Appalti
pubblici in epoca protorepubblicana[1]*
di Francesco Milazzo**
1.
— Uno dei problemi più ampi quanto irrisolti del diritto romano riguarda le
origini della locatio conductio privata, quale fenomeno giuridico e,
ancor prima, materiale.
L’ampiezza
e la complessità di questo tema derivano non solo, come è comprensibile, dalle
intrinseche difficoltà che hanno impedito all’oramai ultrasecolare impegno
della dottrina di pervenire a soluzioni definitive ma anche perché tali
soluzioni sono mancate e mancano altresì per le connesse vexatissimae
quaestiones dell’unitarietà o meno della locazione; dell’epoca,
relativamente tarda, della definitiva modellazione del contratto consensuale di
locazione e dei precedenti storici di tale assetto.
Problema
dell’unità della locazione romana vuol dire verificare se all’unità
terminologica e processuale delle locationes rei, operarum e operis corrisponda
un’unità concettuale.
Una
corrispondenza del genere era naturalmente esclusa nell’ottica pandettistica,
dominante fino agli inizi di questo secolo.
I
pandettisti, piuttosto, avevano istituito una tripartizione secondo la quale,
presupposto che ogni singolo rapporto locativo sarebbe contrassegnato dallo
scambio d’uso contro danaro, l’uso avrebbe riguardato cose nella locatio rei,
energie di lavoro (operae) nella locatio operarum e il risultato
complessivo (opus) dell’uso di tale energie di lavoro nella locatio
operis, cosicché locator sarebbe stato in ogni caso chi avrebbe
messo a disposizione l’oggetto di tale uso (cose, energie di lavoro, risultato
delI’impiego di tali energie).
Ma
questa terminologia — e insieme ad essa la descritta tripartizione
pandettistica, peraltro estranea in questi termini a Gaio e al Digesto — è
palesemente sconfessata nella locatio operis, nella quale locator dell’opera
non è l’imprenditore, cioè colui il quale, secondo i pandettisti, loca l’uso
delle energie di lavoro finalizzato a un risultato, bensì il committente cioè
colui al quale compete il godimento dell’opus posto in essere.
Tuttavia,
nel progressivo superamento dell’impostazione pandettistica e nella conseguente
adozione di un’ottica per lo più unitaria non può finora dirsi che alcuno dei
tentativi di individuare quel “minimo di tipicità che... tiene insieme tutti
gli svariati possibili contenuti che possono essere riversati nello schema
della locatio conductio romana” (Amirante) si sia imposto sugli altri in
modo convincente.
Quanto
poi all’epoca in cui si forma il contratto consensuale di locazione conduzione,
è stato osservato che “die Quellen sind äusserst dürftig und geben... der
Hypothese weitesten Raum” (Kaufmann); e infatti le ipotesi avanzate vanno dal
III al I sec. a.C.
Inoltre,
l’alta risalenza del periodo da indagare favorisce una preoccupante ma
inevitabile varietas opinionum circa l’aspetto formale della locazione
preconsensuale e delle concrete circostanze che ne favorirono la gènesi.
Circostanze
che da molti vengono ricondotte all’ambiente della clientela e alla sua
decadenza e che, in ogni caso, dovettero essere tanto varie quanto numerosi
sono i “contenuti e gli scopi economico-sociali che con la locazione possono
farsi valere” (Amirante).
Così,
mentre la concessione a titolo di precarium di un’abitazione o di un
pezzo di terra perché il concessionario ne godesse a suo piacimento ma li
restituisse al concedente quando questi ne facesse richiesta è da molti
ritenuta l’origine della locatio rei, per la locatio operarum si
opina invece che fosse sorta dalla locazione del proprio schiavo.
Ancora,
a proposito della veste formale che ebbe la locazione preconsensuale sono state
avanzate le seguenti ipotesi. Per alcuni, la locazione conduzione avrebbe avuto
natura reale, cosicché si sarebbe perfezionata colla consegna della cosa.
