Torna all'indice

VIRGILIO E CORITO-TARQUINIA

Capitolo IV

L O   S C U D O   D I    E N E A

 Ampliato e ristrutturato dal n. 58 di Atti e Memorie della Accademia Nazionale Virgiliana di Mantova 

           

  1.                                 Corito-Tarquinia, 13 Agosto

 

 Durante la permanenza di Enea a Corito-Tarquinia, la dea Venere, <<bianca fra eteree nubi>> scende dal cielo, abbraccia il figlio, e gli consegna le armi divine che già gli aveva fatto intravedere nel cielo della futura Roma. In quella occasione, si erano verificati alcuni prodigi indicativi del passaggio da un secolo ad un altro della storia etrusca (vedi cap. II, 2).

 Corito-Tarquinia e Roma assumono qui e altrove un ruolo intercambiabile.

 Dopo aver ricevuto le armi divine, Enea si compiace di contemplare le prefigurazioni della futura storia di Roma, che il dio Vulcano aveva inciso sullo scudo[1]. I bassorilievi vanno da Romolo fino al triplice trionfo dell'imperatore Augusto celebrato, a Roma, dal 13 al 15 Agosto del 30 a. C..

 Alcune scene del trionfo presentate sullo scudo erano state già anticipate dal poeta nel terzo libro delle Georgiche dove le aveva figurate incise nel tempio di Augusto, che aveva immaginato di costruire a Mantova, sulle rive del Mincio. In questa occasione Mantova e Corito-Tarquinia assumono lo stesso ruolo.

 Quando Enea, il giorno precedente al suo arrivo in Etruria, si era recato a far visita ad Evandro, lo aveva trovato intento a celebrare la festa in onore di Ercole sul colle Palatino della futura Roma. Sullo stesso colle, a Roma, se ne festeggiava la ricorrenza, il 12 Agosto di ogni anno. Il 13 Agosto del 30 a.C. iniziò, invece, il triduo durante il quale si celebrò, a Roma, il trionfo di Augusto. Questi si vantava d’esser discendente di Enea. A sua volta, Enea, discendeva da Dardano; e questi, nella tradizione virgiliana, era nato a Corito in Etruria.  Dunque, nell'immaginazione poetica di Virgilio, il 13 agosto di un millennio prima, durante la settima estate dalla distruzione di Troia[2], l’avo Enea era rientrato a Corito, nel seno dell'antiqua mater etrusca, dove aveva contemplato, incisa nella scena finale del proprio scudo, la prefigurazione di quel trionfo. Si osservi che il fatto acquista importanza solo se si assume che Enea è a Corito-Tarquinia.

 Quando poi Enea, dice il poeta, imbraccia lo scudo, <<si impone sulle spalle la gloria e il destino dei suoi discendenti>>[3]. Stavolta, Corito-Tarquinia è l'antiqua mater dalla quale promana il futuro Impero di Roma. Si noti che in questo specifico caso la funzione di matrice è assunta da Corito soltanto se identificata con Tarquinia.

 Alla fine del capitolo vedremo come sia anche possibile che Virgilio abbia recepito una tradizione etrusca dove l'arrivo dei Troiani a Corito-Tarquinia, alle idi di Agosto (13 Agosto) del settimo anno dopo la rovina di Troia, coincidesse con l'inizio di un secolo storico.

                         

 2.                                        Venere e l'antica madre    

 

 Che questi fatti avvengano qui, e non altrove, è una cosa significativa anche per altri riguardi.

 Lo storico romano Varrone (116-27 a.C.) raccontò che Venere, sotto aspetto di stella, aveva indicato ad Enea il cammino da seguire da Troia fino a Laurento, nel Lazio vetus, dove era apparsa per l'ultima volta ad indicare che quella era la meta[4]. 

 Virgilio, a sua volta, racconta che, durante la distruzione di Troia, Venere apparve ad Enea, lo prese per mano, e lo invitò a radunare i superstiti troiani per condurli verso una nuova patria, e scomparve[5]. Poi Venere assunse l'aspetto di stella e si diresse verso il monte Ida per indicare all'eroe e a suo padre Anchise che quello era il primo luogo dove dovevano recarsi[6]. In seguito, Venere avrà vari contatti con il figlio, ma non gli apparirà più nell’autentico aspetto di madre. Come stella è presente ancora in forma allusiva  il mattino del 13 agosto al momento in cui inizia il viaggio di Enea per l'Etruria[7]; ma il figlio potrà rivederla veramente e riabbracciarla materialmente solo quando sarà tornato nel seno dell'antiqua mater della stirpe. Venere e la terra di Corito assumono la funzione intercambiabile di mater. Si noti ancora che la cosa è resa possibile solo dalla identificazione di Corito con Tarquinia.

