DI UN POETA
E DELLE ORIGINI DELLA
POESIA CONTEMPORANEA

di Francesco Biondolillo (discorso pronunziato il 10 aprile 1950 al Circolo Artistico di Palermo)

CINQUANTENNIO E CINQUANTENARIO

E', direi quasi, di moda in questi momenti la ricerca delle origini dei movimenti letterari e artistici rinnovatori che si sono prodotti in questo primo mezzo secolo nel nostro paese. Ma il difetto fondamentale di queste indagini e della storia che ne risulta consiste generalmente nel guardare i fatti da un punto di vista nettamente personale, che tiene conto soltanto di quanto sarebbe avvenuto in determinati ambienti, limitati a Roma, Firenze e Milano.

Questo sistema arbitrario ha generato e perpetua inesattezze ed errori che bisogna correggere. E' giusto che finalmente si dia a Cesare quel che è di Cesare, poco o molto che sia. 

E' opportuno ricordare che all'inizio del nostro secolo le posizioni letterarie predominanti in Italia erano tenute dalla triade Carducci, D'Annunzio, Pascoli per la poesia, Fogazzaro e Verga per il romanzo. Attorno a questi soli giravano pianeti e numerosi satelliti. Vivacchiavano di moderata luce propria altri pochi vecchi scrittori, come Oriani, Graf, Cesareo, Capuana e il grande deluso Rapisardi. Alcuni giovani - fra i trenta e i quarant'anni - non seguivano gli stessi solchi, come Cena e Bertacchi, per esempio; ma si ricollegavano, pur con forbitezza di forme, alle diradate tradizioni romantiche. Il vecchio-giovane Giulio Orsini ancora non aveva fatto udire la sua rinnovellata voce. 

Ci si presenta oggi un'occasione per mettere a posto la questione della priorità in fatto di primi saggi di rinnovamento, di prime faville rivoluzionarie nel campo della poesia italiana agli albori del novecento. 

In questo anno è stato celebrato a Roma e a Pailermo il cinquantesimo anniversario dell'attività letteraria di Federico de Maria, ch'è ancor vivo e vegeto e battagliante, e insuperabile organizzatore di movimenti culturali e celebrazioni patrie. Egli è nato a Palermo nel 1885, ed ha pubblicato una trentina di opere fra libri di poesia, di teatro e di prosa narrativa e non so quanti articoli; specialmente nel primo quindicennio di questo secolo, avanti cioé che scoppiasse la prima grande guerra, quando egli fu per alcuni anni redattore del Resto del Carlino.

Tuttavia il suo nome, riconfinato in Sicilia e per molti motivi, che forse ci accadrà di esporre, estraneo ai vari gruppi che per successivi decenni si sono formati nell'Italia settentrionale, non si è imposto abbastanza all'attenzione del nostro paese. Apparso e scomparso varie volte nel cielo della nostra letteratura come una meteora, è vivo, quel nome, nella memoria di una generazione, è scomparso da quella di un'altra. Gli avvenimenti bellici frequenti in quest' ultimo quarantennio e la improvvisa formazione di nuovi indirizzi letterari hanno spesso sommerso il suo nome, il quale, però, quando è riapparso, ha sempre sorpreso la gente letterata per la ancor fresca vitalità della sua arte.

LA «BOHÊME» E «L'ERA NUOVA»

De Maria cominciò a interessare di sé da ragazzo. Aveva sette anni quando per la prima volta la stampa si occupò di lui come eccezionale declamatore di poesie in pubblici saggi scolastici. Figlio di attore drammatico, recitò anche parti di ragazzino in teatro. Poesia e teatro furono così i suoi primi elementi. Suoi ammiratori gli regalarono un teatrino importantissimo con molte marionette e ricco corredo di scenari e attrezzeria, nel quale vennero eseguiti dinanzi a pubblici composti di amici di famiglia e di vicini drammi complicatissimi scritti da lui su soggetti tolti da romanzi o addirittura inventati. Egli sosteneva le parti di tutti i personaggi, per quelli comprimari coadiuvato da un compagno di scuola divenuto oggi famoso anche lui, come deputato: l'on. avv. Guido Russo-Perez. C'è ancora chi ricorda qualcuna di quelle ambite e applauditissime rappresentazioni di piazza Ugo Bassi e di via XX Settembre. 

Di lì a poco cominciarono ad apparire su giornali e riviste primizie poetiche e narrative dell'attore-drammaturgo: la «Farfalla» e la «Colomba» di Milano accolsero quelle primizie in prosa e in versi. Ma ben presto diventò collaboratore assiduo della rivista palermitana «La Bohême» diretta da Gioacchino Noto e redatta da giovani scrittori siciliani, fra cui ricordiamo Santi Sottile-Tomaselli, accanito antidannunziano, Giuseppe Ernesto Nuccio, Giuseppe Minutilla-Iauria, e un giovinotto poeta già molto considerato venuto da Trapani per frequentare l'Università palermitana: Tito Marrone. 

Di Tito Marrone è giusto ricordare rapidamente che pochissimi anni dopo, passato a Roma, doveva primeggiare fra i poeti crepuscolari e precedere Fausto Maria Martini e lo stesso Corazzini. 

