LA DIASPORA ETRUSCA

CAPITOLO   IV

Auctonia dei Tirreni d'Italia (Etruschi) denominati Pelargi (Cicogne)

         

 1.                                                 Platone

  Platone (428-348 a.C.), che era ateniese, sosteneva che

 

 chiunque si fosse accinto a porre le basi di uno Stato avrebbe dovuto attenersi ai responsi degli oracoli di Delfo, di Dodona e di Ammone i quali prescrivevano quei sacrifici e quei riti che si diceva fossero stati importati dall'Etruria (vedi cap. X, 2; XI, 2 e 3; XII, 2).

 

 

 2.                           Mirsilo di Lesbo e la diaspora etrusca         

 

  Dionigi di Alicarnasso riferiva che,

 

 <<rispetto ad Ellanico (il quale sosteneva che i Tirreni d'Italia erano originariamente Pelasgi venuti dalla Grecia), Mirsilo di Lesbo esponeva l'inverso, ed affermava che furono i Tirreni che, lasciata l'Etruria, assunsero nel corso del loro continuo vagare, il nome di Pelargi a somiglianza degli uccelli chiamati Pelargi (= cicogne) perché come questi migravano a stormo per la Grecia e nelle regioni dei barbari>>. 

 

 Dionigi riportava poi che Mirsilo di Lesbo (III sec.a.C.), aveva raccontato che,

 

 molto tempo prima della guerra di Troia, gli Etruschi furono fatti segno di certe collere divine: alcuni furono rovinati da sventure inviate direttamente dagli Dei, altri furono distrutti dai barbari confinanti, i più si dispersero in terra greca e barbara, ed alcuni rimasero in Italia.

 <<La prima manifestazione della calamità>>, diceva Mirsilo, <<sembrò alle città consistere nella siccità che aveva colpito la terra, a causa della quale i frutti non duravano sugli alberi fino al periodo della maturazione, ma cadevano anzitempo, e nemmeno i semi che davano germogli si sviluppavano il tempo indispensabile perché le spighe giungessero al massimo rigoglio; l'erba dei maggesi non era sufficiente per il bestiame, l'acqua delle sorgenti non era più bastevole per abbeverarsi; alcune riducevano la portata per le calure estive, altre si prosciugavano totalmente. Sorte corrispondente colpiva la riproduzione del bestiame e i parti delle donne; numerosi casi di aborto, di decessi postnatali e prenatali che risultavano fatali alla madre stessa. Quanti sfuggivano i pericoli del parto risultavano poi deformi o affetti da qualunque altra malformazione che ne rendeva inutile l'allevamento. La parte restante della popolazione in età adulta era soggetta ad una quantità di malattie e decessi decisamente sopra il normale. Consultarono allora l'oracolo per sapere a quale divinità o spirito avevano recato  affronto, e quale rimedio si prospettava loro per sperare di vedere la fine dei mali. Il responso sortito dall'oracolo fu che quanto stava accadendo era colpa loro perché non avevano mantenuto quel che avevano promesso nelle preghiere, ed erano ancora debitori di gran parte dei beni>>. Infatti, gli Etruschi, siccome si era verificata una precedente casuale scarsità agricola complessiva, <<avevano promesso a Zeus, ad Apollo e ai Cabiri (Questi ultimi erano gli stessi Dei della Religione Misterica di Samotracia) di offrire la decima parte della produzione futura. Quando la loro preghiera era stata esaudita, essi avevano messo da parte la decima dei frutti e del bestiame e l'avevano offerta agli Dei, come se il loro voto avesse riguardato solo queste cose [...]. Quando dunque vennero a conoscenza del responso dell'oracolo, essi non furono capaci di afferrarne il senso. Ma uno dei più anziani ne colse il significato e, mentre tutti si dibattevano in quella perplessità, disse loro che erano completamente in errore se pensavano che gli dèi li rimproverassero ingiustamente. Dei beni, infatti, essi davano agli dèi tutte le primizie nella misura dovuta e come era giusto, ma quanto alla procreazione degli uomini, il bene più prezioso di tutti per gli dèi, erano ancora debitori della porzione dovuta. Solo se gli dèi avessero ricevuto anche la giusta parte delle nascite si sarebbe adempiuto quanto l'autentico significato dell'oracolo comportava. Ad alcuni parve che egli avesse detto tutto ciò a ragione, ad altri invece che la proposta poggiasse sull'inganno. Qualcuno avanzò allora la proposta di interrogare nuovamente la divinità per sapere se veramente desiderasse ricevere anche decime umane. Inviarono all'oracolo nuovamente gli incaricati della consultazione, ed esso confermò che lo dovevano fare. In seguito a ciò nacque fra la gente grande discordia sul modo di attuare la decimazione; la qual cosa coinvolse dapprima l'uno contro l'altro i magistrati delle città. Poi il resto della popolazione prese a sospettare i magistrati. Si verificarono delle emigrazioni senza alcun piano preordinato, ma come se la gente fosse incalzata dal pungolo del dio e dal suo sacro furore. Molte famiglie scomparvero completamente in seguito alla partenza di una parte dei loro membri. Infatti, non sembrava giusto ai congiunti dei fuoriusciti di essere abbandonati dalle persone più care e di rimanere in mezzo ai peggiori nemici. Costoro dunque furono i primi ad emigrare dall'Italia e ad andare in Grecia e in molte regioni dei barbari. Dopo di loro la stessa sorte toccò ad altri; e così si verificava ogni anno. I reggitori delle città non tralasciavano di scegliere le primizie della gioventù giunta all'età adulta, ritenendo di servire giustamente gli dèi e temendo ribellioni da parte di chi era sfuggito a tale sorte. Molti di essi venivano espulsi dagli avversari per inimicizia e con pretesti formali>>. Così dunque si verificarono numerose migrazioni, e la stirpe degli Etruschi si disperse in più regioni. Mirsilo afferma che costoro, <<lasciata la loro patria, assunsero nel corso dei loro spostamenti senza meta fissa il nome di Pelargi a somiglianza degli uccelli chiamati Pelargi (cicogne) perché come questi migrano a stormo per la Grecia e le regioni barbariche. Essi  innalzarono anche il muro di cinta che circonda l'acropoli di Atene, il cosiddetto Muro Pelargico>>[1].