Altri
hanno pensato invece ad una mancipatio fiduciae causa, colla quale il mancipio
dans/locatore trasferiva, come in ogni mancipatio, il dominum ex
iure Quiritium sulla res, che il mancipio accipiens/conduttore
si impegnava a ritrasferire al mancipio dans con un pactum fiduciae
in cui venivano altresì variamente fissate le condizioni alle quali tale
obbligo scattava concretamente.
Infine,
per altri Autori ancora, locatore e conduttore avrebbero assunto verbis
i loro obblighi ponendo rispettivamente in essere due stipulationes. La stipulatio,
infatti, per la sua natura di contratto con cui potevano promettersi
prestazioni dal più vario oggetto, ben si sarebbe prestata a rivestire di forma
giuridica i contenuti economici del negozio locativo.
2.
— Poco più di venti anni fa uno studioso di lingua tedesca Horst Kaufmann,
rilevava come l’analisi sulle origini della locatio conductio quale Rechtserscheinung
si fosse meramente risolta per intere generazioni di studiosi in un’indagine
linguistica sulle espressioni locatio conductio e affini — così come
utilizzate nel diritto romano classico — e sulla loro Vorentwicklung
etimologica.
Questo
approccio, metodologicamente riduttivo, ha prodotto risultati limitati e
sottratto all’indagine storico-giuridica il profilo fattuale della locatio conductio
al suo affermarsi e nello sviluppo successivo, lamentava il Kaufmann secondo
noi, molto opportunamente.
Fra
gli altri, naturale bersaglio di queste critiche fu pure un saggio del Mommsen
dal titolo: “Die römische Anfänge von Kauf und Miethe”, in cui il sommo storico
di Garding, su base esclusivamente linguistica, forniva sul nostro tema il suo
più articolato contributo.
Per
il Mommsen, la locatio rei, operarum e operis si formarono
nell’epoca repubblicana nell’ambito del diritto pubblico, dal quale poi
passarono al diritto privato; la locatio rei e operis sarebbero
rispettivamente scaturite dalla locazione statuale dei beni pubblici e
dall’appalto per la costruzione e manutenzione delle opere pubbliche; mentre la
locatio operarum dai Dienstverträge gegen Entgelt che ogni magistrato
poteva concludere nell’ambito del suo officio, insofern er freier Officialen
bedarf.
Questa
teoria è stata oggi definitivamente abbandonata e, insieme ad essa, si è pure
rinunciato a indagare nel campo delle locazioni statali ai fini del problema
delle origini della locazione privata.
È possibile che su
questa rinuncia abbiano pure influito i principi secondo cui “die vermögensrechtlichen
Beziehungen des einzelnen zum Staat sind nach dem Autoritätsprinzip geordnet...
die Autorität des Staates zieht diese Rechtsverhältnisse in den Bereich des ius
publicum. Das hier geltende materielle Recht ist nicht das Privatrecht”
(Schulz). Principi ai quali si
devono poi, in specifica relazione al nostro tema, formulazioni del tipo: “lo
studio (scil. delle locazioni pubbliche) non presenta un interesse
diretto per chi aspira a ricercare il formarsi della locazione privata romana”
(Amirante).
A
questo riguardo, però, credo che s’imponga una distinzione.
Che
l’attività negoziale Stato-privati non possa essere assimilata a quella
interprivata è un fatto indiscutibile, che è spesso valido persino ancora oggi;
ma che questa autonomia del pubblico dal privato debba costituire un
aprioristico insuperabile ostacolo — cosicché l’evoluzione di un settore non debba
essere uno strumento per tentare una conoscenza dell’altro — mi sembra
metodologicamente inaccettabile e scientificamente inopportuno, considerato fra
l’altro che, come abbiamo visto, si sa poco della locazione preconsensuale.