La redazione di quel periodico letterario - una stanzetta assai modesta in vicolo Ragusi - fu la sede della prima chiesuola poetica giovanile tra gli anni 1900-1902, dove sprizzarono le prime faville fra conformisti e ribelli. De Maria e Marrone, pur legatissimi fraternamente tra loro, furono dapprima agli antipodi e con l'uno o con l'altro si schierarono giovani e vecchi frequentatori di quel circolo letterario. Ma le lotte crebbero con l'apparire di un altro giornale, pubblicato da Giuseppe La Rocca, narratore verista e antidannunziano, assai benvoluto da Giovanni Verga.

«LA FRONDA»

Toccava a Federico de Maria, diciottenne, pronunziare le prime parole concrete in fatto di poesie e poi di polemica antitradizionalistica. 

Questo nostro scrittore - a parte i suoi meriti artistici, di cui faremo cenno - può vantare di essere stato il primo, dico il primo, ad avvertire, nel principio del corrente secolo, il bisogno di rinnovare la poesia, il bisogno di bandire un nuovo Sturm und Drang, il bisogno di chiudere ogni esperienza e carducciana e dannunziana e pascoliana, e volgere il nostro spirito, la nostra ispirazione alla realtà della vita, alla vera sorgente della poesia, ch'è il nostro io percosso giorno per giorno dall'eterna vicenda della storia. 

Più tardi, nella Pasqua del 1905 veniva da lui pubblicato un manifesto annunziante prossima l'uscita di un giornale letterario-scientifico, «La Fronda», manifesto in cui si cominciava ad avvertire che si voleva «fare opera di rigenerazione», che si voleva «dar bando ai carducciani, ai pascoliani, ai rapisardiani, e ai dannunzianeggianti», pur ammirando in parte l'opera di alcuni contemporanei, ed accogliere invece «quanti, grandi o piccoli, rinomati o ignoti, mostrassero di avere una personalità vera e pro- pria».

Come programma, ce n'era abbastanza per giustificare il titolo rivoluzionario del giornale, e il motto francese che il manifesto portava in testa: Les Dieux s'en vont

Né si può dire che mancassero aderenti: di questi, taluni dovevano in seguito conquistare una bella celebrità. Accanto al direttore, Federico de Maria, che assumeva il significativo pseudonimo di Elio Apocalista, c'erano: Giuseppe Carnesi, autore più tardi di un volume di versi che attrasse l'attenzione degli altri poeti e della critica, «Canti dellagonia»; Giuseppe Minutilla - Lauria buon articolista e novelliere già tenuto a battesimo dall'allor celebre giornale letterario «Fanfulla della Domenica»; Vincenzo Gerace, da poco arrivato in Palermo dalla nana Calabria, ma già ventottenne e ammirato fra i giovani per le sue liriche inedite e per l'appena pubblicato «Fonte della Vita»; Italo Palermi. giovanissimo principiante fervido demariano e il men giovane Filippo N. Mancuso. Ma il più giovane di tutti era colui che oggi scrive queste pagine, adolescente licealista; come il più vecchio era Domenico Milelli, il non ancor dimenticato poeta calabrese ostinato bohêmien, che aveva venti anni prima conquistato bella notorietà sotto lo pseudonimo di «Conte di Lara». Vi faceva anche le sue prime armi giornalistiche e poetiche il figlio del Milelli. Guido, che molti hanno conosciuto fino a pochi anni fa redattore-capo dell'«Idea Nazionale» prima e poi della a «Tribuna».

E citiamo alcuni dei collaboratori della «Fronda»: da Giannino Antona-Traversi, famosissimo uomo di teatro e uomo di mondo dal suo Olimpo milanese, a Luigi Capuana felice d'andare coi giovani; da Luigi Pirandello che cominciava a diventare famoso pel Fu Mattia Pascal a Sergio Corazzini che ancora non era il poeta tipico del crepuscolarismo; da G. A. Borgese che già attirava l'attenzione della critica ufficiale, a Massimo Bontempelli  allora tradizionalista sfegatato ben lontano dal novecentismo e dal realismo magico. 

Alla fine di maggio del 1905 il giornale «La Fronda» uscì alla luce, a Palermo, dalla tipografia Bizzarrilli, suscitando grande rumore. Sfido io! Quasi non bastassero le ardite affermazioni del Manifesto, nell'articolo di fondo, redatto dal de Maria, era detto, chiaro e tondo: «Per noi insomma, è arte grande solo quella che rispecchia la vita, mirando al futuro: ogni opera d'arte deve essere una pietra, piccola o grandissima, che cementata dalla civiltà, viene aggiunta all'interminato edificio dell'Avvenire, vogliamo quindi che chi fa arte sia uomo d'oggi figlio di questi due ultimi secoli ardenti di luce meravigliosa, fratello di coloro che han dato all'umanità il vapore, le macchine elettriche, il telegrafo senza fili, il radio e mille fulgide promesse per l'avvenire... Possibile che i poeti d'Italia e di tutta la latinità ora non siano buoni che a frugare, rimestando, tra la morte ceneri della tradizione? Siano allora buttate a mare queste tradizioni e queste glorie del passato, quando non servono che a incepparci invece d'esserci fari in un libero cammino, o diamo meglio uno sgambetto a tutti coloro i quali non sanno metterci dinanzi agli occhi che il passato, il passato, quest'eterno passato!». 