 

 E' significativo che le cicogne, in autunno, dall'Etruria e dalle regioni dell'Europa centro-meridionale, emigravano effettivamente  in Asia attraverso la Grecia[2].

 E’ anche interessante che sull'Asklepion di Atene, fiancheggiante il Muro Pelargico, era raffigurata una cicogna, come è stato scoperto dall'esame di un rilievo trovato sul luogo[3].

 

 

  3.                                         L'epoca della dispersione

 

 L'epoca , poi, in cui sarebbero cominciate le migrazioni, sarebbe stata, secondo Dionigi di Alicarnasso, <<all'incirca quella della seconda generazione anteriore alla guerra di Troia, e si protrasse anche dopo di essa>>[4]. Siamo, dunque agli inizi del XIII sec.a.C..

 Nella stessa epoca, la tradizione Lidia, citata da Erodoto, poneva, viceversa, la migrazione dei Lidi, i quali, guidati da Tirreno, figlio di Ati, avrebbero raggiunto e colonizzato in Italia il paese degli Umbri, dove avrebbero assunto il nome di Tirreni[5].

 Senza voler trarre deduzioni rischiose, ci limitiamo ad osservare che i geroglifici egizi del tempo del faraone Meremptah ci informano  che i T.r.s. (= gr. Tyrsenoi?) rientravano in quei <<Popoli del mare>> che, nel 1260 a.C., tentarono di invadere l'Egitto.

 

 

  4.                                          Aristofane e Callimaco

 

 Procedendo nell'esposizione delle testimonianze della migrazione dall'Etruria, particolare menzione meritano le note apposte da un certo Simmaco (II sec.a.C.?) ai versi 832, 836, 869 e 1139 della commedia Gli uccelli di Aristofane (450-385 a.C.).

 In nota al verso 832 dove il commediografo nomina <<il muro pelargico>> in riferimento alla cinta muraria di una ipotetica città degli uccelli, costruita, in mezzo fra il cielo e la terra, dagli Ateniesi che fuggivano la vita convulsa della città, Simmaco dice

 

 che il poeta  Callimaco (320-240 a.C.) ricordava  che la muraglia pelargica di Atene era stata costruita dai Tirreni.

 

 Nelle note posteriori, lo scoliasta fa ancora riferimento al motivo delle cicogne, finché, nello scolio al verso 1139, dove Aristofane diceva che diecimila cicogne avrebbero portato i mattoni per costruire le mura della città, egli spiega che l'immagine

 

 <<era dovuta al fatto che coloro che erano venuti dall'Etruria (apò Tyrrenìas), costruirono il muro Pelargico>>[6].

 

 Il frammento di Callimaco acquista particolare valore se si considera che il medesimo poeta aveva pure evidenziato che il dio greco Ermes possedeva caratteristiche tirreniche, e che, presso i Tirreni, si chiamava Cadmilos (che era poi il nome mistico che assumeva, in Grecia, nella Religione dei Misteri)[7].

 Non so se Callimaco alludesse ad una possibile derivazione etrusca del nome e del carattere del dio cabirico adorato in Grecia.

