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sezione presenta alcuni testi
di Enzo Terzano provenienti da raccolte inedite.
Un party fuori misura (racconto breve, 1982 ?) Le
risposte che riceveva erano d’entusiasmo. Gli ascensori non c’erano
ancora, erano state costruite solo le trombe circolari d’ascensione.
Gli accessi alle ali laterali dell’edificio erano aperti. Ai piani
superiori nessuna transenna riparava dal vuoto, che si apriva verso il
basso ad ogni balconata. Si sarebbe potuto raggiungere la vertigine
dell’ultimo piano solo salendo lungo i piloni di cemento armato, ai
lati della costruzione, i quali, ospitavano, un’interminabile scala a
chiocciola con al centro, un ascensore per il servizio rapido
antincendio per due persone, anch’esso ancora non installato. Gli
interni dell’edificio avevano un aspetto già definitivo. La moquettes
ocra, spessa, che imitava il colore delle sabbie industriali, ricopriva
ciascun piano. Alcuni ambienti, probabilmente le aree d’accesso,
avevano i pavimenti plastificati con pattern a losanghe e triangoli in
rilievo. Controsoffitti metallici, antiriflessi, ospitavano rettilinei
di lampade alogene già montate su tutti i livelli ad esclusione dei
primi tre. Mancava l’allacciamento alla linea elettrica, anche se, gli
impianti interni, erano pronti. In fondo era proprio l’assenza
d’energia elettrica che esaltava la voce scatenando un sovraccarico di
commozione. Le finiture delle pareti erano di teck bianco lucido e
pannelli in fibra opaca permettevano di modificare la struttura interna
di ogni ufficio. Le finestre erano dotate di doppi vetri antiproiettili
fumée. La
voce, che aveva risposto alla chiamata, aveva dunque approvato l’ambient
confort, il luogo si sarebbe prestato all’evento. Dopo aver dato la
localizzazione dello stabile, e un breve freddo saluto, la comunicazione
fu interrotta. Frank
aveva richiuso il radiotelefono e si era rilassato. Accese
un’inconfondibile Boyard gialla. Appoggiato sul pannello più prossimo
alle lastre di vetro era attratto dal panorama che si godeva dal
trentaseiesimo piano. La città si rivelava un megacircuito elettronico,
come in un film, con le sue sconfinate linee di traffico. I neon
notturni erano offuscati da una cappa di nebbia leggera che li
decolorava. Con lo sguardo scandagliava le costruzioni a perdita
d’occhio, dai tratti fortemente irregolari, ridotte a macchie ed ombre
interrotte da finestre illuminate. Frank aveva spento la torcia che
fin’ora lo aveva guidato all’esplorazione dello stabile in via di
costruzione, e giocava con il fumo della sigaretta creando cerchi
concentrici sempre più piccoli. Come
un overrunner aveva
conquistato spazi non suoi e li aveva posseduti per il tempo effimero di
una visione dall’alto, irripetibile. Il suo era solo un lavoro e per
questo era pagato bene e in anticipo. Si occupava di fare ricognizioni
in luoghi speciali e li segnalava ad un numero che non conosceva,
memorizzato nel radio-telefono che gli avevano consegnato. Imboccato
il tunnel di scalini plastificati dell’uscita, stava attento, e
sfoderava lo sguardo tagliente che gli veniva spontaneo alla fine di
ogni missione. Frank aveva lasciato dietro di sé il palazzo per
rientrare nella sua stanza quadrangolare a nord-est della città, in una
zona frequentata solo da gente bizzarra e ancora underground. Seduto
sulla poltrona di velluto rosso aveva bevuto del vino. Gli piacevano i
sapori organici dopo anni di trashfoods all’americana e acceso il
monitor del suo videoregistratore godeva di vecchi film muti che
raccontavano storie d’amore come non ne aveva mai vissute. Frank
in questo si sentiva, un po’, overfond, innamorato, tra l’altro,
troppo, anche di se stesso, e ciò gli piaceva e ne godeva fuorimisura.