Chi ricorda il manifesto del futurismo con tutte quelle terribili scomuniche al passato e ai passatisti, con tutte quelle esortazioni a cantare il progresso e le macchine e il telegrafo e insomma l'Avvenire, penserebbe a un saccheggio di propositi e di parole che abbia fatto il de Maria in quel manifesto! E invece le cose stanno tutte al contrario: poiché il manifesto e l'articolo di fondo del primo numero della «Fronda» sono del 1905, mentre il manifesto del Futurismo di F. T. Marinetti e le sue molte circolari a stampa sono del 1909. Non è forse del 20 febbraio 1909 quel numero del «Figaro», dalle colonne del quale Marinetti lanciò quel suo primo Manifesto Futurista? 

Né si può dire, ancora, che la poetica del de Maria sia stata l'esplosione di un momento: egli non solo continuò su quel giornale a battere su quella incudine, ma quando quel giornale chiuse la sua breve ma animosa vita, egli continuò ancora su cotidiani locali a bandire il nuovo verbo rivoluzionario. 

Ecco che ‚osa scriveva nel 1907 su «L'Ora», cotidiano di Palermo: «Noi non camminiamo più coi passi dell'evoluzione, ma si può dire che procediamo di rivoluzione in rivoluzione. Tutto ciò è dovuto massimamente ai mezzi di produzione, di scambio, di trasporto: al vapore e all'elettricità. La macchina ha mutato la nostra vita e in gran parte i nostri sentimenti e gli ideali... Per ora guardatela quest'arte nuova, più che in ogni altro, nell'architettura in cui comincia a trionfare; guardate grandi monumenti meccanici, le fabbriche gigantesche, i quais e i doks anneriti dal fumo e grandi come città, i palazzi a 30 piani dalle ossature d'acciaio, i ponti inauditi sull'oceano, le torri che toccano le nuvole; edifizi a stile semplice che hanno la bellezza della forza e della utilità razionale (1). Dinanzi ai vasti ed eroici spettacoli di bellezza nuova, per quanto tumultuosa, offerti dal nostro secolo, come non trovare ridicolo quel genere di classicismo nato unicamente dallo studio, dalla ricerca, dalla imitazione gretta degli antichi? ecc. ecc. ». 

Per soddisfare la curiosità dei nostri lettori, riportiamo alcuni luoghi del Manifesto futurista pubblicatosi, come dicevamo, alcuni anni dopo, nel 1909: la somiglianza con quello che scriveva il de Maria è sorprendente, e quasi si griderebbe al plagio se non fosse per le secentistiche metafore marinettiane che rendono 1' espressione vecchia e molle fra tanta modernità di propositi. Confrontare con la vigorosa precisione del de Maria. Ecco Marinetti: «Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dai piacere e dalla sommossa, canteremo le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati da violente lune elettriche; le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano, i ponti simili a ginnasti giganti che scavalcano i fiumi, balenanti al sole con un lucicchio di coltelli, i piroscafi avventurosi...., le locomotive dall'ampio petto..., il volo scivolante degli aeroplani, ecc... »

Tra i due poeti non poteva non stringersi un'amicizia e una solidarietà vivissjme. Già De Maria era stato accolto nella rivista «Poesia» fondata e diretta da Marinetti, grandi parole di adesione aveva da questo ricevuto all'uscita della battagliera  «Fronda», e dallo stesso veniva invitato ad aderire al Manifesto del Futurismo inviatogli il 5 febbraio del 1909 con una lettera in cui s'incontrano frasi così fatte:  «Ti mando il Manifesto del Futurismo, nel quale, come già ti scrissi, abbiamo riassunto tutte le nostre sparpagliate aspirazioni demolitrici e innovatrici: ti prego di accordargli la tua ampia adesione... Avanti, caro amico!» E una lirica del de Maria veniva declamata insieme con altri versi futuristi, di Buzzi, Cavacchiolj, Palazzeschi, Govoni, la sera del 28 febbraio al Teatro Rossetti di Trieste, in mezzo a «ovazionj entusiastiche»

E qui cade acconcio un avvertimento, fondato del resto su dati di fatto. I rapporti fra Federico de Maria e Marinetti furono in principio stretti e pienamente solidali. Ma quando quest'ultimo, travolto dalla sua stessa furia reclamistica, e dal suo capriccio innovatore sempre più bizzarro, trasformò l'Italia in una platea di continui baccani e il campo della poesia in un manicomio a freddo, il de Maria si allontanò a poco a poco da lui perché in fondo al suo temperamento, se pure molto animoso, c'era una grande serietà; serietà che già s'era annunziata nei suoi canti precedenti al 1905, data della pubblicazione della «Fronda».