 Rileviamo poi che, a differenza di Varrone che aveva ambientato a Laurento l'ultima apparizione di Venere ad Enea, Virgilio la ambienta  a Corito-Tarquinia. In questa occasione, Venere è presente anche raffigurata come stella, al di sopra del capo di Augusto, in una delle scene contemplate da Enea sul proprio scudo[8]. Verosimilmente, il poeta alludeva ad una più antica tradizione etrusca o filoetrusca in cui la stessa Corito-Tarquinia era stata la meta dove Venere aveva guidato il rientro di Enea e dei Troiani. D’altronde, secondo una tradizione parallela, il troiano Corito, figlio di Paride, aveva fondato, in Etruria, la città di Corito[9] (vedi capp. I, 2; VI, 4 e 5; VIII, 4 c).

 A questo proposito, assume particolare valore uno specchio etrusco di bronzo graffito, del III sec.a.C., trovato a Tarquinia[10]. Vi si vede una scena della guerra di Troia, nella quale Venere interviene a salvare Enea che sta per essere ucciso da Diomede (fig. 7). Identica scena è presente su un vaso greco trovato a Vulci[11], e su due documenti etrusco-italici fra cui una trozella di provenienza ignota[12], ed un vaso di Vulci[13].

 Nell'Eneide, Virgilio dice che, in quella occasione, Giove concesse a Venere di salvare il figlio solo perché avrebbe poi dovuto trasferire i Troiani in Italia[14]. E' probabile che il poeta abbia adattato alla gloria di Roma una tradizione etrusca dove Tarquinia o Vulci, ma nel caso specifico Tarquinia, era la meta della migrazione troiana.

 Vorremmo, ora, cercare di rispondere alla domanda di quanti, come M. J. Gagé[15], si chiedevano quale valore avessero gli Etruschi per Virgilio e perché mai Venere avesse scelto proprio una valle dell'Etruria per consegnare ad Enea le armi fatali, e non lo avesse fatto, invece, in altro luogo più adatto alla gloria di Roma come poteva essere la spiaggia di Laurento o lo stesso colle Palatino che era sul luogo della futura Roma.

 La perplessità del Gagé, e degli altri come lui, nasceva dalla errata collocazione di Corito e del luogo dove Enea si presenta a Tarconte.  Ma se ci si ricorda che gli esegeti virgiliani di epoca romana andavano di persona lungo il fiume Mignone a visitare il luogo dove fonti scritte ponevano il campo di Tarconte, e se si tien presente che quegli stessi esegeti sapevano che la città di Corito era presso il campo di Tarconte, allora si comprende che in nessun altro luogo meglio che a Corito, antiqua mater di Troiani e Romani, Virgilio avrebbe potuto ambientare l'ultima apparizione di Venere al figlio, e la consegna a lui delle armi e dello scudo sul quale Vulcano aveva inciso i fatti gloriosi del futuro destino di Roma[16]. Gloria e destino, dice Virgilio, che Enea, imbracciando lo scudo, assume per sé sulle spalle. Opportunamente, il poeta, ambienta l'episodio sotto una quercia che, nel caso specifico, simboleggia la madre. Per gli antichi, la quercia era anche la figura per eccellenza dell'asse del mondo.

 Nell'Eneide, inoltre, Virgilio presenta la città di Corito come il luogo dal quale Tarconte invia sul Palatino (Roma) le insegne del potere, e presso il quale aveva riunito i vari eserciti delle città etrusche federate, e ne cede il comando ad Enea.

 In sostanza, nel poema, Corito e il lucus di Silvano assumono, per l'epoca arcaica, il ruolo che più tardi verrà assunto dal fanum del dio Voltumna. Abbiamo già visto che il fatto potrebbe riflettere una reale supremazia tarquiniese sulle città etrusche, almeno per l'epoca arcaica (vedi cap. II, 4).

