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IL FITOCOMPLESSO

 

Nell’affrontare questo argomento mi sono chiesto se veramente nel mondo, come qualcuno va sostenendo, vi è la tendenza dell’uomo a riabilitare il ruolo di gestione della propria salute.

Se noi consideriamo quanto negli ultimi vent’anni è stato detto o scritto sui metodi alternativi di cura del proprio corpo, o sul continuo proliferare di certe tendenze spesso aspramente critiche nei confronti della "medicina ufficiale", non possiamo che convalidare tale ipotesi.

Non vi è dubbio che tra le tante terapie alternative, la "fitoterapia" (cura delle malattie con le piante medicinali) ha assunto un ruolo di primaria importanza quale terapia integrativa nonché, in taluni casi, sostitutiva della terapia medica.

Possiamo comunque affermare che questa tendenza sia stata adottata in ogni parte del mondo?

Se interpretiamo il fenomeno quale ricerca di un nuovo approccio terapeutico alternativo alla chimica, la risposta, quantomeno nell’ambito dei paesi industrializzati, è senza dubbio affermativa.

Laddove tale tendenza rappresenta in primo luogo il desiderio di supplire evidenti carenze sanitarie nella gestione di lievi disturbi, espressa come "automedicazione, senza necessariamente investire il piano filosofico o concettuale della medicina occidentale, possiamo considerarlo un fenomeno tipicamente italiano.

Per tale ragione è necessario sgombrare il campo da certi equivoci che vorrebbero paesi come la Francia o la Germania all’avanguardia in questa materia.

In Francia la fitoterapia è una realtà molto antica, ma completamente gestita dalla classe medica, mentre in Germania le piante medicinali vengono utilizzate prevalentemente sotto il profilo omeopatico.

Non voglio e non mi interessa in questa sede attribuire all’automedicazione un ruolo di primaria importanza, né tantomeno declassare l’omeopatia come terapia di "serie B", ma solo riportare l’argomento sui giusti binari.

La fitoterapia intesa come tradizione erboristica ereditata da Ippocrate, Paracelso o Mattioli, è concepita interamente come medicina "allopatica".

Ho ritenuto necessaria questa premessa al fine di illustrare con maggior chiarezza il mio pensiero relativo alla dinamica del "fitocomplesso" nonchè alla sua interazione con altre sostanze.

IL SINERGISMO D’AZIONE

E’ a tutti noto che l’azione medicamentosa di una pianta sia attribuibile alla presenza in essa di sostanze chimiche, non sempre identificabili, dette "principi attivi".

Tali principi attivi sono così denominati grazie alla loro capacità di influenzare, in modo più o meno incisivo, i processi biochimici del nostro organismo e quindi il decorso di molte malattie.

Per tale ragione, molte molecole vegetali oltre a rappresentare la base di molti farmaci (glicosidi cardiotonici della Digitale, alcaloidi del Papavero da oppio, della Belladonna ecc.), costituiscono tutt’oggi oggetto di studio da parte delle università e delle case farmaceutiche.

Talvolta il composto viene potenziato inserendo nella molecola base un sostituente diverso da quello originario; come nel caso dell’aspirina in cui il principio attivo di partenza, l’acido salicilico, è stato mediante acetilazione trasformato in acido acetilsalicilico.

Resta da chiedersi quanto sia possibile nonchè utile indagare sulla farmacodinamica di un infuso, o di un estratto, utilizzando gli stessi metodi di indagine riservati alle singole molecole.

Ogni farmacologo è consapevole che ciò sarebbe una grande sciocchezza ed ogni erborista fa più affidamento nell’arricchire il proprio bagaglio culturale agli studi basati sull’osservezione empirica di un fitocomplesso, piuttosto che alla dinamica di un singolo principio attivo isolato da esso.

Questo è il nodo centrale della questione, ciò che distingue la tradizione erboristica da quella medica occidentale: l’applicazione della terapia, richiede percorsi conoscitivi separati.

Vediamo adesso di approfondire la questione.