A
proposito poi del definitivo abbandono della tesi-Mommsen, non ci pare che
l’insuccesso del suo tentativo, diciamo così, filologico, di mettere in
relazione le locazioni pubbliche colle private, precluda la possibilità di
cercare tale punto di contatto su altre basi, specie materiali.
E
del resto, in questa direzione, mi pare che siano da rivalutare alcune
affermazioni della dottrina, le quali, per il solo fatto di pervenire a
risultati analoghi a quelli del Mommsen — seppur in modo del tutto autonomo e
su base diversa — sono state liquidate troppo sbrigativamente.
Emblematica
in tal senso la posizione del Karlowa che nella sua Römische
Rechtsgeschichte II, nel 1901, quindi sedici anni dopo l’articolo
sopracitato del Mommsen, affermava: “Nicht die locatio conductio rerum,
auch nicht die operarum, wohl aber die operis scheint nach dem
Vorbild des staatlichen Vermögensverkehrs in den Privatverkehr eingedrungen zu
sein”. E questo dopo avere svolto una propria argomentazione su base storica,
assolutamente lontana nel metodo e nella sostanza dall’iter speculativo del
Mommsen che, peraltro, non è neanche citato.
E
anche il Degenkolb e il Pernice, già prima del Mommsen, avevano espresso circa
la locatio operis opinioni simili a quelle del Karlowa.
A
questo si aggiunga inoltre che anche fra gli Autori che hanno contrastato e
rifiutazo la tesi del Mommsen e che hanno spiegato le origini della locazione
privata in modo endogeno si finisce spesso per parlare di un’influenza non
meglio precisata delle locazioni pubbliche sulle private.
Cosicché
ci pare che un’ipotesi d’indagine liquidata attraverso l’ingresso principale
venga fatta rientrare dalla finestra!
Orbene,
di fronte a questa curiosa sorte della tesi dell’origine pubblicistica della
locazione conduzione privata, stiamo da qualche tempo lavorando ad un’ipotesi
di ricerca che intendiamo svolgere con un riesame del dibattito dottrinario
circa la suddetta tesi e con un’analisi di tutte le fonti che a questo contesto
possono dare un contributo.
Insieme
ai primi parziali e provvisori risultati a cui crediamo sotto quest’ultimo
profilo di essere pervenuti, come spesso succede, ne abbiamo forse conseguito
altri in campi diversi. Questi e quelli abbiamo oggi l’onore di sottoporvi,
fiduciosi nella Vostra paziente benevolenza e sicuri di ricevere utili
suggerimenti.
3.
— In dottrina, perlopiù, non ci si è posti in termini netti il problema della
fase in cui possano avere avuto esordio gli appalti pubblici. I negozi, cioè,
dai quali, secondo la dottrina, avrebbero avuto origine le locazioni private.
Nell’età
storica, in relazione alla quale abbiamo sicure attestazioni dalle fonti, con
tali contratti, in cui una delle parti era espressione della civitas, la
controparte privata prendeva in appalto lo sfruttamento dei ben i pubblici o la
costruzione (e la manutenzione) di opere pubbliche o la prestazione di
forniture.
L’appalto
dei beni pubblici consisteva in una locatio rei e poteva concernere beni
dei quali vi fossero già fruitori o meno.
Nel
primo caso, la civitas appaltava la percezione dei canoni (publica
vectigalia fruenda locare) per lo sfruttamento individuale dei beni
pubblici ad un privato, che le versava un gettito complessivo calcolato sulla
base dei canoni che egli conseguiva il diritto a percepire dai singoli utenti.
Nel
secondo caso, la civitas, in cambio di una somma di denaro, dava in
concessione il bene (publica fruenda locare) ad un privato col diritto
di organizzarvi una determinata attività.
La
costruzione (e la manutenzione) delle opere pubbliche e la prestazione di
forniture, complessivamente chiamati ultro tributa, avveniva con una locatio
operis, cosicché il privato, dietro corrispettivo, s’impegnava colla civitas
a svolgere l’attività necessaria per il raggiungimento di un certo
risultato di lavoro.