 

 

  5.                                               I Pelasgi-Siculi

 

 L'originaria e genuina italicità dei Pelasgi di Atene è rivendicata anche da una tradizione raccolta personalmente da Pausania (I sec.d.C.) nella stessa Atene dove si diceva che la cerchia muraria dell'acropoli della città era stata opera dei Pelasgi che abitavano sulla medesima acropoli, e che i costruttori erano stati Agrola ed Iperbio i quali erano Pelasgi di origine sicula emigrati in Acarnania[8].

 La notizia trova un parziale riscontro in Plinio, secondo il quale prima che Eurialo ed Iperbio, due fratelli di Atene, facessero mattoni e costruissero case, si abitava nelle caverne[9].

 Altrove, lo stesso Plinio ci presenta Iperbio una volta come figlio di Marte, inventore della caccia, ed un'altra come un Corinto (Corinthius) inventore del tornio del vasaio[10].

 Questo Iperbio Corinto era già stato menzionato anche da Teofrasto.

 Iperbio, ne I sette a Tebe di Eschilo, è un personaggio mitico, fratello di Attore e figlio di Enopione.

 Enopione vuol dire "colui che ha il colore del vino" o "che beve il vino"[11]. Ma quel che più ci interessa è che Lattanzio Placido una volta lo chiama Pelasgus, e un'altra <<Enopione detto Pelargus>>[12]. Soprattutto quest'ultima specificazione lo qualificherebbe di origine etrusca.  Noi sappiamo, infatti, che mentre “Pelasgi“ poteva essere una denominazione più generale, “Pelargi” era la specifica  denominazione dei Tirreni emigrati dall'Etruria verso oriente (vedi cap. XVI, 3).

 Quanto ai Siculi, Filisto di Siracusa (430-356 a. C.), li presentava come un popolo di stirpe ligure, autoctono dell'Italia centrale, emigrato poi in Sicilia[13].

 I Siculi vennero spesso assimilati o confusi con i Sicani (anche questi sovente ritenuti autoctoni dell'Italia centrale) al punto che Giovanni Lido (V sec.d.C.) poteva sostenere che

 

 gli Etruschi erano un popolo di Sicani colonizzati dai Lidi di Tirreno[14].

 

 Le città etrusche ritenute di origine sicula, espressamente menzionate da Dionigi di Alicarnasso, sono tutte nell'Etruria costiera ed in quella meridionale: Fescennio, Faleri, Cere, Alsio, Saturnia e Pisa[15].

 Sia che si voglia ritenere che i Siculi dell'Acarnania provenissero direttamente dalla costa tirrena dell'Italia centrale, della quale erano originari, sia che si voglia intendere che la migrazione avesse avuto la Sicilia (gli Elimi? vedi par. 5) come sede intermedia, la loro origine italica è indiscutibile.

 Giustamente, Jean Bérard ha messo in relazione i Siculi di Pausania con gli Etruschi di Mirsilo di Lesbo, e con quei "Pelasgi" che, come vedremo, erano partiti da Regisvilla o da Maltano (due porti fra Tarquinia e Vulci), sotto il comando del re Maleo per andare a stanziarsi in Atene (vedi cap. XV, 8)[16].

 Egli avanza anche l'ipotesi che a queste indicazioni potrebbe collegarsi il fatto che una collina nei pressi di Atene si chiamava Sikelia[17].

Una località chiamata Sikelia esisteva anche nel Peloponneso. Piccola Sikelia era pure il nome che veniva dato a Nasso[18]. Un isolotto di tal nome era poi nel Canale di Eubea[19].

 Ai nostri fini interessa rilevare che i Siculi erano un popolo italico autoctono, a volte ritenuto di stirpe ligure, stanziato  nell'Etruria costiera e soprattutto in quella meridionale e nel Lazio vetus, dove la stessa Roma veniva considerata sicula.

                                                            ***

 Secondo Teofrasto e Plinio, come abbiamo visto, Iperbio era un Corinto (Corynthius) inventore del tornio del vasaio. Considerato il gioco delle omofonie che correvano fra il nome della etrusca città di Corythus/Corinthus (Tarquinia) e di quello della città greca di Corinthos/ Choritus (vedi cap. VI, 5), il fatto che Iperbio venisse  a volte considerato un Corynthius potrebbe essere significativo del rapporto che correva fra il nome  di Iperbio e l'origine etrusco-sicula dei Pelasgi di Atene.

 Il nome di Agrola, poi, fratello di Iperbio, rimanda a quello del re Agrios, personaggio con il quale Esiodo personificava il popolo etrusco[20]. A sua volta, il nome di Agrios, come ha proposto Helbig, potrebbe stare per Tarchios (= Tarquinio, Tarconte)[21] (vedi cap. IX, 3).