 Erroneamente, si è creduto che Virgilio potesse aver ritenuto che il ritorno di Enea alla antiqua mater si fosse compiuto con l'approdo alla foce del "Tevere etrusco". La soluzione era puramente formale. La musa del poeta spedì, invece, Enea a Corito-Tarquinia dove, solo con il ritorno alla vera antiqua mater della stirpe troiana, l'eroe poté riabbracciare la propria madre Venere ed assumere su di sé la gloria e i destini dei suoi discendenti romani.

                     

 3.                                            I secoli etruschi

 

 Quando Venere, sul colle Palatino della futura Roma, fece intravedere ad Enea le armi che poi gli avrebbe consegnato a Corito-Tarquinia, si udì nel cielo uno squillo di Tromba etrusca (vedi cap. II, 2). In merito allo squillo, Elio Donato dice che Varrone (116-27 a.C.) ricordava che, nel 90 a.C., in occasione del trapasso dall'VIII al IX secolo della nazione etrusca, aveva udito uno squillo di tromba etrusca, proveniente dal cielo[17].

 E' chiaro che Elio Donato insinua che Virgilio possa aver voluto significare che i fatti che stava narrando coincidessero con l'inizio di un secolo etrusco.

 Nel 44 a. C., Giulio Cesare, discendente di Enea, fu ucciso in una congiura. Durante i suoi funerali, in pieno giorno, si vide, a Roma, una cometa. Si disse che si trattava della stella di Venere venuta per onorare Cesare. In quella stessa occasione, l'aruspice etrusco Vulcanio dichiarò che l'apparizione della stella indicava che era cominciato l'ultimo secolo della nazione etrusca[18].

 Lo squillo di tromba etrusca che Enea, il 13 Agosto, aveva inteso muggire nel cielo del Palatino (Roma), e l'epifania di Venere avvenuta nello stesso giorno, dopo l'arrivo del figlio a Corito-Tarquinia, fanno cautamente supporre che Virgilio abbia inserito nella struttura narrativa dell'Eneide elementi recepiti dalle Tusciae historiae o, comunque, da una tradizione etrusca dove l'arrivo dei Troiani a Corito-Tarquinia, alle idi di Agosto (13 Agosto) del settimo anno dopo la rovina di Troia, coincidesse con l'inizio di un secolo storico se non addirittura con l’inizio dei secoli storici.

 

 

4.                              L’Orifiamma dei Reali di Francia

 

Secondo una leggenda medioevale recepita da Andrea da Barberino (1370-1431/33),

 

Flovio, figlio dell’imperatore Costantino e antenato di Carlo Magno, quando <<dal padre si partì, cavalcando verso Toscana, si rivolse su per la marina, e per le selve di Corneto si smarrì, e andò tre notti e due giorni avviluppandosi per quelle selve. E il terzo giorno arrivò la sera a un romitorio>>, dove fu accolto dall’eremita Sansone. Questi era, poi, suo zio perché fratello dell’imperatore Licinio, e cognato di Costantino.

Arrivarono pure Giambarone e Sanguigno partiti alla ricerca del loro cugino smarrito.

Poiché Sansone non aveva cibo da dare ai suoi ospiti si recò nell’orto a Pregare il Signore di provvedere. Dopo l’orazione, <<apparì nel cielo un grande splendore>>, e un angelo discese dal cielo a portar quattro pani e un vessillo.

 <<Questa insegna>>, disse l’angelo a Sansone, <<ha nome Oro e fiamma e non sarà mai cacciata senza vittoria di coloro che per loro bandiera l’averanno>>.   

Tornato dai suoi ospiti, Sansone consegnò loro lo stendardo.

                        

Si trattava dell’Orifiamma che è un drappo a tre punte con tre gigli d’oro. Apparteneva all’abbate di San Dionigi. Nel 1082, Filippo I ne venne in possesso e ne fece il vessillo dei re di Francia. Secondo una tradizione, però apparteneva a Clodoveo capostipite della dinastia merovingia.

Attorno alla metà del XVII sec., lo storico Muzio Polidori, visitò le rovine della  chiesa, e scrisse di aver visto

 

 <<una pittura che rappresenta l’angelo che consegna all’eremita Sansone lo stendardo chiamato Orifiamma>>[19].