È
giustamente unanime l’opinione che questo sistema, definito dal Karlowa das
System indirekter Finanzverwaltung — ché il flusso delle entrate e delle
uscite pubbliche era in sostanza incentrato sull’attività di privati piuttosto
che uno stabile organismo di funzionari pubblici — fosse tipico dell’età
repubblicana.
E
questo, in un univoco panorama di testimonianze, è in particolare attestato
dalla qualificazione di censoriae — dal nome, appunto, della
magistratura repubblicana che normalmente curava questo genere d’interessi —
riservata alle locationes contenenti le condizioni dell’appalto, rese
note preventivamente sotto forma di capitolato e, dopo la licitazione e la conseguente
aggiudicazione, trasformate nelle clausole del vero e proprio contratto
pubblico.
4.
— Quanto all’epoca precedente la res publica, la dottrina appare nel
complesso scettica circa la possibilità di ricollegarvi fenomeni giudicabili in
qualche modo prodromici dell’assetto che ora abbiamo schematizzato.
Tuttavia,
contro la plausibilità di tale atteggiamento, che vaglieremo riferendoci
soltanto al campo delle opere pubbliche — nel quale, del resto, si pensa che
vadano comunque ricercate le più risalenti testimonianze dei pubblici contratti
— è da dirsi che, secondo una testimonianza stranamente trascurata, già
nell’anno 496 è attestato l’appalto della costruzione del tempio a Cerere,
Libero e Libera (ovvero, grecamente, Demètra, Diòniso e Core), la cui
tradizionale cronologia, peraltro, talvolta giudicata frutto di
un’anticipazione, è stata di recente e autorevolmente confermata.
Inoltre,
la testimonianza in questione appare rafforzata dal fatto di essere inserita in
una sequenza di eventi che in epoca repubblicana sarà spesso ricorrente nella
realizzazione di questo genere di opere pubbliche: votum, in circostanze
belliche, di un tempio alla divinità da parte del comandante militare;
deliberazione senatoria della costruzione del tempio col bottino conseguito; e,
su iniziativa magistratuale, appalto dell’opera e dedicatio della
stessa. Secondo la cronologia di Dionigi, nel 496, durante la guerra contro i
latini, prima della battaglia combattuta presso il lago Regillo, il dictator
A. Postumio Albo Regillense promette in voto un tempio a Cerere, Libero e
Libera (Dion. 6.94.3; 6.17.2-4; Tac. ann. 2.49.1). Dopo la vittoria sui latini,
il senato, su pressione di Postumio, delibera la costruzione del tempio, da
finanziarsi col bottino (Dion. 6.94.3; 6.17.4; 6.17.2). Postumio,
conseguentemente, appalta i lavori del tempio a Cerere, Libero e Libera (Dion.
6.17.2), che tre anni dopo viene consacrato (Dion. 6.94.3) dal console Spurio
Cassio, in assenza del collega Postumio Cominio, che aveva lasciato l’Urbe rei
publicae causa (Dion. 6.91).
5.
— Se, quanto all’epoca protorepubblicana, la dottrina arriva a trascurare
testimonianze come quella ora vista (al limite anche per rifiutarle), la
rinuncia a individuare eventuali precedenti degli appalti pubblici è per
l’epoca regia ulteriormente favorita dal diffuso convincimento che le spesso
rimarchevoli opere pubbliche monarchiche a scopo religioso e civile siano state
il risultato, gratuito per la civitas, del lavoro coattivo e senza
compenso che i re imponevano alla popolazione, i munera o munia,
che addirittura, secondo taluni, sarebbero arrivati a giocare un certo ruolo
agl’inizi della res publica.
E
in effetti, a proposito almeno dell’epoca regia, varie fonti attestano o
lasciano ragionevolmente presumere un impiego non retribuito della cittadinanza
nelle opere pubbliche.
6.
