quadro caotico degli operatori, dove comunque è possibile leggere in filigrana motivazioni e assenze, non meno problematico è affrontare l'analisi delle architetture. Per tutto il secolo, i poli opposti della magnificenza retorica, delle articolazioni ricche del classicismo, si affiancano alla serialità, al rigorismo esasperato. Come forse in nessun altro periodo della storia occidentale l'autorappresentazione delle élites si dipana attraverso un ventaglio amplissimo e apparentemente contraddittorio di registri. Così, per esempio, su finanziamento di identici mecenati, tombe lussuose e sontuose possono trovare posto in chiese o chiostri di spartana austerità.

 

Se ci si limita ad esaminare e giudicare le opere all'interno di parametri strettamente artistici, rintracciare comuni denominatori nella produzione architettonica del Seicento appare pressoché impossibile. Gli esiti architettonici non seguono indirizzi fissi, inequivocabili; parlare di ‘barocco’ o di ‘epoca barocca’ davanti ad architetture che spesso conservano una forte dipendenza da modelli tardocinquecenteschi (si pensi alle incisioni di Domenico Fontana o al continuo uso di modelli estratti da Serlio o da Palladio) appare fuorviante. Citare di contro ‘manierismo’ o ‘controriforma’ come possibili etichette unificanti, significa sostanzialmente arrendersi davanti al bisogno di definire una volta per tutte prodotti che sfuggono alle grandi classificazioni. In realtà tutta la Sicilia in generale è percorsa da un caotico ma in definitiva fertile intreccio di esperienze che intaccano e sconvolgono le tradizioni locali e troveranno tentavi di sintesi solo nei protagonisti attivi a Palermo dopo il 1670 (in particolare gli architetti Paolo Amato e Angelo Italia). Per la Sicilia orientale sarà invece la grande ricostruzione dopo il terremoto a consentire un provvisorio coagulo dei linguaggi, accanto al riaffiorare incontenibile della tradizione dell'intaglio.

 

            Nella prima parte del secolo invece, all’esplosione di criteri diversificati, alla spinta internazionalista del classicismo, alla diffusione di modelli eterodossi, alla severità fuori dal tempo propugnata dagli ordini religiosi più rigoristi - tutti segni macroscopici della perdita di una identità locale (per la Contea di Modica, come per altri comprensori siciliani) - fa da contraltare l’accelerazione degli studi storico-municipalisti, il bisogno di buona parte dell’intellighentia di riannodare fili interrotti, riscoprendo archeologia, particolarità locali e miti delle origini.

 

Fonti e bibliografia

 

            Si segnalano qui solo alcuni tra i riferimenti archivistici e bibliografici utilizzati per la stesura del testo.

 

            Modica, Archivio di Stato, Archivio della Contea, Lettere patenti vol. VII;

            P. Nifosì, G. Leone, Mastri e maestri nell’architettura iblea, Cinisello Balsamo 1985;

            M.R. Nobile, Architettura religiosa negli Iblei. Dal Rinascimento al Barocco, Siracusa 1990;

            G. Raniolo, La nuova terra di Vittoria dagli albori al Settecento, Modica 1991;

            A. Zarino, Vittoria, impianto per produzione di zucchero, Vittoria, 1992;

            P. Nifosì, G. Morana, La chiesa di S. Giorgio di Modica, Modica 1993;

            M. Pavone, La Contea di Modica nella storiografia erudita del secolo XVIII, in Cronos, Quaderni del Liceo classico Umberto I, Ragusa, 11, pp. 39-102;

            G. Poidomani, Il convento di S. Anna dei Minori riformati a Modica nel 1650, in Archivum Historicum Mothycense, 5, 1999, pp. 7-18;

            L. Ammatuna, ‘In luogo cospicuo’: il complesso di S. Anna a Modica, in Archivum Historicum Mothycense, 5, 1999, pp. 19-26.

 

 

 

 

NOTE

 

* (Ragusa, 1963). Ha conseguito nel 1987 la laurea in Architettura presso l'Università degli Studi di Palermo con una tesi di storia dell'architettura. Ha poi frequentato il V Corso internazionale di Alta Cultura ‘Centri e periferie del Barocco’.

Nel 1988: dottorato di ricerca in ‘Storia dell'architettura e dell'Urbanistica’ (Politecnico di Torino); successivamente frequenta corsi internazionali di storia dell'architettura. Nel 1995 ha vinto il concorso di ricercatore nella disciplina ‘Storia dell'architettura’ presso la Facoltà di Architettura di Palermo, ove attualmente insegna.

Ha pubblicato varie opere e saggi di storia dell'architettura, fra cui ‘Architettura religiosa negli iblei. Dal Rinascimento al Barocco’, Siracusa 1990; ‘Disegni del Settecento negli archivi parrocchiali della provincia di Ragusa’, in «Il disegno di architettura», 1, maggio 1990; ‘Una geometria difficile: progetti di chiese pentagonali fra XV e XVIII secolo’, ivi, 2, settembre 1990; ‘Fondi per lo studio dell'architettura dei Gesuiti in Italia’, ivi, 3, aprile 1991; ‘I disegni dell'Archivio Generalizio dei Padri Scolopi a Roma’, ivi, 4, novembre 1991; ‘Il progetto fra le Scuole Pie di Monterano e Gian Lorenzo Bernini’, ivi, 4, novembre 1991; ‘La Descrittione del Regno di Sicilia’, in «Kalós», 3-4, 1991; ‘Un topos perduto: la 'strada maestra' di Modica e i suoi ponti’, in «Pagine dal sud», 2, 1991; ‘Progetto e “restauro” nel Settecento Italiano’, in «Tabulas», 2, 1991; ‘Angelo Italia architetto e la chiesa centrica con deambulatorio in Sicilia’, in L. Patetta e S. Della Torre (a cura di), L'architettura della Compagnia di Gesù in Italia, XVI-XVIII sec., Atti del Convegno di Studi, Milano 24-27 ottobre 1990, Milano 1992, pp. 155-158; ‘Due piante chiesatiche centrali: l'ovale e il pentagono. Le linee forti della composizione’, in P. Manno, Le condizioni del progetto; Sulla produzione architettonica nella Contea di Modica fra tardogotico e rinascimento, in «Archivum Historicum Mothycense», 2, 1996, pp. 19-30.

 

I corsivi sono della Redazione.