Le sue cellule cerebrali, quelle che contengono la visione, si aprivano
accendendosi di godimento all’arrivo delle endorfine. Gli sembrava che
il guardare quelle vecchie pellicole, ne stimolasse e accrescesse in
dismisura la produzione. La
follia del suo desiderio diventava realtà e il partner ideale si
materializzava in due dimensioni altamente definite sullo schermo video;
e questo e quello collimavano perfettamente, nei visi, nelle azioni,
nella recitazione, nei gesti stilizzati, in storie incredibilmente
adatte al suo immaginario. Si
era addormentato senza averlo deciso coscientemente, il monitor
continuava a dipingere immagini una dietro l’altra tutte stranamente
irregolari di un film di Murnau del 1927, che si chiamava Sunrise
nella sua lingua d’adozione. Il
radiotelefono emise tre rapidi sibili cristallini che lo svegliarono
quando era ormai pomeriggio inoltrato. La voce ondulata lo invitava a
tornare nello stesso posto quella notte, qualche ora dopo l’inizio del
nuovo giorno. Gli diceva di indossare un overlook trascurato ed
eccentrico. Che il suo viso interessava a quella voce enfatica e voleva
possedere la sua immagine dopo un’intensa e fruttuosa collaborazione. Frank
deglutì una soluzione di guaranà e ginseng caldi e provò ristoro, poi
concluse con un’insalata di germogli di soja e menta fresca. Sarebbe
andato dove gli si chiedeva, come sempre. Questa volta però era
diverso: avrebbe incontrato qualcuno non era solo in uno spazio
sconosciuto. La
sera si era creato l’overlook e per ore vuote aveva girato la città,
guardato uno spettacolo del K.G.B. & B. nel cortile di un ex
istituto psichiatrico, diventato centro culturale polivalente, e aveva
bevuto, con poche lire, succhi concentrati di carota, per mantenere vivo
il colore giallo arancio della sua pelle. La
sua demicabriolet démodé con motore dinamico lo avrebbe condotto
all’appuntamento. Questo probabile incontro gli avrebbe procurato una
lieve accelerazione dell’umore. I semafori diventavano tutti rossi e
le strade che percorreva erano tutte intasate. La circonvallazione
esterna est era bloccata da una serie d’incidenti che l’elevata
velocità e la frequenza del traffico causavano. L’aveva scelta
inconsciamente per procurarsi un po’ di ritardo. Sotto il palazzo
decine di persone tutte con overlook come lui, guardavano verso
l’alto. Al trentaseiesimo piano una donna urlava, da un punto
invisibile, e segnalava il percorso da seguire. Salirono le scale
circolari del cilindro dell’ascensore per un tempo lungo. Un viaggio
che il buio e la traiettoria a spirale rendevano eccitante in mezzo a
grida di spavento e di risate, coglievano, a tratti, la cordata di gente
che penetrava nel palazzo. I baratri delle trombe degli ascensori, le
sbarre di tubi innocenti che chiudevano i corridoi che si aprivano dopo
ogni ciclo di scalini, provocavano domande ad alta voce, segmentata e
tesa, e risposte ironiche e divertite, come farebbero praticanti
dell’espansione dell’incoscienza. All’ultimo
piano, in fondo ad un corridoio costellato di stanze tutte uguali, era
stata ricavata una doppia stanza dallo spostamento di un pannello.
Una torcia rossa era stata lasciata sulla moquette, e un impianto
stereo con suoni raffinati, procurava vibrazioni, espanse, agli ospiti
del party. La gente, guardava dai finestroni e si avvolgeva della
visione della città dall’alto. Un party sulla cuspide della civiltà
postindustriale. Frank godeva della visione biologica non più alterata
dall’ambient confort. Una voce alle sue spalle, la stessa del
radiotelefono, ma più via, gli si rivolse guardandolo con un bacio.
Enzo
Terzano Il
seme
Un drago insegue un uccello piumato che si leva in volo da una
pianta fiorita e sul fondo blu si stagliano entrambi in questo atto
che il tappeto immortala, tessuto fra i suoi fili di lana colorati.
I corpi giacciono, su quest'immagine fissata da abili mani,
sollecitati da lievi carezze d'affetto, hanno inseguito il piacere per
un certo tempo e il momento culmine è venuto, ed ora trascolora in
piccole cose, in parole sussurrate, in sorrisi.
Il seme giace sul ventre, cumuli di cristalli liquidi, di gocce
luminose, si distinguono. Per fondo s'intuisce la pelle tessuta di
pori, ornata di rughe, rilassata dalla sensazione intensa.
Nell'aria l'odore di sperma miscela ai profumi notturni dei
fiori, pollini si spargono attorno appena ne hanno l'occasione, sotto
l'influsso dei climi, per virtù dei sensi che s'appropriano di
immagini e di voci.
Eccoci affiancati e distinti ognuno col proprio corpo, ognuno
col proprio seme. Assaggio un cucchiaino di miele e lo condividiamo
per avere l'esperienza dello stesso sapore. Quanto ci avvicina questo
piacere, quanto ci accomuna il dolore della separazione imminente.
Sono con te nell'attimo delle tue tristezze senza confini, sei con me
tentando di porre rimedio, con la dolcezza, alla gelosia.
Il fazzoletto di carta raccoglie fiumi di questo nettare bianco
e lo deposita nelle periferie, nei luoghi desolati, nelle discariche,
nell'acqua delle latrine.
Adbellatiff mi aveva detto tempo fa che il seme non si butta
nel fuoco perché la sua natura non ama il secco ma l'umido. Dal
bruciare il nettare derivano disturbi all'energia, minorazioni della
prosperità.