— Così, per ragioni etimologiche, ma invero in mancanza di un’espressa
testimonianza, è sospettabile che siano frutto di munia i moeri che
la tradizione ascrive a quasi tutti i re di Roma, data la vicinanza di munia
(= munera = obblighi) e moenia-moeri-muri (= mura) e considerato
che: moenia praeter aedificia significant etiam munia, hoc est officia (Fest.
137 L. e vd. pure 129 L.; cfr. Cic. p. Mur. 35.73); ...munus quod
muniendi causa imperatum... (Varr. l.l. 5.179) e infine oppida
quod opere muniebant, moenia ... quod sepiebant oppidum eo moenere, moerus
(ibid. 5.141).
Livio
(1.57.2) spiega le cause della guerra ingaggiata da Tarquinio il Superbo contro
i Rutuli, fra l’altro, con la prospettiva che il re placasse col bottino gli
animi dei plebei, ostili al regno etiam quod se in fabrorum ministeriis ac
servili tam diu habitos opere ab rege indignabantur.
Il
fossato difensivo fatto costruire da Anco Marcio attorno all’Urbe prese il nome
di fossae Quiritium poiché il re populi opera eas fecerat (Fest.
304 L.)
E
allo stesso modo furono realizzati i canali di scolo verso il Tevere (Pin. n.h.
36.24.107; Dion. 4.44.1-2). Plinio, inoltre, nel descrivere la disperata
reazione della gente, racconta che molti arrivavano al suicidio e che, per
dissuadere i “superstiti”, il re faceva crocifiggere il corpo dei suicidi, che
rimaneva così esposto al ludibrio popolare e in balia di bestie rapaci (Plin. n.h.
36.24.107 s.). Il nucleo di questa notizia lo dobbiamo, come è rilevabile
in Servio, a Cassio Emina che però parlava del Superbo e non di Prisco (Serv. a.Aen.
12.603); cosicché è possibile che Plinio abbia anticipato l’episodio.
Che
poi Servio e Liv. 1.59.9 (... et labores plebis in ...fossas cloacasque
exhauriendas demersae; romanos homine, victores omnium circa populorum,
opifices ac lapicidas pro bellatoribus factos) col plurale cloacas si
riferiscano al completamento dei canali di scolo che Tarqunio Prisco, secondo
Dionigi, aveva solo iniziato e il Superbo completato e alla cloaca massima, che
fu opera del Superbo, o solo a questa, è una circostanza dalla quale il ricorso
ai munera per la realizzazione di quest’altra opera risulta comunque
confermato. E del resto in tal senso si vedano pure Liv. 1.56.1-2 e Auct. de
vir. ill. 8.3. Fonti che attestano il lavoro coattivo altresì per la
costruzione dei sedili nel Circo, che, allo stesso modo, fu pure dotato di
portici (Dion. 4.44.2).
Infine,
anche per la realizzazione del celebre tempio a Giove, Giunone e Minerva sul
Campidoglio, Liv. 1.56.1-2 e Cicerone tramandano, mentre Dionigi lascia
presumere, il ricorso ai munera (Cic. Verr. 2.5.19.48; Dion.
4.59.1; 4.61.3). Ma su quest’ultima realizzazione torneremo fra poco.
7.—
Orbene, dopo questo esame delle opere pubbliche riconducibili all’effettuazione
di munera va subito rilevato che per un numero almeno pari di
realizzazioni — i templi a Giove Feretrio, a Giano bifronte, a Giove Elicio e a
Diana sull’Aventino, la curia, il comitium il carcere, il ponte
Sublicio, il circo massimo e i relativi sedili e le botteghe e i portici nel
Foro — le fonti non attestano alcun ricorso a questo genere di prestazioni.
La
qualcosa evidenzia almeno che la più diffusa concezione che i munera siano
stati l’unico modo con cui la forza-lavoro fu coinvolta nella costruzione delle
opere pubbliche dell’età regia non trova coerenti e univoche attestazioni nelle
fonti.
