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Questa sezione presenta alcuni testi di Enzo Terzano provenienti da raccolte inedite.


1. NOTES  

Quasi non converrebbe lasciare tracce
a che serve dirti che sono stato bene?
e poi dov'è finito questo bene?
dissolto con le prime luci del sole, fra questa luce…
E poi questo sole dove và?
 
Aprile 1997  
Ciò che è nel desiderio
profondo
è difficile guardarlo
direttamente
per questo ci si
viene incontro
 
senza data, trascrizione del 14 Luglio 1997
Senza rancori, né pianti
né timori, né angosce,
senza paura, né dolore,
né attaccamento, né vergogna,
così semplicemente sereni,
presenti e consapevoli
umili e sinceri
 
26 Luglio 1999  
quando la voce è sottile
penetra anche il muro del vuoto
e lo plasma come mondo
 
Settembre 1999
a linea
dell'orizzonte
non ha bisogno
di uno sguardo
definito
 
Ottobre 1999
eri lì
quando io non c'ero
non ti ho forse trovato
non cercandoti?
Ottobre 1999
il tenero filo
dell'orizzonte
ha bisogno
di sguardi
discreti
 
31 Ottobre 1999
quando sei tranquillo perché sai che l'altro c'è
perché non ti chiedi se l'altro è tranquillo perché tu ci sei?  
 
Sms del Dicembre 1999
E' così difficile
superare la soglia
del primo conoscersi!
Che non sia la paura
di assaporare quelle gocce
di preziosa tenerezza
e doverle poi vedere svanire
appena dopo
nel freddo silenzio della separazione?
Ci siamo stupiti del fragore
degli attimi intensi
e poi spaventati ci siamo storditi
di quel nettare...
 
Dicembre 1999  
essere troppo compiaciuti
allontana la Grazia
 
Dicembre 1999  
il girare intorno
consente di osservare.
Un tuffo
nell'osservato
diventa
coinvolgimento,
della propria natura
nell'altra...
 
Gennaio 2000
ho trovato neve alta
e luce diffusa
come in un'icona
 
Sms del 25 Gennaio 2000
Un occhio
in più
e il territorio
è sotto lo sguardo,
se insisti
nel conoscere
troverai
che né territorio
né occhio
sono mai esistiti
 
Febbraio 2000
In mezzo alla
corruzione
sono rimasto
nella purezza.
Forse impuro
è essere
inconsapevoli
 
Febbraio 2000
Tu sei il frutto
e i frutti sono dolci,
il dolce è generoso con il sangue,
e il sangue rigenera la vita
 
9 Febbraio 2001  
Cosa si può tacere e dire con la voce
è meglio tenerlo segreto alla vista.
In chat 9 Febbraio 2001
Se proviamo affetto in così poco tempo
è perché gli Angeli fanno il loro lavoro
e mettono i ponti fra le isole lontane
e le fanno diventare un’unica terra.
 
In chat 9 Febbraio 2001
Affinché le terre si uniscano
bisogna che si vengano incontro
ogni volta che si muovono l’una verso l’altra
sono scosse da fremiti come terremoti
 
3 Giugno 2001

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 2. RACCONTI

Un party fuori misura (racconto breve, 1982 ?)

  Provvisto di radiotelefono aveva esplorato il posto il giorno prima. Aveva premuto i tasti RC e Zero alla luce blu, che proveniva dall’esterno, filtrata dagli enormi e regolari finestroni gropiussiani, dalle linee razionaliste. Il computer, contenuto nell’apparecchio, aveva composto il numero richiesto. Dall’altro capo una voce, ondulata per l’influenzata dei cicli radio, chiedeva informazioni, sul luogo, sullo stato dell’istallazione degli arredi, sui conforts, sull’impianto elettrico, sul funzionamento degli ascensori e sul numero dei piani.

Le risposte che riceveva erano d’entusiasmo. Gli ascensori non c’erano ancora, erano state costruite solo le trombe circolari d’ascensione. Gli accessi alle ali laterali dell’edificio erano aperti. Ai piani superiori nessuna transenna riparava dal vuoto, che si apriva verso il basso ad ogni balconata. Si sarebbe potuto raggiungere la vertigine dell’ultimo piano solo salendo lungo i piloni di cemento armato, ai lati della costruzione, i quali, ospitavano, un’interminabile scala a chiocciola con al centro, un ascensore per il servizio rapido antincendio per due persone, anch’esso ancora non installato.