Qualcuno potrebbe obiettare: come si può prescindere dalla conoscenza farmacologica dell’atropina, volendo impiegare in terapia delle solanacee come lo Stramonio o la Belladonna?

Poichè la domanda è più che legittima, è necessario a questo punto fare dei distinguo se vogliamo affrontare l’argomento nella sua complessità.

Le piante classificate tra i veleni come la Belladonna, lo Stramonio, la Scilla, l’Aconito, la Digitale ecc., oltre ad essere estranee alla tradizione erboristica, meritano di essere contemplate in una categoria a sè stante.

La loro forte dominante alcaloidea o glucosidica, rende questi vegetali particolarmente preziosi, ma solo attraverso il controllo medico-specialistico.

Neanche in questi casi la farmacodinamica della molecola dominante si identifica con il fitocomplesso, ma neppure se ne discosta di molto; ragion per cui, la conoscenza farmacologica della singola molecola risulta determinante.

Adesso, poniamo il caso di privare la Belladonna dei suoi alcaloidi: potremmo affermare che tale operazione annulli ogni attività farmacologica della pianta?

Se noi partiamo dal presupposto che gli alcaloidi rappresentano solo una parte del fitocomplesso, il quale peraltro risulta formato da centinaia di molecole, la risposta è ovvia: vi sarà una nuova farmacodinamica acquisita, della quale solo la sperimentazione potrà far luce.

In altre parole, si verrà a creare un nuovo equilibrio di interazione tra molecole senza una forte dominante chimica.

Poichè le piante medicinali prive di dominante chimica sono assai numerose, per esse, lo studio di un singolo principio attivo non può condurre alla conoscenza delle proprietà della pianta, ma solo a quella del principio attivo stesso.

Prendiamo ad esempio l’Altea: quasi sempre questa malvacea viene identificata con la mucillagine che essa contiene solo perchè questo polisaccaride risulta presente in maniera massiccia rispetto alle altre molecole (asparagina, pectina, sali minerali ecc.).

Alle mucillagini, vengono riconosciute proprietà emollienti e protettive del tratto gastro-enterico, nonchè lassative di tipo meccanico per aumento di massa.

Secondo questa logica, l’Altea dovrebbe esplicare l’azione propria della mucillagine che essa contiene: niente di più errato!

L’osservazione empirica ci insegna che l’azione emolliente dell’Altea non rappresenta che una parte delle sue proprietà farmacologiche.

Infatti, mentre per alcuni individui, questa malvacea, può rappresentare il diuretico elettivo, per altri tale effetto non viene apprezzato neppure in minima parte.

Di qui nascono certe considerazioni dei farmacologi, secondo i quali, alcune piante non fanno né bene, né male, in quanto discontinue nei loro effetti essendo prive o troppo povere in principi attivi.

In realtà piante come l’Altea, prive di dominante e non di azione medicamentosa, risultano di una straordinaria versatilità qualora vengano impiegate su un giusto "terreno".

Ed è proprio attraverso il concetto di terreno (che per adesso non tratteremo) che possiamo spiegare la versatilità d’azione di molte piante officinali a torto classificate tra i "placebo".

Se ammettiamo questo, dobbiamo pur riconoscere che la via della sola indagine chimica appare alquanto limitata o quantomeno troppo complessa nell’acquisizione di più approfondite conoscenze farmacologiche.

Con tutto ciò, sarebbe un’errore forse ancor più grave affidarsi esclusivamente a metodi empirici di indagine senza avvalersi di quelle conoscenze chimico-tossicologiche che ci consentono, di incanalare la ricerca verso obiettivi più mirati o di bandire l’uso di piante contenenti una o più molecole tossiche come nel caso degli alcaloidi pirrolizidinici scoperti nelle borraginacee ed in molte composite.

Naturalmente, queste poche righe, non hanno la pretesa di esaurire un argomento così complesso ma possono provocatoriamente servire ad uno scambio di idee.

Adriano Sonnini

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