E
le perplessità sull’affidabilità del quadro tradizionalmente prospettato dalla
dottrina aumentano se alla precedente osservazione si aggiunge che per la
costruzione della curia e del comizio da parte di Tullio Ostilio, dei canali di
scolo intrapresi da Tarquinio Prisco e del tempio a Giove Capitolino — opere
queste ultime per le quali sono altresì attestati i munera — le fonti
tramandano un intervento finanziario, che, in considerazione della natura delle
opere in questione, è difficile non immaginare destinato a scopi retributivi, e
che, insieme ai munera induce a delineare l’esistenza di una sorta di regime
misto, che, invero, ci sembra molto realistico.
8.
— Tali scopi retributivi, del resto, sono confermati da ulteriori notizie sulla
costruzione del tempio a Giove Capitolino.
Quest’opera,
nel suo genere “la più grande nel mondo italico di quell’epoca” (Bernardi),
promessa in voto durante la guerra coi Sabini da Tarquinio Prisco, forse da lui
iniziata e secondo un’isolata notizia proseguita da Servio, fu in effetti
principalmente realizzata dal Superbo e consacrata da uno dei consoli che,
secondo la tradizione, si ebbero fra il 509 e il 507.
Molteplici
testimonianze concordano nel tramandare che — accanto ai munera sopraricordati
— questa realizzazione comportò un notevole impegno finanziario.
Oltre
a Liv. 1.56.1-2, ove significativamente vengono affiancate pecunia publica
e opera ex plebe ancora Livio, ma anche Dionigi, Cicerone, Tacito e
Floro, dicono che l’opera in questione sarebbe stata affrontata col bottino
derivante dalla presa di Suessa Pomezia nella guerra contro i Volsci (Liv.
1.53.2-3: Ubi cum dividenda praeda quadraginta talenta argenti refecisset,
concepit animo eam amplitudinem Iovis templi ... captivam pecuniam in
aedificationem eius templi seposuit). Ma il bottino, nonostante si contasse
su di esso per l’intera opera, bastò solo per le fondamenta (Liv. 1.55.7-9).
Cosicché il Superbo, avendo dovuto affrontare maggiori spese, finì exhaustus
magnificentia publicorum operum (Liv. 1.57.1). Motivo che, fra l’altro, fu
causa della guerra ai Rutuli, con la quale rex Romanos ... ipse ditari ...
studebat (Liv. 1.57.1).
Alcune
fonti ci dicono la specifica destinazione impressa ai fondi spesi per il
tempio.
Liv.
1.56.1-2, già richiamato più di una volta, parla di pecunia publica ad
perficiendum templum ponendola in relazione coi fabri undique ex Etruria
acciti.
Plutarco
narra che il Superbo commissionò ad alcuni artigiani dell’etrusca Veio una
quadriga da disporre sulla sommità del tempio (Plut. Popl. 13.1). Festo
precisa la modalità negoziale con cui fu perfezionata questa commissione:
Fest. 342 L.: ...
fictilium quadrigarum quae erant in fastigio Iovis templi quas faciendas
locaverant Romani Veienti cuidam artis figulnae prudenti.
Plinio
il Vecchio, richiamandosi a Varrone, ribadisce testualmente il locare di
cui parla Festo, indica il nome della controparte privata (ma sbaglia quello
del locator) e tali elementi tramanda altresì a proposito della statua a
Giove destinata al medesimo tempio, lasciando presumere un analogo rapporto
circa il simulacro a Ercole:
Plin. n.h. 35.45.157: ...
Vulcam Veis acci tum cui locaret Tarquinius Priscus Iovis effigiem in Capitolio
dicandam ... fictiles in fasti gio templi eius quadrigas ab hoc eodem factum
Herculem ...
9.