Gli interni dell’edificio avevano un aspetto già definitivo. La moquettes ocra, spessa, che imitava il colore delle sabbie industriali, ricopriva ciascun piano. Alcuni ambienti, probabilmente le aree d’accesso, avevano i pavimenti plastificati con pattern a losanghe e triangoli in rilievo. Controsoffitti metallici, antiriflessi, ospitavano rettilinei di lampade alogene già montate su tutti i livelli ad esclusione dei primi tre. Mancava l’allacciamento alla linea elettrica, anche se, gli impianti interni, erano pronti. In fondo era proprio l’assenza d’energia elettrica che esaltava la voce scatenando un sovraccarico di commozione. Le finiture delle pareti erano di teck bianco lucido e pannelli in fibra opaca permettevano di modificare la struttura interna di ogni ufficio. Le finestre erano dotate di doppi vetri antiproiettili fumée.

La voce, che aveva risposto alla chiamata, aveva dunque approvato l’ambient confort, il luogo si sarebbe prestato all’evento. Dopo aver dato la localizzazione dello stabile, e un breve freddo saluto, la comunicazione fu interrotta.

Frank aveva richiuso il radiotelefono e si era rilassato. Accese un’inconfondibile Boyard gialla. Appoggiato sul pannello più prossimo alle lastre di vetro era attratto dal panorama che si godeva dal trentaseiesimo piano. La città si rivelava un megacircuito elettronico, come in un film, con le sue sconfinate linee di traffico. I neon notturni erano offuscati da una cappa di nebbia leggera che li decolorava. Con lo sguardo scandagliava le costruzioni a perdita d’occhio, dai tratti fortemente irregolari, ridotte a macchie ed ombre interrotte da finestre illuminate. Frank aveva spento la torcia che fin’ora lo aveva guidato all’esplorazione dello stabile in via di costruzione, e giocava con il fumo della sigaretta creando cerchi concentrici sempre più piccoli.

Come un overrunner aveva conquistato spazi non suoi e li aveva posseduti per il tempo effimero di una visione dall’alto, irripetibile. Il suo era solo un lavoro e per questo era pagato bene e in anticipo. Si occupava di fare ricognizioni in luoghi speciali e li segnalava ad un numero che non conosceva, memorizzato nel radio-telefono che gli avevano consegnato.

Imboccato il tunnel di scalini plastificati dell’uscita, stava attento, e sfoderava lo sguardo tagliente che gli veniva spontaneo alla fine di ogni missione. Frank aveva lasciato dietro di sé il palazzo per rientrare nella sua stanza quadrangolare a nord-est della città, in una zona frequentata solo da gente bizzarra e ancora underground. Seduto sulla poltrona di velluto rosso aveva bevuto del vino. Gli piacevano i sapori organici dopo anni di trashfoods all’americana e acceso il monitor del suo videoregistratore godeva di vecchi film muti che raccontavano storie d’amore come non ne aveva mai vissute.

Frank in questo si sentiva, un po’, overfond, innamorato, tra l’altro, troppo, anche di se stesso, e ciò gli piaceva e ne godeva fuorimisura. Le sue cellule cerebrali, quelle che contengono la visione, si aprivano accendendosi di godimento all’arrivo delle endorfine. Gli sembrava che il guardare quelle vecchie pellicole, ne stimolasse e accrescesse in dismisura la produzione.

La follia del suo desiderio diventava realtà e il partner ideale si materializzava in due dimensioni altamente definite sullo schermo video; e questo e quello collimavano perfettamente, nei visi, nelle azioni, nella recitazione, nei gesti stilizzati, in storie incredibilmente adatte al suo immaginario.

Si era addormentato senza averlo deciso coscientemente, il monitor continuava a dipingere immagini una dietro l’altra tutte stranamente irregolari di un film di Murnau del 1927, che si chiamava Sunrise nella sua lingua d’adozione.

Il radiotelefono emise tre rapidi sibili cristallini che lo svegliarono quando era ormai pomeriggio inoltrato. La voce ondulata lo invitava a tornare nello stesso posto quella notte, qualche ora dopo l’inizio del nuovo giorno. Gli diceva di indossare un overlook trascurato ed eccentrico. Che il suo viso interessava a quella voce enfatica e voleva possedere la sua immagine dopo un’intensa e fruttuosa collaborazione.