 

 

 6.                                                  Gli Elimi

 

 Stefano di Bisanzio diceva che

 

 << Elimia, città della Macedonia, fu fondata dall'eroe Elymo o da Eleno o da Elima re dei Tirreni>>[22]. Aggiungeva, inoltre, che <<Aiane, città della Macedonia, fu fondata da Aiano, figlio di Elymo, re dei Tirreni emigrato in Macedonia>>[23].

 

 Eleno era figlio di Priamo re di Troia.

 Elymo, eponimo degli Elimi di Sicilia, veniva a volte considerato fratello del re sicano Erice, e altre volte fratello di Enea.

 L'altro Elymo o Elima (omonimo di Elymo, fratello di Enea) e suo figlio Aiane non sono altrove documentati; ma, a quanto dice Stefano, erano sovrani tirreni (etruschi?) emigrati in Macedonia.

 E' significativo che il fondatore di Elimia in Macedonia sia il troiano Eleno o, in alternativa il troiano Elymo o, ancora, un omonimo re tirreno (etrusco?). Elima era anche il nome di una città degli Elimi in Sicilia, ritenuta fondata variamente  sia da Enea[24] che da Elimo[25].

 Nonno di Panapoli, poi, narrando la spedizione del dio Dioniso in India, ricorda i Cilliri della Sicilia, gli Elimi, definiti troiani, Fauno figlio di Circe, e li pone tutti agli ordini di un certo Acate qualificato una volta come siculo e un'altra come tirreno (etrusco?)[26].

 Le varie associazioni di nomi e di fatti potrebbero essere significative delle connessioni esistenti fra i Tirreni, gli Elimi e i Troiani. Gli Elimi, infatti, erano ritenuti alternativamente troiani e sicani o siculi di stirpe ligure venuti dall'Italia centrale dove avevano coabitato con gli Etruschi. Questi ultimi, secondo Giovanni Lido, che sosteneva di aver letto, nella originaria stesura etrusca, i Libri tagetici scritti da Tarconte, erano un popolo sicano colonizzato dai Lidi di Tirreno.

 Contatti fra gli Etruschi e gli Elimi non dovettero mancare. Nel museo di Trapani esiste una piccola statua di bronzo del VII sec.A.C., trovata ad Erice, raffigurante un guerriero etrusco[27]. 

 Il tutto potrebbe non essere estraneo alla tradizione secondo cui i Pelasgi di Atene erano siculi emigrati in Acarnania (vedi par. 5). 

                            

 

 7.                                                    Metapo

 

 Methapos, secondo Pausania, aveva introdotto in Andania i Misteri eleusini, ed a Tebe, nella Beozia, la pratica dei Misteri e il culto dei Cabiri[28] (vedi cap. VII, 1; 4).

 In altre versioni, la religione misterica era stata introdotta a Tebe da Armonia, figlia di Ares e di Afrodite, che li aveva ricevuti in dono dalla madre in occasione delle nozze con Cadmo.

 Secondo altri, le nozze di Cadmo e Armonia erano avvenute nell'isola di Samotracia. Armonia sarebbe stata sorella di Dardano, ed avrebbe ricevuto i Misteri in dono dalla madre Elettra. Armonia, poi, li avrebbe introdotti a Tebe, e Dardano li avrebbe istituiti a Samotracia ed introdotti nella Troade[29] (vedi cap. VII, 1).

 La funzione di introdurre a Tebe, nella Beozia, la religione dei Misteri era, dunque, affidata una volta a Metapo ed un'altra ad Armonia nella duplice figura di figlia di Afrodite e di sorella di Dardano.

 

 

  8.                                                    Metabo

 

 Nell'Eneide è presente un Metabus, esule re etrusco dei Volsci di Priverno (nel Lazio vetus) di cui la moglie e la figlia si chiamavano  rispettivamente Casmilla e Camilla come i ministri dei Grandi Dei[30]. Non si tratta di un'invenzione virgiliana, perché anche Igino, nella sua raccolta di miti, parlava di Metabo e della figlia Camilla[31].

 Elio Donato notò che il personaggio virgiliano aveva lo stesso nome del re Metabo o Metaponto eponimo della città di Metabo o Metaponto nell'Italia meridionale[32]. Il personaggio virgiliano, tuttavia, apparteneva al tempo di Enea, mentre l'altro risaliva indietro di molte generazioni.

 Antioco di Siracusa (V sec.a.C.) raccontava che, durante il regno di Morgete, figlio di Italo re degli Enotri, venne presso di lui un esule da Roma che si chiamava Siculo e gli successe al trono[33]. Strabone, poi, diceva, che Morgete aveva una figlia di nome Siri che sposò Metabo eponimo di Metaponto[34]. 

