Campioni d’Italia

Francesco Delfino


8. Laureato in sequestri: Sardegna, Brescia, Milano, ancora Brescia

Francesco Delfino sui sequestri di persona la sa davvero lunga. Non soltanto per la sua tesi di laurea. Ma per averli incontrati sul campo, prima in Sardegna nel 1970, poi a Brescia dal 1974, indi a Milano nel 1977, infine ancora a Brescia, nel 1998. Esperto in sequestri. Oggi, dopo ciò che è emerso sull’estorsione ai Soffiantini, qualcuno dentro l’Arma rivanga brutte dicerie e vecchi sospetti nati attorno alla gestione dei sequestri Lucchini, Gnutti, Pinti, avvenuti a Brescia negli anni Settanta: un furgone con 7 miliardi portato in Toscana, che la leggenda dice essere stato guidato da Delfino in persona; una Mercedes color aragosta regalata in seguito all’ufficiale. Forse solo maldicenze, che oggi però tornano in circolo a causa delle difficoltà in cui si trova Delfino.

Più solide invece le accuse sulla gestione dei sequestri a Milano, alla fine degli anni Settanta: una storia che era costata al generale un avviso di garanzia,  ma che era poi stata archiviata dal giudice nel novembre 1994. Con una formula, però, che lascia aperti i dubbi e che oggi ripropone tutte le domande lasciate senza risposta allora.

Il via all’indagine lo aveva dato Saverio Morabito, ieri killer spietato della ’Ndrangheta al Nord, oggi collaboratore di giustizia considerato di «attendibilità pressocché assoluta». È lo stesso personaggio che ricorda i bei tempi in cui suo padre andava a trovare il giovane tenente Delfino a Luino prima di passare il confine svizzero carico di materiale di contrabbando. «Delfino ha raccolto le mie confidenze tanti anni fa», racconta Morabito, «e alla fine ha mostrato un piccolo registratore che aveva in una cartella e mi ha detto: vedi, io avrei potuto registrare tutto, ma non ho registrato niente. Se parlerai ai magistrati, raccontagli quello che vuoi, ma non firmare niente». Poi  il generale, sibillino, aggiunge: «Ti prometto che ti farò avere gli arresti domiciliari». Morabito capisce, e tace. Solo tre anni dopo si decide a parlare con il sostituto procuratore di Milano Alberto Nobili: svelando i giochi pericolosi di Delfino, il suo slalom infinito tra guardie e ladri.

Dopo Morabito, molti altri calabresi decidono di parlare. Erano anni difficili. Mentre l’attenzione dell’opinione pubblica era calamitata dalle azioni eversive dei gruppi di estrema sinistra, la criminalità organizzata accumulava ricchezze e potere. A Milano e in Lombardia tra il 1976 e il ’77 l’allarme sequestri aveva raggiunto il massimo grado. Delfino, allora capitano, era attivissimo. Nel ’76 riesce a penetrare nel covo dov’è tenuto prigioniero Carlo Alberghini pronunciando addirittura la parola d’ordine dei rapitori. Nel ’77 libera Erminio Rimoldi e arresta una trentina di persone. Come riesce a ottenere questi fulminei successi? «Avevo sei confidenti negli ambienti dei calabresi di Corsico e di Buccinasco», risponde Delfino. «Tra di noi c’è un infiltrato», si allarmano i calabresi.

Delfino inizia a pedinare e intercettare boss e soldati delle famiglie Sergi e Papalia. Sono i compaesani di Platì e San Luca trapiantati a Corsico e Buccinasco, nell’hinterland milanese. I controlli iniziano esattamente un mese prima che venga messa a segno una tripletta di sequestri in dieci giorni. Ma, stranamente, i rapimenti non sono evitati. Anzi, proprio nei giorni in cui avvengono i primi due (l’8 e il 16 maggio 1977) i servizi di pedinamento sono sospesi. Come mai? Delfino ha un suo uomo detro il gruppo che li organizza: è Antonio Nirta detto «Due Nasi», il nome che in Calabria si dà al fucile a canne mozze. Ma il capitano interviene solo a cose fatte: mette a segno «brillanti operazioni» che gli valgono encomi, fama e avanzamento di carriera. Più 300 milioni (una somma enorme, per quegli anni), che dice di dividere tra i suoi sei fantomatici confidenti. Racconta Mario Inzaghi, il killer della banda: «Come poi abbiamo potuto capire tutti chiaramente, siamo stati lasciati eseguire il sequestro Galli e soprattutto il sequestro Scalari».

Poi Nirta è finito in carcere. Non lo chiamano più «Due Nasi», ma «L’Esaurito». Fa il pazzo, cammina avanti e indietro nella gabbia degli imputati durante i processi, pronuncia discorsi complicati senza capo né coda. Conosce molti dei segreti di Delfino, ma non sembra volerli raccontare. Il generale, del resto, ha dichiarato di non conoscere nessuno della famiglia Nirta. «In questo modo», commenta Morabito, gli ha mandato a dire: stattene tranquillo che io non ti tradirò». Nella villa di Delfino a Meina, vicino a Novara, un grande muro e un pesante cancello custodivano i suoi segreti. Tra il giardino e la ferrovia ci sono addirittura vetri antiproiettile.

Tempo fa Morabito ha confessato a Nobili: «Guardi, dottore, i Sergi, i Papalia ci odieranno. Ma io di loro non ho paura. Ho paura solo del generale Delfino». Ora il generale che ha attraversato in silenzio tutti i luoghi oscuri della storia recente del Paese è un condannato definitivo. L’Italia ha un motivo in più per fare chiarezza sul suo passato.

(gb, da diario. Aggiornamento 31 gennaio 2001)