VOCI E CANZONI ROSSE

Essi s'intitolavano Voci, poemi della Natura (1903) e Canzoni Rosse (1905), e avevano rivelato un senso schietto e immediato della vita, una disposizione quasi drammatica a penetrare nell'eterna vicenda della storia, una insopprimibile e al tempo stesso angosciosa ribellione alle menzogne della società. Si risentivano in quel de Maria ancora quasi adolescente (contava diciotto o venti anni) gli slanci ribelli e romantici d'uno Shelley, le aspirazioni larghe e universali d'un Whitman, le idealistiche commozioni d'un Hugo. Questo da noi si dice tanto per intenderci: per delineare approssimativamente il ritratto spirituale di questo poeta che aveva voglia di rompere i legami della vecchia poesia, ma che a voler ciò era appunto spinto non dal malsano desiderio di fare del chiasso, come avvenne in Marinetti, ma dal bisogno di esprimere i moti tempestosi e ardui della propria ani- ma, ribelle sì, ma meditativa: e di esprimerli con nuovi e liberi metri (2).

Ora: se si pensa che un tal poeta entrava nell'agone quando ancora splendeva la fama del Carducci (il quale morirà alcuni anni appresso, nel 1907, suscitando un cordoglio immenso nel nostro paese); quando il D'Annunzio conquistava con le Laudi - che sono del 1903-4 e specialmente con l'Alcyone la più alta vetta della sua poesia, quando il Pascoli pubblicava i Primi poemetti, e perciò mostrava di dare più intenso sviluppo alla sua arte che alla natura si volgeva per fuggire la grande tragedia del mondo umano: se si pensa a tutto questo non si può non riconoscere arduo l'atteggiamento di questo poeta, non si può non giustificare la sua poetica innovatrice, la quale dunque non sorse prima della sua poesia, e perciò non fu uno sterile frutto di cerebralismo; non si può, infine, non ammettere una profonda diversità di temperamento fra lui e Marinetti. 

A quelli, d'altra parte, che potevano pensare essere la sua libera poesia soltanto libero capriccio di ritmi, egli faceva vedere alcuni anni dopo pubblicando Interludio classico, che, se si fosse trattato solo di metrica, anche la metrica tradizionale egli era capace di maneggiare e maneggiarla con elegante disinvoltura.

Se il De Maria aveva mostrato di non più apprezzare la metrica tradizionale, ciò era avvenuto perché la nuova ispirazione non comportava più la vecchia veste, ma ne esigeva un'altra a essa più aderente e più appropriata (3). 

Anche, però, quando continuava a usare metri classici, lo faceva con gusto già particolare e mettendovi dentro una potenza d'ispirazione davvero sorprendente in un ragazzo diciottenne, come nella poesia Czolgocz considerata dai critici un autentico capolavoro. 

Dato il nostro assunto più storico che critico e dati i limiti impostici dalle circostanze, non è possibile qui sviluppare il mio concetto; ma a titolo di semplice appunto che potrà servire per un più esteso esame critico domani, debbo insistere sull'importanza fondamentale di questa poesia del nostro autore. Basterà, a chi voglia leggerla, confrontarla con la generale produzione poetica anteriore e contemporanea per accorgersi che nella ispirazione, nello sviluppo, nella fattura, essa è assolutamente singolare e, pur nel suo eloquio semplice, quasi scarno, raggiunge effetti sorprendenti. 

Da essa prenderà le mosse, in quegli stessi giorni, la tecnica narrativa del de Maria col suo preproustiano romanzo Santa Maria della Spina, l'opera rimasta quasi nel buio alla prima apparizione, avvenuta nel 1912, in un periodo cioé in cui il de Maria, completamente preso dal giornalismo politico, aveva una cattiva stampa, ma che fu più tardi valorizzata da un plagiario di buon gusto che la ripuhblicò sotto il.proprio nome con altro titolo. 

Ma tutto ciò ci trarrebbe lontano, anzi richiederebbe lunghissimo dire, e per ora non è mio compito parlare di de Maria anche come romanziere plagiato, giornalista combattuto, ecc.

 

DE MARIA E BONTEMPELLI

Sarà certamente strano apprendere che tra gli avversari... più cordiali alle innovazioni metriche del de Maria fu uno scrittore che passa ormai fra i più iconoclastici, e che si reputa, o vien reputato, il creatore del novecentismo e il fondatore del realismo magico: Massimo Bontempelli. Questi, lasciando nell'ottobre del 1905, la Sicilia, in cui aveva conosciuto di persona il de Maria, gli inviò un sonetto, che val la pena di riportare per intero al fine d'illuminare con un episodio piuttosto faceto quel momento di transizione poetica:

Il sonetto che odii, o Federico, 
Naviga a te con un sì dolce «addio» 
Che tu non sai mostrargliti restio, 
Ma lo festeggi come un vecchio amico;

E non t'aduggi entro il canoro intrico 
Di quattro rime, sì leggi il desìo 
Del cor, che è tutto fresco e tutto mio 
S'anco t'addolcia di un richiamo antico.

Vedi con che remeggio ilare, stende 
Il vol pel cielo di Sicilia, trema, 
Mormora, prova il suo più bel sorriso...

Fin che, giunto a la tua Conca, poema 
D'oro e d'azzurro, piega l'ale e scende, 
E t'incontra, e t'inchina, - e tu gli hai riso.