 Metabo, in seguito, ripudiò Siri, sposò Arne e ne adottò il figlio Beoto. Questi gli successe al trono; ma, poiché uccise Siri, dovette fuggire in una regione della Grecia che dal suo nome si chiamò Beozia[35].

                       

 

  9.                    La Biblioteca di Fozio e l'Etymologicum Magnum         

 

 Che i costruttori del muro di Atene fossero Etruschi nella loro origine è riportato anche dai tardi compendi enciclopedici bizantini come la Biblioteca di Fozio e l'Etymologicum Magnum, secondo i quali l'appellativo di “Pelargi” sarebbe stato dato ai Tirreni (Etruschi) costruttori del muro di Atene a motivo del loro modo di vestire in bianco e nero come le ali delle cicogne[36].

 

 

  10.                                                Dardano

 

  La stessa origine etrusca attribuita ai Pelasgi o Tirreni di Atene era  conseguentemente riconosciuta  a quei Pelasgi o Tirreni che da Atene erano  emigrati  nelle isole egee e sulle coste attorno allo stretto dei Dardanelli dove era Troia.

 I Pelasgi di Atene, a detta di Erodoto, avevano introdotto nell'isola di Samotracia il culto dei Grandi Dei (vedi cap. IX, 1).  

 Come si vede, la funzione di istituire a Samotracia il culto dei Grandi Dei era affidata una volta a Dardano ed un'altra a quei Pelasgi di Atene, i quali, in altre fonti, sono chiamati Tirreni. I Grandi Dei o Cabiri erano poi le stesse divinità che Dardano da Samotracia introdurrà nella Frigia dove i suoi discendenti fonderanno Troia. Sono quegli stessi dèi Penati che Enea da Troia riporterà in Italia.

 Callimaco non solo aveva testimoniato l'esistenza in Etruria del culto di Cadmilos, ma aveva pure evidenziato le componenti etrusco-tirreniche di Cadmilos-Ermes greco, uno dei Cabiri o Grandi Dei della Religione Misterica di Samotracia. Questi Dei erano gli stessi il cui culto Mirsilo attribuiva a quegli Etruschi che avevano emigrato ad Atene e fino alle regioni greche e barbare del bacino orientale del Mediterraneo.

 E' significativo che i Greci, secondo quanto testimoniava Proclo il Diadoco identificavano Ermes ctonio con Tagete, il fanciullo divino emerso dalla terra di Tarquinia, figlio di Genio o Genio Gioviale o Gioviale, uno degli Penati o Grandi Dei etruschi (vedi cap. X, 2).

 L'esistenza in Etruria del culto di Cadmilos era testimoniata anche da Dionigi di Alicarnasso  quando riferiva:

 

 <<Coloro che presso gli Etruschi celebravano i Misteri in onore dei Cureti e dei Grandi Dei erano chiamati Cadmiloi, e che allo stesso modo presso i Romani quelli che aiutano in questi riti sono chiamati Camilli>>[37].

 

 

  11.                                         Atene e i Troiani

 

 Dionigi di Alicarnasso riferiva una tradizione secondo la quale

 

 Dardano e Teucro, i due capostipiti dei troiani, erano nati in Grecia, rispettivamente in Arcadia e nell'Attica[38].

 

 Strabone diceva, poi, che

 

alcuni scrittori, a sostegno dell'origine attica di Teucro, argomentavano che il nome di Erittonio figurava fra quello degli originari fondatori sia della dinastia ateniese che di quella troiana[39].

 

 Secondo quanto è riferito in due scolii di Probo alle Georgiche di Virgilio, pare che Eschilo (VI-V sec.a.C.) abbia sostenuto che

 

Erittonio (e non Dardano) era il figlio di Giove e di Elettra. Da lui, di generazione in generazione, sarebbero discesi Troo, Assaraco, Capi, Anchise ed Enea[40].

 

 Elio Donato e Servio riferivano, a loro volta, che 

 

 <<i Troiani, oltre che a Dardano e a Teucro riconducevano la loro origine agli Ateniesi, per cui anch'essi veneravano Minerva>>[41].

 

 Elio Donato aggiungeva che

 

<<infatti, per questo anche i Troiani venerano Vesta, poiché ella stessa è la terra>>[42].

 

 I due esegeti virgiliani non vedevano contrasti fra questa origine ateniese dei Troiani e l'origine etrusca di Dardano cantata da Virgilio, tanto è vero che attribuivano allo stesso Virgilio l'intenzione di alludere, in due passi del poema, all'origine ateniese dei Troiani[43].

 Donato e Servio giustificavano la versione con il fatto che ad Atene, come a Troia, si praticava il culto di Minerva e, soprattutto, quello della Grande Madre Terra identificata, per i Romani, con Vesta, a sua volta associata agli dèi Penati[44].