— E non ci pare un caso che queste realizzazioni siano storicamente le prime per
le quali le fonti parlano, e anche ripetutamente, di locare. In effetti
è di un “battesimo”, di un’inaugurazione che, sul piano tecnico-giuridico,
dovette trattarsi.
Non
solo perché la straordinarietà dell’opera — e dunque l’impegno materiale
ch’essa richiedeva — sollecitava e favoriva nuovi schemi formali per l’impiego
della forza-lavoro, ora altresì promossi da tempi più maturi, ma anche per il
ricordo che di questo “battesimo” azzardiamo cogliere nel legame istituibile
tra la prima e più importante locatio operis pubblica che le fonti
tramandino, quella, appunto, del simulacro a Giove Capitolino, e la prima locatio
operis quella per la riverniciatura di tale simulacro, colla quale e
assieme ad altre operazioni negoziali ogni coppia censoria, appena entrata in
carica, doveva inaugurare la serie dei contratti d’opera e d’affitto che
l’amministrazione finanziaria comportava:
Plin.
n.h. 33.36.111-112: ... minium quoque, et nunc inter pigmenta magnae
auctoritatis et quondam apud Romanos non solum maximae, sed etiam sacrae.
Enumerat auctores Verrius, quibus credere necesse sit Iovis ipsius simulacri
faciem diebus festis minio inlini solitam... hac religione... a censoribus in
primis Iovem miniandum locari. Cuius rei causam equidem miror... (Cfr.
Plut. quaest. Rom. 98).
Il
legame che abbiamo ora indicato è del resto in qualche modo stimolato dalla
possibilità di rispondere con una cauta ipotesi al naturale interrogativo circa
la ragione della priorità riservata nell’attività contrattuale censoria
all’appalto per la riverniciatura della statua di Giove Capitolino.
Interrogativo che non trova soddisfacente spiegazione nelle fonti che lo
suscitano.
Plinio
infatti dichiara sinceramente di essere egli stesso meravigliato e curioso di
conoscere cuius rei causam, anche se ci appare al riguardo suggestivo,
ma generico, il riferimento ch’egli fa poco prima alla rilevanza sacrale apud
Romanos del minium, il cinabro, ch’era appunto la sostanza di colore
rosso vermiglio impiegata per la riverniciatura in questione.
Plutarco
ostenta invece sicurezza e risponde alla domanda che si è posta, spiegando che
la pulizia della statua è assolutamente necessaria poiché il cinabro perde
presto la sua vividezza.
Ciò,
tuttavia, chiarirebbe la causa della riverniciatura ma non la sua priorità, che
non potrebbe nemmeno giustificarsi coll’eventuale solerzia dei censori nel far
riverniciare una statua che, posta l’incombenza che in tal senso ricadeva su di
essi, di tale trattamento avrebbe beneficiato solo ogni cinque anni. È infatti
da pensarsi che l’appalto censorio della riverniciatura non si risolvesse in
una sola prestazione del genere bensì in una serie di riverniciature, come è
desumibile dal fatto che il grammatico Verrio Flacco, gli autori fededegni
ch’egli enumera e Plinio stesso tramandano che nei giorni festivi, e dunque
molto più spesso che ad ogni censura, si era soliti riverniciare Iovis
ipsius simulacri faciem.
10.
— Comunque sia di ciò, ci pare, in conclusione, che i dati raccolti consentano
di schematizzare — quanto a quella che può definirsi la preistoria delle
locazioni censorie — un quadro che pone
in discussione il tradizionale ma non per questo giustificabile appiattimento
sui munera di tutte le opere pubbliche dell’età regia, rilevando piuttosto, in
questa fase, l’esistenza di un sistema almeno “misto” di realizzazioni, per
l’ultima delle quali doveva inaugurarsi, non a caso, come abbiamo visto, uno
schema per il quale Festo, Plinio (e Varrone, cui Plinio si richiama) impiegano
l’espressione locare.