Avete capito? Il Bontempelli, colui che apparirà il più ironico distruttore di antiche forme e di antichi miti, eccolo qui peritoso, e tutto latte e miele perché il de Maria, accipigliato, diabolicamente incaramellato, faccia buona accoglienza al suo arrembato tradizionalismo. Sfido io! In quel tempo il buon Massimo scrive Odi classicheggianti e le pubblica da Formiggini in una collezione di poeti che sembrano uscire dal medesimo collegio; il terribile Federico, invece, scrive le Canzoni Rosse e le scaglia contro il cielo mettendovi dentro una profonda anima mefistofelica. E che risponde all'amico che gli ha inviato un tal sonetto? Risponde che si, gli è ben accetto il sonetto se gli reca notizia dell'amico pure se era ripartito senza averlo salutato, ma che, se questi vuole cantare la bellezza della Conca d'Oro, lasci stare il sonetto, e ogni altra forma metrica tradizionale, e usi piuttosto il poema libero, che s'adegui all'ampiezza della visione e al palpito del mare e del vento siciliano. E come nelle antiche tenzoni, per far piacere all'amico, e per mostrare ch'egli i metri tradizionali li conosce bene, e bene li sa adoperare, risponde con un sonetto in cui si ripetono le rime di quello del proponente. Eccolo:

Ed io non più mi mostrerò restio 
delle canore sillabe all'intrico, 
se mi reca novelle dell'amico 
che si partì senza pur dirmi addio

e che, parola mia di Federico, 
ben tre volte piantommi sotto il mio 
tetto, senza speranza e con desio; 
e ciò condanna un buon costume antico

Ma s'egli vuole anche cantarmi il riso 
della mia Conca, a lui chiedo il poema 
che, libero, nel ciel l'ampie ali stende;

e al palpito del vento ed al sorriso 
dei campi e alla canzon del mar che trema 
sa involare il sonoro impeto, e ascende.

La risposta, tra il serio e il faceto, voleva suonare ammonimento a colui che allora mostrava di essere un parruccone della tradizione letteraria, e a quanti altri s'ostinavano a pensare che le forme metriche dovessero essere preordinate all'ispirazione poetica, mentre invece dovevano pensare che il ritmo e il metro nascono insieme con l'ispirazione poetica, e che la così detta libertà, se era voluta dall'intimo della commozione, non era più libertà ma vera e propria disciplina artistica. 

Son cose, queste, che ormai sono di dominio comune, ma che allora, quando il de Maria si batteva per esse, non erano entrate nella testa di tanti scrittori, nonostante da qualche anno fosse sorta l'Estetica del Croce, che, sviluppando un criterio desanctisiano dell'arte, aveva proclamata l'identità di forma e contenuto.

LA LEGGENDA DELLA VITA

Da allora in poi molta acqua è passata sotto i ponti. Nel 1908 sorse «La Voce» a Firenze col programma che certo molta influenza esercitò sulla cultura italiana. Molti movimenti letterari nacquero - impressionismo, surrealismo, realismo rnagico, rondismo, espressionismo, ecc - che certamente sopravanzavano le innovazioni già proclamate dal de Maria; e le sopravanzavano, non tanto perché il pensiero non sta fermo, e via via si andò acquistando una maggiore padronanza del problema artistico, ma anche perché essi partivano da gruppi - come quello fiorentino della «La Voce», e quello romano della «Ronda»  - molto bene organizzati e finanziati che non fosse quello della «Fronda», che, oltre ad essere povero di mezzi - così che dopo un anno si spense - aveva l'inconveniente di pubblicarsi in Sicilia, a Palermo, ch'è divisa dal continente, e dalla quale ogni movimento tarda sempre a raggiungere gli ambienti culturali dell' Italia centrale e settentrionale. Ciò malgrado il de Maria non disarmò un solo istante e, per mantenersi quanto più possibile a contatto con gli amici delle sue stesse idee viaggiava spesso, faceva lunghe soste a Roma ove Adone Nosari lo ha ricordato come uno degli assidui della terza saletta dell'Aragno e dell'osteria di Giovanni Cini. A Roma anzi, benché non sempre presente, dal 1907 al principio del 1909, fu con Armando Granelli, Tito Marrone e Giuseppe Piazza, condirettore della rivista di battaglia « La Vita Letteraria» la quale aveva ripreso, ma con minore unicità e risolutezza d'indirizzo, i motivi e le forme polemiche della gloriosa «Fronda». 

Nell'autunno del 1908, edita dalla rivista marinettiana «Poesia», appare La leggenda della Vita, l'opera più matura (pur con le sue disuguaglianze e con gl'impeti polemici che qua e là prendevano la mano all'arte) della giovinezza del nostro poeta, in cui egli non raccolse sol tanto liriche nuove e il meglio delle precedenti, ma anche fissò in una lunga prefazione i canoni estetici a cui intendeva adeguarsi. Essa ebbe un successo intenso, quale nessun giovane aveva ottenuto in quegli anni (4). Soltanto l'anno dono doveva cominciare a sorgere la fortunata stella di Guido Gozzano. E a questo proposito bisogna accennare di volo all'ingiustizia di certa critica che volle più tardi trovare accenti gozzaniani in poesie del de Maria apparse mesi prima dei Colloqui, e quando il nome del Gozzano era ignoto. 