 Noi sappiamo che si diceva che il culto dei Grandi Dei era stato introdotto ad Atene dai Pelasgi (Erodoto), e che i Pelasgi d'Atene erano Tirreni partiti dall'Etruria (Tucidide, Mirsilo), e precisamente dal porto di Regisvilla (o Maltano?), fra Tarquinia e Vulci (Strabone) (vedi cap. XV, 8).

 Non so, allora, se possa avere qualche significato il fatto che anche gli Etruschi, come gli Ateniesi, rivendicavano la loro parentela con i Troiani, ma non conoscevano la figura di Dardano (vedi capp. I, 2; VIII, 21). A titolo di pura ipotesi, possiamo pensare che gli Etruschi possedessero una tradizione che faceva risalire i loro primi contatti  con l'Asia Minore a coloro che dall'Etruria erano dapprima emigrati ad Atene. 

                  

 

 12.                                                 Pitagora

 

 Si diceva che il  filosofo greco Pitagora (571-497 a.C.) fosse un  tirreno, e che fosse iniziato ai misteri di Samotracia.

 Egli, secondo Aristosseno, Aristarco e Teopompo, era tirreno[45]. Lo stesso Aristarco specificava che

 

 <<proveniva da una di quelle isole che erano state occupate dagli Ateniesi quando avevano cacciato via i Tirreni>>[46].

                          

 Neante di Cizico (III sec.a. C.) diceva che

 

 <<c'è chi dimostra che suo padre Mnesarco fu un tirreno di quelli che colonizzarono Lemno. Da lì venuto a Samo per affari, vi rimase e vi divenne cittadino. Quando poi Mnesarco navigò per l'Italia, il giovane Pitagora lo accompagnò in quella terra che era molto fortunata, e poi di nuovo navigò in essa>>. Neante  elencava infine i due fratelli più grandi: Eunosto e Tirreno[47].

 

 E' interessante rilevare che l'isola di Lemno fu chiamata anche Etalia come l'omonima isola etrusca (oggi isola d'Elba), e che i Pitagorici ritenevano che nel loro maestro si fosse reincarnata l'anima di Etalide. Questi, secondo Apollonio Rodio, era figlio di Ermes, ed era stato un argonauta di quelli che erano andati ad abitare a Lemno prima che vi giungessero i Tirreni scacciati da Atene[48]. 

 Etalide ed Etalio era anche il nome di uno dei marinai etruschi che avevano rapito Dioniso[49]. 

 Secondo Cicerone ed Aulo Gellio, Pitagora venne in Italia durante il regno di Tarquinio il Superbo[50]. Per Tito Livio, egli era un contemporaneo di Servio Tullio[51].

 Giamblico sosteneva che egli ebbe molti etruschi fra i suoi primi discepoli[52]. Con evidente anacronismo, si credette pure che Numa Pompilio, re di Roma, avesse frequentato la scuola di Pitagora nella città calabra di Crotone[53].

 Plutarco riferiva che un etrusco di nome Lucio, discepolo di Moderato Pitagoreo (I sec.d.C.), sosteneva che

 

 <<Pitagora fu un etrusco; non per parte di padre, come taluni intendono, ma per essere egli nato, cresciuto ed educato in Etruria. Il discorso si basava principalmente sui simboli, come lo scuotere le coltri alzandosi dal letto, il non lasciare sulla cenere l'impronta della pentola tolta dal fuoco bensì sconvolgerla, non accogliere le rondini in casa, non passare sopra la scopa e non nutrire in casa bestie con artigli ricurvi. Lucio diceva infatti che queste cose i pitagorici le dicono e le scrivono, ma che solo gli Etruschi di fatto le osservano e le custodiscono >>[54].

 

 Aristotele e Giamblico menzionavano un episodio che sarebbe avvenuto in Etruria: il filosofo, con un morso, avrebbe ucciso un serpente velenoso[55].

                    

 

 13.                                                   Omero                           

    

 l'isola di Itaca era uno dei luoghi dove si diceva che fosse nato Omero. Ma è interessante che il poeta, secondo un raro frammento che ci è rimasto di Eraclide di Lembo (II sec.a.C.),

 

 <<[.?.] dalla Tirrenia si era recato a Cefallonia ed Itaca dove, ammalatosi, aveva perso la vista>>[56].

 

 Poiché si credeva che Omero fosse nato ad Itaca, il frammento ci consente di ipotizzare che, nella parte del testo non pervenutaci, Eraclide avesse sostenuto che Omero fosse nato in Etruria.

  La tradizione si giustifica nell'ambito dei rapporti che almeno dal sesto secolo avanti Cristo venivano attribuiti all'Etruria con il mondo cantato da Omero, e soprattutto perché doveva già aver preso corpo la tradizione della ascendenza degli Etruschi sui Troiani, che verrà poi recepita, adattata e cantata  da Virgilio nell'Eneide.