Frank deglutì una soluzione di guaranà e ginseng caldi e provò ristoro, poi concluse con un’insalata di germogli di soja e menta fresca. Sarebbe andato dove gli si chiedeva, come sempre. Questa volta però era diverso: avrebbe incontrato qualcuno non era solo in uno spazio sconosciuto.

La sera si era creato l’overlook e per ore vuote aveva girato la città, guardato uno spettacolo del K.G.B. & B. nel cortile di un ex istituto psichiatrico, diventato centro culturale polivalente, e aveva bevuto, con poche lire, succhi concentrati di carota, per mantenere vivo il colore giallo arancio della sua pelle.

La sua demicabriolet démodé con motore dinamico lo avrebbe condotto all’appuntamento. Questo probabile incontro gli avrebbe procurato una lieve accelerazione dell’umore. I semafori diventavano tutti rossi e le strade che percorreva erano tutte intasate. La circonvallazione esterna est era bloccata da una serie d’incidenti che l’elevata velocità e la frequenza del traffico causavano. L’aveva scelta inconsciamente per procurarsi un po’ di ritardo. Sotto il palazzo decine di persone tutte con overlook come lui, guardavano verso l’alto. Al trentaseiesimo piano una donna urlava, da un punto invisibile, e segnalava il percorso da seguire. Salirono le scale circolari del cilindro dell’ascensore per un tempo lungo. Un viaggio che il buio e la traiettoria a spirale rendevano eccitante in mezzo a grida di spavento e di risate, coglievano, a tratti, la cordata di gente che penetrava nel palazzo. I baratri delle trombe degli ascensori, le sbarre di tubi innocenti che chiudevano i corridoi che si aprivano dopo ogni ciclo di scalini, provocavano domande ad alta voce, segmentata e tesa, e risposte ironiche e divertite, come farebbero praticanti dell’espansione dell’incoscienza.

All’ultimo piano, in fondo ad un corridoio costellato di stanze tutte uguali, era stata ricavata una doppia stanza dallo spostamento di un pannello.  Una torcia rossa era stata lasciata sulla moquette, e un impianto stereo con suoni raffinati, procurava vibrazioni, espanse, agli ospiti del party. La gente, guardava dai finestroni e si avvolgeva della visione della città dall’alto. Un party sulla cuspide della civiltà postindustriale. Frank godeva della visione biologica non più alterata dall’ambient confort. Una voce alle sue spalle, la stessa del radiotelefono, ma più via, gli si rivolse guardandolo con un bacio.

  Enzo Terzano  


Il seme (racconto breve, 2 giugno 1996)

   Un drago insegue un uccello piumato che si leva in volo da una pianta fiorita e sul fondo blu si stagliano entrambi in questo atto che il tappeto immortala, tessuto fra i suoi fili di lana colorati.

  I corpi giacciono, su quest'immagine fissata da abili mani, sollecitati da lievi carezze d'affetto, hanno inseguito il piacere per un certo tempo e il momento culmine è venuto, ed ora trascolora in piccole cose, in parole sussurrate, in sorrisi.

  Il seme giace sul ventre, cumuli di cristalli liquidi, di gocce luminose, si distinguono. Per fondo s'intuisce la pelle tessuta di pori, ornata di rughe, rilassata dalla sensazione intensa.

  Nell'aria l'odore di sperma miscela ai profumi notturni dei fiori, pollini si spargono attorno appena ne hanno l'occasione, sotto l'influsso dei climi, per virtù dei sensi che s'appropriano di immagini e di voci.

  Eccoci affiancati e distinti ognuno col proprio corpo, ognuno col proprio seme. Assaggio un cucchiaino di miele e lo condividiamo per avere l'esperienza dello stesso sapore. Quanto ci avvicina questo piacere, quanto ci accomuna il dolore della separazione imminente. Sono con te nell'attimo delle tue tristezze senza confini, sei con me tentando di porre rimedio, con la dolcezza, alla gelosia.

  Il fazzoletto di carta raccoglie fiumi di questo nettare bianco e lo deposita nelle periferie, nei luoghi desolati, nelle discariche, nell'acqua delle latrine.

  Adbellatiff mi aveva detto tempo fa che il seme non si butta nel fuoco perché la sua natura non ama il secco ma l'umido. Dal bruciare il nettare derivano disturbi all'energia, minorazioni della prosperità.

  Così raccogliamo il seme e lo portiamo nell'acqua. Poi ci esponiamo al fumo del cipresso bruciato in un piatto di rame. Come i babilonesi ci siamo purificati dalla passione poiché il piacere non ottenebra la mente.