La vita del De Maria, inoltre, si svolge dopo la prima grande guerra in mezzo a vicende che lo tennero lontano dai veri centri letterari che dànno fama e quattrini. Ritornato a Palermo, nell'Isola, dovette subire la tirannia di tanti inconvenienti, fra cui non ultimo quello dello scarso fervore di simpatia o di consenso che nell'Isola s'incontra fra i propri corregionali. 

Non bisogna dimenticare che quei siciliani i quali sono riusciti ad attirare l'attenzione su di sé, vissero gran parte della loro vita fuori dell'Isola. Il caso di Luigi Pirandello e di G. A. Borgese, insegni. E se Giovanni Verga e Luigi Capuana, che pur vissero il loro ultimo ventennio in Sicilia, mantennero le loro posizioni, bisogna pur dire che essi usufruirono della rinomanza conquistata in continente, anche quando in Sicilia produssero opere di maggiore valore artistico (le quali, però, erano lette da un pubblico scarso). 

E anche del Cesareo si può dire che, da quando egli tornò in Sicilia per occuparvi la cattedra di Letteratura Italiana a Palermo, visse della fama che, giovane, s'era acquistata a Roma con le Occidentali, e che un amore avventuroso e tragicamente finito aveva alimentato. Tutta quella produzione ch'egli, in quarant'anni di alto magistero palermitano diede alla luce - poesia, critica, teatro, giornalismo - non valse ad accrescere il suo lustro. E ciò sia detto a vergogna del mondo letterario, e a rimprovero anche dei siciliani. Il de Maria ebbe a lottare anche lui contro questi inconvenienti, da quando aveva dovuto lasciare Bologna e «Il Resto del Carlino»; i molti libri di poesia, di narrativa e di teatro ch'egli pubblicò dal 1920 in poi, ci diedero sempre l'impressione di uno scrittore che volesse ogni volta tener su la stima e l'ammirazione che s'era conquistate dal 1903 al 1909, e cioè in quel periodo in cui egli, aveva pubblicato le Voci, le Canzoni rosse, La Fronda e La leggenda della vita

Lo sforzo riusciva lì per lì, ma doveva essere rinnovato ogni volta. Eppure nella letteratura contemporanea raramente si trovano accenti di poesia così profondi, come quelli che s'incontrano nei volumi: La Conquista del Mondo (1926), La Ritornata (1932). 

Attardiamoci un momento su La Ritornata che inizia il terzo periodo della sua attività, contrassegnata dalla vittoria nel concorso nazionale di Poesia "Fusinato" che era stato giusto quell'anno istituito e che aveva avuto più di trecento concorrenti, fra cui molti dei maggiori poeti di quei giorni, e che poi gli venne con gran pompa rimesso nell'Università di Padova, relatore Diego Valeri. 

Il de Maria aveva rappresentato dunque una stella di prima grandezza nel firmamento della poesia siciliana. All'avanguardia sempre d'ogni nuovo movimento letterario, d'ispirazione prontissima e fervida, maestro d'ogni sorta di ritmi e di metri, dicitore e declamatore suggestivo e trascinante, polemista e giornalista dei più travolgenti, molte qualità aveva, ripetiamo, per far valere anche al di fuori quello ch'egli era intimamente: un'anima tanto accesa di sentimento, un'anima tanto accesa di desiderio d'infinito da smarrirsi e sentire più straziante la piccolezza del proprio io incarcerato in questo mondo effimero e gramo. Ed era infatti riuscito a piazzarsi, come si è detto, nella prima schiera di giovani poeti che promettevano di dare all'Italia una nuova voce. 

Ma neI 1933 egli era quasi un dimenticato e si presentava presso a poco come un esordiente. Con questo volume il de Maria intese ritornare alla poesia, non senza però aver documentato il cammino da lui percorso prima di giungere a questa pubblicazione, e non senza avere dimostrato la colpabilità di certe recenti antologie che avevano omesso il suo nome. 

Nonostante non facciano di solito piacere le autodifese o le requisitorie in proprio nome, tuttavia non parve del tutto fuori di luogo questa documentazione: il de Maria dalla pubblicazione di Voci diede segno di una sensibiiità pronta a cogliere e ad esprimere con spavalda sincerità di toni e con spregiudicata libertà d'atteggiamenti quanto gli veniva offerto dalla realtà: dalla realtà d'un suo mondo tutt'altro che metafisico, anzi tutto ribollente di entusiasmi e di frenesie. ma anche solcato da tormenti e da strazi. la ristampa di alcune poesie tratte da Voci, dalle Canzoni rosse, dall'Interludio classico e dalla Leggenda della Vita stava a testimoniare questa sempre varia e sempre viva fermentazione poetica. Le nuove liriche che seguivano, oltre il poemetto inedito Mamma Silenzio, confermarono che la poesia del de Maria, se cambiava d'ispirazione, non cambiava di natura: senza fatica s'aggirava in mezzo alla grama vita, fatta di miserie taciute e di segrete delusioni, o spiccava il volo, senza mai stancarsi, per le regioni dell'etere sconfinato, respirando la vita deI cosmo. Si direbbe che quanto più egli si chini a scrutare le miserie della vita, le angustie del sogno infranto, tanto più acquisti di forza per spiccare il volo dalla terra ed esaltarsi di luce e d'azzurro. Certamente il de Maria è un romantico, uno di quei superbi romantici che, come si tormentano - a guisa di angeli caduti - fra le strettoie della vita terrena, così si inebriano - a guisa d' angeli vittoriosi - di vertiginose altezze. Le due liriche Castellazzurro e Studio sono fra le più felici per significare questo doppio aspetto della fantasia del nostro poeta.