 

Il Polidori non poté influenzare la fantasia popolare perché la sua opera non fu pubblicata. Lo stesso dicasi del Valesio che, Agli inizi del ‘700, scrisse:

 

<<Dall’avanzi di detta fabbrica di chiesa, nella facciata, vi si vede un angelo che consegna all’eremita Sansone lo stendardo, il che si ha per tradizione anche de’ viventi d’averlo veduto e che oggi resti anche questo distrutto>>[20].

 

La chiesa di Santa Maria del Mignone esisteva almeno dal IX sec. d.C., e fu abbandonata nel 1083. Alla fine del XIII sec. era già cadente.

Si trovava  sulle colline prospicienti la riva destra del corso del Mignone[21], in prossimità del ponte di Bernascone dove passava l’antica via etrusca che andava da Tarquinia a Roma (vedi cap. II, 5). Probabilmente, era stata costruita sul luogo dove si diceva che fosse esistito l’eremo di Sansone.

A nostro avviso, la struttura della leggenda del viaggio di Fiovo da  Roma alle selve di Corneto, presso l’eremo di Sansone (sul luogo in cui sorgerà la chiesa di S. Maria del Mignone), dove riceve le insegne dei futuri reali di Francia, portate dall’angelo, ha notevole analoga con quella del  racconto virgiliano. Soprattutto, la figura dell’angelo, che scende dal cielo lumeggiante per consegnare a Sansone il drappo contenente le future insegne dei reali di Francia, richiama quella di Venere che bianca fra eteree nubi scendeva dal cielo per consegnare ad Enea le armi divine fra cui lo scudo dov’erano incisi le immagini della futura storia di Roma.

 



[1] Virgilio, Eneide, VIII, 617-731.

[2] L'arrivo di Enea era, infatti, tradizionalmente collocato nel cuore dell'estate (Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, I,63.

[3] Virgilio, op. cit. , VIII, 731.

[4] Servio, All'Eneide, I, 382: <<Varro in secundo Divinarum dicit ex quo de Troia est egressus Aeneas, Veneris eum per diem cotidiem stellam vidisse, donec ad agrum Laurentum veniret, in quo eam  non vidit ulterius: qua re terras cognovit esse fatales>>.

[5] Virgilio, op. cit. , II, 588-620.

[6] Virgilio, op. cit. , II, 695-696.

[7] Virgilio, op. cit. , VIII, 589-591: <<Qualis ubi Oceani perfusus unda, quem Venus ante alios astrorum diligit ignes>>; Servio, op. cit. , I, 382: <<Quam stellam Veneris ipse Vergilius ostendit ubi "Oceani perfusus Lucifer... ecc. ...">>; VIII, 589-591.

[8] Virgilio, op. cit. , VIII, 681.

[9] Servio Danielino, All’Eneide, III, 170.

[10] L.I.M.C. , s.v. Ainias, n. 43.

[11] L.I.M.C. , n.38, (490-480 a.C.).

[12] L.I.M.C. , n.42, (ca. 460 a.C.).

[13] L.I.M.C. , n. 41, (470-460 a. C).

[14] Virgilio, op. cit. , IV, 227-231.

[15] M. J. Gagé, Enée, Faunus et le culte de Silvain "Pélasge", <<Mélanges d'Archéologie et d'Histoire>>, LXXIII, 1961, pagg. 80-81.

[16] Fata nepotum (En., VIII, 731). In alcuni codici si legge facta. Elio Donato commenta: <<Si fata legeris, hoc est, quae nepotes fataliter fecerunt>>(All'En., VIII, 731). La variante dei codici e la nota di Donato mi sono state segnalate dal compianto amico Francesco Della Corte.

[17] Servio Danielino, op. cit. , VIII, 526.

[18] Serio Danielino, Alle Bucoliche, IX, 46.

[19] Muzio Polidori, Croniche di Corneto, Tarquinia, S.T.A.S., 1978, pag. 135.

[20] Valesio-Falgari, Memorie istoriche della città di Corneto, Tarquinia, S.T.A.S., 1993, a cura di M. Corteselli  e A. Pardi , II, pag. 140.

[21] S. Del Lungo, S. Maria del Mignone, << ASRSP>>, 117, 1994, pagg. 5-95 (dal quale recepiamo la leggenda di Fiovo); A. Berardozzi e G. Cola, Santa Maria del Mignone da insediamento monastico a tenuta agricola, <<Bollettino S.T.A.S.>>, 25, 1996, pag. 153-176.