 Non dovrebbe quindi meravigliare il fatto che la leggenda virgiliana racconterà che i fratelli Dardano e Iasio  dalla etrusca città di Corito erano emigrati a Samotracia, da dove, poi, Dardano avrebbe introdotto nella Troade il culto dei Grandi Dei o Cabiri o Penati, quelle stesse divinità che i Pelasgi di Samotracia e di Atene adoravano già dal tempo in cui vivevano in Etruria.

 

 

  14.                                            Tirreno e Liparo

 

 Dobbiamo, infine, ricordare che esisteva una leggenda secondo la quale Tirreno, fratello di Liparo (perciò nipote di Ulisse), dall'Italia portò la guerra nel Peloponneso[57].

 

 

                         .

 



[1] Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, I, 23-24; 28.

[2] E. Whitney Martin, The birds of the latin poets, citato da M.Grass in Traffics Tyrrhéniens Archaiques, Roma, 1985.

[3] L. Beschi citato da M. Grass in op. u. cit..

[4] Dionigi di Alicarnasso, op. cit., I, 26, 1.

[5] Erodoto, Le Storie, I, 57.

[6] Scholia graeca in Aristophanem, Parigi, 1842.

[7] Callimaco, Dieg., VIII, 33-40; Varrone, De lingua latina, VII, 34; Servio Danielino, All' Eneide, XI, 543: <<Statius Tullianus de vocabulis rerum libro primo ait dixisse Callimachum apud Tuscos Camillum appellari Mercurium, quo vocabulo significant deorum praeministrum, unde Vergilius bene ait Metabum Camillam appellasse filiam, scilicet Dianae ministram: nam et Pacuvius in Medea loqueretur "caelitum Camilla exspectata advenis, salve hospita". Romani quoque pueros et puellas nobiles et investes camillos et camillas appellabant, flaminicarum et flaminum praeministros>>; Macrobio, Saturnali, III, 8, 6.

[8] Pausania, La Grecia: Attica e Megarite, XXXVIII, 3.

[9] Plinio, Storia naturale, VII, 57,4.

[10] Plinio, op. cit., VII, 57,7.

[11] In altre leggende, Enopione era figlio di Dioniso, ed era re dell'isola di Chio, dove aveva introdotto l'uso del vino insegnatogli dal padre. Egli era giunto a Chio da Creta, o da Lemno, oppure da Nasso. Altri lo identificavano con Irieo, eroe della Beozia, dove era Tebe.

[12] Pelargus (Mitografo Vaticano, II, 129); Pelasgus (Scolio a Stat. Tb. 7, 256).

[13] In Dionigi di Alicarnasso, op. cit., I, 9; 22.

[14] Giovanni Lido, De magistratibus populi romani (prefazione), testo italiano in G. Buonamici, Fonti di storia etrusca tratte dagli antichi classici, Firenze-Roma, Olsckhi, 1939, pag. 144.

[15] Dionigi di Alicarnasso, op. cit., I, 20-21.

[16] J. Bèrard, La Magna Grecia, Torino, Einaudi, 1965, pagg. 450-451.

[17] Pausania, La Grecia, VIII, 11, 12; Dione Crisostomo, XVII, 17; Suida, s.v. Sikelìzein.

[18] Diodoro Siculo, Biblioteca storica, V, 50; Plinio, op. cit., IV, 67.

[19] Stefano di Bisanzio, De urbibus, s.v. Sikelìa; Scolio ad Euripide, Fenicie, 208.

[20] Esiodo, Teogonia, 1013.

[21] W. Helbig, in Bull. dell'Inst., 1884; Ferstscrift f.Montelius,193.

[22] Stefano di Bisanzio, De urbibus, s.v. Elimia

[23] Stefano di Bisanzio, op. cit.,s.v. Aiane.

[24] Dionigi di Alicarnasso, op. cit., I, 53.

[25] Silio Italico, Puniche, XIV, 46, sgg.. Elimia era anche il nome di una città arcade, posta fra Orcomeno e Mantinea (Senofonte, Hell., VI, 5, 13). Pausania stabiliva un legame anche fra gli Elimi e la città arcade di Psofide. Egli raccontava, infatti, che la città doveva il suo nome ad una figlia del re sicano Erice, la quale, resa incinta da Ercole fu da questi affidata a Licorta che viveva a Fegea nell'Arcadia. Qui, ella diede alla luce due figli, Echefrone e Promaco, i quali fondarono la città che, in onore della loro madre, chiamarono Psofide. A sostegno di questa versione, Pausania osserva che a Psofide esisteva il culto di Afrodite Ericina (Pausania, La Grecia, VIII, 24, 2, 6 e 7; Stefano di Bisanzio, s.v. Fegeia e Psofis). 