DA «ESTATE DI S. MARTINO» A «SILLABE»

Segue nel 1935 l'Estate di San Martino, una quarantina di poesie tutte nuove o per lo meno inedite. La critica concorde le considerò come le più perfette, le più mature della produzione demariana. In sempre varie risonanze squilla una voce potente, ch'è espressione d'un sentimento cosmico intenso, in sempre varie colorazioni splende una fantasia che si alimenta di profondi palpiti umani e non di virtuosi espedienti immaginifici. Il fondo di questo poeta è sinceramente doloroso, come quello di un'anima che mal volentieri si adatta a vivere in questo mondo; ma spesso il poeta reagisce ad esso, e si esalta di cielo e di mondi, svelando nelle immensità dello spazio le vibrazioni di un sogno segretamente alimentato di grandi aspirazioni. La forza di resistenza nel volo si dimostra nel ritmo stesso, che è libero e sonoro, snodantesi con una forza autonoma.

Liriche quali Ficus elastica, Un amore qualunque, Ritorni, Anima, Viaggio, Platani, Solitudine, Notte, possono essere considerate fra le più alte della poesia contemporanea.

Accanto a questo impetuoso volo ci par povera cosa la sterile «essenzialità» dei poeti odierni, accanto al chiaro significato umano ci par povera cosa l'oscuro stillicidio di certi altri poeti chiamati ermetici. 

A spiegarci il fondo umano della poesia di de Maria, la quale trae motivo di esaltazione dalla stessa dolorosa esperienza della vita, soccorrono i suoi drammi e i suoi romanzi: La spada di Orlando per es., ch'è il dramma dell'uomo combattente per le più grandi idealità e pur così assediato dalle astuzie e dalle meschinità della vita, le quali non riescono però a spegnere quella fede eroica e sovrumana; La vita al vento, ch'è in fondo il romanzo della vita dell'autore stesso costretto a vivere in mezzo a menzogne e a delusioni, e a gittare la propria vita, ardente d'ideali, in mezzo a cose e a persone che costituiscono una continua smentita alla credenza in una idealità superiore. 

E anche ora che pareva che la sua voce si fosse spenta, anche ora essa risorge con una raccolta di liriche intitolate Sillabe, in cui il temperamento poetico del de Maria non si smentisce per intensità di commozione, per vastità d'ispirazione. Ben dice egli medesimo alla prima breve lirica che dà il titolo al volume: la sua poesia coglie, sì, palpiti umani destinati a spegnersi (ed è, questo, perenne motivo di tristezza per lui), ma in ciascuno di quei palpiti, che sono come le Sillabe d'un linguaggio universale, si sente pure il cosmo che all'uomo sopravvive. La sua poesia svela l'eterno ch'è nel contingente, svela il divino ch'è nell'umano, svela la storia, ch'è divenire, traendola da un breve e fuggitivo attimo. Talvolta la consapevolezza di questo abito a meditare prende accenti epici e drammatici al tempo stesso, come nella lirica A noi due, ch'è un lungo angoscioso atto di accusa contro se stesso e contro il suo simile, i quali dalla preistoria non si sono mai amati, e mai si ameranno, ma pur in questo momento l'uno sente segreto il bisogno di amare l'altro e di gridargli in un impeto d'amore: Fratello!

Mi affretto alla fine di questo mio non breve discorso concludendo col dire che il caso di Federico de Maria è un segno, e non certo il solo, delle letterarie ingiustizie che si commettono in questo povero mondo. Innovatore d'un gusto poetico che s'è imposto e affermato, pur fra tante deviazioni ed esagerazioni, in questo primo cinquantennio, è passato fin qui quasi inosservato, nessuno si è accorto, o si è voluto accorgere della sua priorità. 

Poeta - anche nei drammi e nei romanzi - dei più significativi per intensità e quindi novità di ispirazione, è quasi sempre sottaciuto nella fiera letteraria che in questo cinquantennio Si è sempre rinnovata in mezzo a un bailamme di nomi imposti da congreghe e da società editoriali interessate. A che gli è valsa l'ammirazione e l'estimazione sincera di Matilde Serao, di Marinetti, di Sergio Corazzini, di Pirandello, di Capuana, di Mario Puccini, di Lipparini, di Lucio D'Ambra, di G. A. Cesareo, di A. Tilgher, e di grandi stranieri come Edoardo Rod e Maurizio Muret, di Héléne Vacaresco e Piérre de Nolhac, ecc.? Che nell'opera sua non si trovino difetti, non vogliamo asserire: ma qui non abbiamo voluto fare un analisi della sua produzione: abbiamo voluto delinearla nei suoi tratti positivi più caratteristici, e soprattutto seguirla nel suo svolgimento, a cominciare da quando essa vide la luce indicando una nuova via da percorrere nella storia della poesia italiana.