  Enzo Terzano


  Dolore (racconto breve, agosto 1998)

 Cos'è questo dolore che non posso alleviare? Il padre di questo mio corpo giace, disteso in uno spasimo, sul suo letto di nozze. Questa stanza non è cambiata da tanti anni e il piacere che provavi è ora diventato dolore. Il silenzio è spezzato dai tuoi lamenti e dalle frasi sconnesse che narrano delle visioni che passano davanti ai tuoi occhi.

Il male che ti corrode non ti consente di allungare le ginocchia così che sollevano le lenzuola come una tenda. Le dita delle mani le hai avvinte l'una all'altra e afferrano un invisibile destino. Con le braccia, rigide e nodose, intrecciate al cuore cerchi di proteggere questo tuo sentire.

« Sto male! » dici con una voce che chiama tenerezza in chi ti ascolta.

I capelli bianchi folti non sono più tirati all'indietro e appiattiti giacciono attorno al capo. Il letto è diventato per te rigido come una pietra che arroventa la tua schiena di dolori ed ha aperto piaghe nei tuoi piedi, arrossati il ventre e le viscere su questa morbida lana.

Di fuoco, proprio di fuoco sono le tue parole, le tue urla incessanti fra dolore e ironia, le tue parole d'offesa verso tutti, indifferentemente. La piccola Alessia non si avvicina al tuo letto, rimane distante e ti guarda per capire che succede. Le urla che sente quando viene a trovarti, noi le abbiamo chiamate 'canto'. «Che fa nonno Guido?» noi rispondiamo «Nonno Guido canta, canta sempre...».

Caro padre ora osservi lentamente il tuo corpo perdere le funzioni e l'integrità di cui hai goduto per otto decenni, così ora parli con rabbia, e l'ira, che avvolge e governa il tuo presente, si è insediata, punto punto, in ogni muscolo, in ogni giuntura, in ogni vena del tuo corpo.

Sputi il cibo. Dai pugni sulla testa e sulle braccia di tua moglie, mia madre, che ti spoglia con pietà per toglierti di dosso gli escrementi e la colpisci con sguardi di ghiaccio, ma disperati, quando ti chiede: «Come stai?».

Sono venuto per cantare, dopo il tramonto, al fianco del tuo letto, mentre fingi di dormire, i canti di liberazione che ho imparato nel Mandala del Maestro. Ti ho visto dopo alcuni giorni addolcito da quei suoni antichi. Hai perfino detto a tua moglie che si è fatta vecchia anche lei e che le vuoi bene. Mi hai chiamato al tuo fianco dicendo: «Vieni qui! Mi dispiace che parti, ritorna! »

Ora come frutto dell'esserti vicino, il tuo dolore è anche un po' il mio, padre, perché mi avvolge anche se non sono nel tuo corpo e non sento flagellare la mia carne dal male che ti insidia. Con tenerezza ho passato la mano sul tuo capo bianco come l'inverno, odoroso di bosco senza foglie, che è solo radici e tronchi, raffiche di vento e sole pallido.

Sono al tuo fianco in modo che mi insegni ancora un pò che cos'è la vita quando l'energia si corrompe e la mente entra nella dimenticanza e non sei più quasi persona. Tu e le tue visioni di voci e volti che vedi e senti nella tua stanza e che ci spaventano e non riesco, per quanto mi sforzo, a percepire.

Hai aperto finalmente le porte di un altro vedere, ascolti parole di un altro sentire e ci indichi che c'è un spazio parallelo oltre quello che ci illudiamo di vivere ogni giorno, fra queste mura disegnate dagli occhi e questi suoni captati dalle orecchie.

Tu che ora non riesci più a muoverti mi indichi che del corpo conosciamo solo il suo aspetto esteriore, i limiti del suo piacere e della sua stanchezza che ci avvolge le membra, e prima o poi, le rende inutili.

Il bene che mi anima si infiamma con il dolore che provo guardandoti e questo dolore appare come onde fra le pieghe dei miei pensieri. Ecco padre che siamo come una buona coppia di amici che si amano e si separano ogni giorno. Ti vedo partire e mi vedo partire e le lacrime sgorgano senza averle chiamate.

Lì celato fra le fratture del tempo ci aspetta il destino che si manifesta, goccia a goccia, e appena può uscire allo scoperto inonda all'improvviso la vita.

Enzo Terzano

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3. SCRITTI GIOVANILI

In allestimento

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