[26] Nonno di Panapoli, Dionisiache, XIII, 309-311; 328; XXXVII, 350.

[27] G. Kart Galinsky, Aeneas, Sicily and Rome, Princeton, 1969, pag. 114-115 e fig. 88.

[28] Pausania, op. cit., IV, 1, 7-9; 26, 7; 33, 4-6.

[29] Diodoro Siculo, op. cit., V, 49.

[30] Virgilio, Eneide, XI, 540-564.

[31] Igino, Miti, 252.

[32] Srvio Danielino, All'Eneide, XI, 540.

[33] Dionigi di Alicarnasso, op. cit., I, 12; 73, 4.

[34] Strabone, Geografia, VI, 264.

[35] Diodoro Siculo, op. cit., IV, 67; Scolio a Dionigi Periegeta   461.

[36] Fozio, Biblioteca; Etymologicum magnum, s.v. Pelargicon.

[37] Dionigi di Alicarnasso, op. cit., I, 22, 2.

[38] Dionigi di Alicarnasso, op. cit, I, 61; II, 68.

[39] Strabone, op. cit., XIII, 1, 48.

[40] Probo, Alle Georgiche, III, 36: <<Assaraci autem vult accipi Caesarem, qui deducat progeniem ab Anea, qui ex Anchise patr est.  Capys Assaraci, filius, Assaracus autem Trois, Tros ipse Erichthonii filius, Erichthonius ex Electra et Iove nascitur, ut Aeschylos, tragicus scriptor, sentit>>; III, 113: <<Erychtonius Elecatrae et Iovis filius fuit>>.

[41] Servio Danielino, op. cit., III, 281: << "Patrias palestras". Palestrae usus primum apud Athenienses repertus est. Troiani autem praeter Dardanum et Teucrum etiam ab Atheniensibus originem ducunt: unde et Minervam colunt. Hinc est in secundo (II, 188) "neu populum antiqua sub religione tueri". "Antiqua" , scilicet ab Atheniensibus tradita. "Iliacis" ergo Atheniensibus, unde Ilienses didicerunt>>.

[42] Servio Danielino, op. cit., II, 188: <<"Neu populum antiqua sub religione tueri", id est loco Palladi secundum antiquam religionem tutelam colendi populo praestare, constat enim apud Troianos principe loco Minervam cultam>>; III, 281: <<Nam et Vestam ideo Troiani colunt, quia eadem terra est, terrigenos autem Athenienses nemo dubidat>>. 

[43] Virgilio, op. cit., II 188: <<Neu populum antiqua sub religione tueri>>; III, 281: <<Patrias palestras>>.

[44] Servio Danielino, op. cit., I, 292: <<"Vesta" [...] ipsa enim esse dicitur terra>>; II, 296: <<Vestam deam ignis quae, ut supra diximus (I, 192), terra est>>; II, 296: <<Hic ergo queritur, utrum Vesta de numero penatium sit, an comes eorum accipiatur, quod cum consules et praetores sive dictator abeunt magistratu. Lavini sacra Penatibus simul et Vestae faciunt: unde Vergilius, cum praemisisset, "sacra suosque tibi [...]" adiecit "et manibus vittas Vestamque potentem". Sed "potentem" potest ad illud accipi (Theous dynatous), sicut vocari penates dictum est>>.

[45] Clemente Alessandrino, Strom., I, 62.

[46] In Diogene Laerzio, VIII, 1.

[47] Neante di Cizico, in Porfirio, Vita di Pitagora, 2.

[48] Apollonio Rodio, Argonautiche, I, 640 segg.; III, 1175.

[49] Ovidio, Metamorfosi, III, 647; Igino, Leggende, 134.

[50] Cicerone, Tuscolane, I, 38; La Repubblica, II, 28; Aulo Gellio, 17, 21,6. 

[51] Tito Livio, Storia di Roma, I, 18, 2.

[52] Giamblico, La vita di Pitagora, 142.

[53]Dionigi di Alicarnasso, op. cit. , II, 59; Tito Livio, Op. cit., I, 18. 2-4.

[54] Plutarco, Questioni conviviali, VIII, 727 B.

[55] Aristotele, frag. 19, Rose.

[56] Eraclide di Lembo, F.H.G. , oag. 222.

[57] Servio Danielino, op. cit. , I, 52: <<Aeolus, Hippotoe sive Iovis filius qui cum immitteret bellum quo Tyrrhenus, Lipari frater, Peloponnesum vastare proposuisset, missus ab Agamennone ut freta tueretur, pervenit ad Liparum qui supra dictas insulas regebat imperio, factaque amicitia Cyanam filiam eius in matrimonium sumpsit et Strongulam insulam in qua maneret accepit>>.