 

(1) Era la prima volta che si parlava di arte "razionale": "razionalità" o "razionalismo" nella architettura doveva pochi anni dopo avere fortuna e cominciare a essere adoperata a tutto spiano.

(2) Per essere precisi sulla priorità del Nostro in fatto di metri liberi italiani modernamente intesi (come del resto riconobbe lo stesso Capuana che anni prima aveva pubblicato i suoi Semiritmi) è bene ricordare che i primi saggi del de Maria nella novissima metrica - e cioè La Canzone dell'Usignuolo, la Tempesta e La battaglia del Mare - furono da lui letti agli amici fra il settembre e il novembre deI 1901 e pubblicati in riviste pochissimo tempo dopo. Nel 1906 poi, Luigi Capuana, tracciando nella Nuova Parola un profilo del giovane poeta, così fra l'altro scriveva: «Federico de Maria tratta anche i metri con orgoglioso sprezzo, non privo di ardimento cavalleresco e voluttuoso... Il tentativo quasi onomatopeico de La Canzone dell'Usignuolo ha preceduto i gridi, i trilli, i zirli, i sibili di cui oggi usa e abusa un gran poeta: il Pascoli». Un anno prima, proprio F. T. Marinetti, non ancora celebre né rinnovatore, gli aveva dato il più ampio riconoscimento di precursore. scrivendogli dopo aver letto Le Canzoni Rosse: «Votre livre a pour moi le double attrait de sa beauté émouvante et de son originalité révolutionnaire. Vos poémes sont en effect des puissants cris de revolte coutre toute la vieille poèsie».

(3) Che la posizione letteraria del de Maria tra i 20 e i 25 anni fosse tra te più eminenti dei giovani scirittori italiani di quel penodo, è attestato dal Dictionnaire international des ecrivains du rnonde latin ove il suo nome figurava fin dall l906, e dal conto in cui era tenuto dalla critica italiana e anche straniera. Voci erano state tenute a battesimo nel Corriere della sera da Francesco Pastonchi e nella Settimana Matilde Serao aveva scritto: «mai l'arte di F. d. M.. appare essere di maniera, né mai egli risponde meno clic adeguatamente al richiamo, dolce o febbrile, delle cose.» Edouard Rod nella Revue e Maurice Muret nel Journal des Débats presentavano il nuova poeta italiano con bellissime parole; Luigi Pirandello lo considerava nella Nuova Antologia tra i più signiticativi poeti delle nuove tendenze; GoffredoBellonci nella Rivista d'Italia iniziava appunto con uno studio delle prime opere del de Maria la propria brillante carriera di critico letterario. Sergio Corazzini nel Don Marzio di Napoli affermava: «il poeta sfoggia un carattere suo proprio e tratta fantastiche cose con rara sapienza e bellissima forma.»  Il famoso severo critico del Marzocco (per un ventennio massimo giornale letterario d'Italia) G. S. Gargano così, acutamente definiva la sua personalità: «Nell' impeto, nel bell'impeto che scalda ogni strofa del poeta.., abbondano le impressioni vigorose e sentite, notate con una bella e notevole sicurezza di contorni e splendenti di una vivida luce di colori. E' un poeta che sente la bellezza della moderna vita, inquieta e operosa, e che ama il fascino che emana ancora dal passato Dalla fusione di questi due sentimenti deriva ai suoi versi un carattere personale che lo distingue da molti giovani contemporanei che sono ancora chiusi entro un vecchio mondo di fantasmi e che non hanno di nuovo che la faticosa artificiosità del verso».

(4) Fra i critici, Bellonci nel «Giornale d'Italia», Mario Puccini, G. Manzella-Frontini, Teresah, Giovanni Rabizzani, chiamarono l'autore uno dei «più forti assertori della nuova poesia» o «il più spontaneo e genuino», «il più efficace e sincero ingegno poetico dell'ora presente». Antonio Beltramelli scrisse di lui: «Tra la fiacca e insipida poesia dei nostri giovani la voce di F.d.M. trascorre gagliarda ed ardita, impetuosamente giovane, originalmente nuova... E' uno scrittore di razza, tutto nostro, tutto italiano... Ha trovato una nota sua, ha un'ani- ma sua ben distinta, ben chiara che in tutto si appalesa prorompendo e di sé imprime l'opera che crea». Nel «Mercure de France» Ricciotto Canudo affermò che nella Leggenda della Vita ... se révéle l'esprit d'un «maître de demain». Ed Elena Vacaresco entusiasticamente scrisse : «Je dois à La leggenda della vita un énchantement multiple et rare: impossible dire à quel point elle m'éxalte, m'emplit de rêves, de palpitations, de sursauts, d'orgueil aussi, car le me sens prise du talent du poéte, comme si je le partageais avec lui, parce qu'il m'à enivré a surprendre sa force et son mystère, parce que dans les oeuvres de feu, de larmes et de sang il ferment un vin oû nous communions ardemment».