Lo
svolgimento di tale processo già internamente all’epoca monarchica, senza
liquidare, s’intende, il sistema dei munera, consolida nondimeno la
storicità, non più di quattro decenni dopo, dell’appalto dei lavori del tempio
a Cerere, Libero e Libera. Un appalto la cui credibilità è rafforzata altresì
dagli eventi successivi, posta la contiguità cronologica — solo sessantuno anni
(496-435 a.C.) — che lo pone in una significativa relazione colla prima
locazione censoria della quale si abbia testimonianza, una testimonianza invero
indiretta che tuttavia la dottrina pressoché unanimemente accoglie.
Si
tratta della notizia liviana circa la probatio a cui, nel 435, i primi
censori sottoposero l’avvenuta costruzione del loro ufficio, la villa publica,
il cui appalto, non espressamente attestato, è tuttavia desunto dalla
circostanza che l’approvazione dell’opus in seguito a collaudo era
l’atto che chiudeva il rapporto di locazione d’opera: ... C. Funus Paculus et
M. Geganius Macerinus censores villam publicam in campo Martio probaverunt ... (Liv. 4.22.7).
Tuttavia,
rispetto a questa testimonianza, quelle che la dottrina ha finora trascurato
relative ai templi di Giove Capitolino e di Cerere, Libero e Libera, per la
loro risalenza e terminologia che già troviamo utilizzata, rivestono, sotto il
profilo dell’eventuale origine pubblicistica delle locazioni private, una speciale
e ulteriore importanza.
Esse
danno infatti notizia dei rapporti collocabili più anticamente nella storia di
Roma che le fonti denominino come locativi.
La
circostanza secondo cui tali rapporti siano di tipo giuspubblicistico, in sè di
certo non decisiva in favore della derivazione della locazione privata dalla
pubblica, resta pur sempre un elemento — non solo terminologicamente ma anche
materialmente fondato — che, per la sua estrema risalenza, giudichiamo
meritevole di considerazione tanto dagli oppositori quanto dai sostenitori
della tesi in questione, per i quali ultimi l’introduzione della censura è
invece finora considerata un invalicabile dies a quo circa l’epoca a
partire dalla quale sarebbe possibile immaginare tale rapporto tra ambito
pubblico e privato.
(*) Questo contributo,
cortesemente richiestomi dal Prof. Giorgio Colombo, alla cui giovane Rivista
auguro i migliori successi, è la traduzione italiana di una conferenza che ho
tenuta in tedesco nella Facoltà Giuridica di Passau, su invito del Collega
Prof. Ulrich Manthe, ordinario di Diritto Romano e di Diritto Privato, che mi è
caro qui ricordare. Per ragioni di spazio ho dovuto limitare al massimo la
diretta citazione testuale delle fonti e la bibliografia, per le quali vd. però
il mio La realizzazione delle opere pubbliche in Roma arcaica e
repubblicana. Munera e ultro tributa (Napoli, Esi, 1993) 9 ss., cui mi
permetto rinviare anche per un ultenore svolgimento dei temi affrontati nelle
pagine che seguono.
(**) Professore di ruolo nella Facoltà di Giurisprudenza di Catania (Esegesi delle Fonti del Diritto Romano), insegna anche nella Facoltà Giuridica di Catanzaro (Storia del Diritto Romano). Perfezionatosi nell’Università di Friburgo i.Br., è autore di articoli in raccolte di studi e riviste romanistiche internazionali e ha pubblicato Profili costituzionali del ruolo dei militari nella scelta del princeps. Da Augusto a Vespasiano (Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1989) e La realizzazione delle opere pubbliche in Roma arcaica e repubblicana. Munera e ultro tributa (Napoli, Esi, 1993). Cura gli Atti dei Convegni internazionali di Diritto Romano cli Copanello (CZ) e la traduzione di lavori scientifici (AA.VV., Diritto e storia. L’esperienza giuridica di Roma attraverso le riflessioni di antichisti e giusromanisti contemporanei, Padova, Cedam, 1995).