Così raccogliamo il seme e lo portiamo nell'acqua. Poi ci
esponiamo al fumo del cipresso bruciato in un piatto di rame. Come i
babilonesi ci siamo purificati dalla passione poiché il piacere non
ottenebra la mente. Enzo Terzano Dolore Cos'è
questo dolore che non posso alleviare? Il padre di questo mio corpo
giace, disteso in uno spasimo, sul suo letto di nozze. Questa stanza
non è cambiata da tanti anni e il piacere che provavi è ora
diventato dolore. Il silenzio è spezzato dai tuoi lamenti e dalle
frasi sconnesse che narrano delle visioni che passano davanti ai tuoi
occhi. Il
male che ti corrode non ti consente di allungare le ginocchia così
che sollevano le lenzuola come una tenda. Le dita delle mani le hai
avvinte l'una all'altra e afferrano un invisibile destino. Con le
braccia, rigide e nodose, intrecciate al cuore cerchi di proteggere
questo tuo sentire. «
Sto male! » dici con una voce che chiama tenerezza in chi ti ascolta. I
capelli bianchi folti non sono più tirati all'indietro e appiattiti
giacciono attorno al capo. Il letto è diventato per te rigido come
una pietra che arroventa la tua schiena di dolori ed ha aperto piaghe
nei tuoi piedi, arrossati il ventre e le viscere su questa morbida
lana. Di
fuoco, proprio di fuoco sono le tue parole, le tue urla incessanti fra
dolore e ironia, le tue parole d'offesa verso tutti,
indifferentemente. La piccola Alessia non si avvicina al tuo letto,
rimane distante e ti guarda per capire che succede. Le urla che sente
quando viene a trovarti, noi le abbiamo chiamate 'canto'. «Che fa
nonno Guido?» noi rispondiamo «Nonno Guido canta, canta sempre...». Caro
padre ora osservi lentamente il tuo corpo perdere le funzioni e
l'integrità di cui hai goduto per otto decenni, così ora parli con
rabbia, e l'ira, che avvolge e governa il tuo presente, si è
insediata, punto punto, in ogni muscolo, in ogni giuntura, in ogni
vena del tuo corpo. Sputi
il cibo. Dai pugni sulla testa e sulle braccia di tua moglie, mia
madre, che ti spoglia con pietà per toglierti di dosso gli escrementi
e la colpisci con sguardi di ghiaccio, ma disperati, quando ti chiede:
«Come stai?». Sono
venuto per cantare, dopo il tramonto, al fianco del tuo letto, mentre
fingi di dormire, i canti di liberazione che ho imparato nel Mandala
del Maestro. Ti ho visto dopo alcuni giorni addolcito da quei suoni
antichi. Hai perfino detto a tua moglie che si è fatta vecchia anche
lei e che le vuoi bene. Mi hai chiamato al tuo fianco dicendo: «Vieni
qui! Mi dispiace che parti, ritorna! » Ora
come frutto dell'esserti vicino, il tuo dolore è anche un po' il mio,
padre, perché mi avvolge anche se non sono nel tuo corpo e non sento
flagellare la mia carne dal male che ti insidia. Con tenerezza ho
passato la mano sul tuo capo bianco come l'inverno, odoroso di bosco
senza foglie, che è solo radici e tronchi, raffiche di vento e sole
pallido. Sono
al tuo fianco in modo che mi insegni ancora un pò che cos'è la vita
quando l'energia si corrompe e la mente entra nella dimenticanza e non
sei più quasi persona. Tu e le tue visioni di voci e volti che vedi e
senti nella tua stanza e che ci spaventano e non riesco, per quanto mi
sforzo, a percepire. Hai
aperto finalmente le porte di un altro vedere, ascolti parole di un
altro sentire e ci indichi che c'è un spazio parallelo oltre quello
che ci illudiamo di vivere ogni giorno, fra queste mura disegnate
dagli occhi e questi suoni captati dalle orecchie. Tu
che ora non riesci più a muoverti mi indichi che del corpo conosciamo
solo il suo aspetto esteriore, i limiti del suo piacere e della sua
stanchezza che ci avvolge le membra, e prima o poi, le rende inutili. Il
bene che mi anima si infiamma con il dolore che provo guardandoti e
questo dolore appare come onde fra le pieghe dei miei pensieri. Ecco
padre che siamo come una buona coppia di amici che si amano e si
separano ogni giorno. Ti vedo partire e mi vedo partire e le lacrime
sgorgano senza averle chiamate. Lì
celato fra le fratture del tempo ci aspetta il destino che si
manifesta, goccia a goccia, e appena può uscire allo scoperto inonda
all'improvviso la vita. Enzo Terzano In allestimento
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