CARME SECOLARE DI SICILIA

febbraio 1924

Odi, madonna, e uditelo voi tutti
il carme secolare
che leva dal suo mare
— golfo di Roma fra tre mondi — al cielo,
ammantata in suo velo
di luce eterna, colma di profumi,
Sicilia madre, nata dal connubio
delle fiamme coi flutti.

L'Ellesponto mandò su la marea
jonia, densa di sale,
col murmure canoro
l'eco d'un mondo ebbro di canti, d'oro
e di glorie, al suo curvo litorale.
All'ara della dea
Cerere, con tripudio di melodi
traevano le vergini danzando.
Persefone infrangeva i fiammei nodi
d'Averno, la sua teda alto squassando.

Dal tauromenio lido
Polifemo gigante a quando a quando
corruscava il suo torbid'occhio; Ulisse
lo vincea con l'inganno, Galatea
con la collana delle nivee braccia.
Tra le canne e i papiri
ove satiri e ninfe avevan nido,
Alfeo correva d'Aretusa in traccia.
Dall'Erice, che maestoso incombe
sui liquidi zaffiri
del mare occiduo, aperto ad infinite
vie, contro ignoti e affascinanti mondi,
alle genti amorose
d'ogni contrada, Venere Afrodite
fremito di sospiri
mandava, e baci, con le sue colombe,
Esultanza saliva dai mortali
fatti dei come Glauco, dalle cose
fatte agli uomini eguali.
Ed Apollo arrideva
dall'alto, negli armoniosi giri.

Quinquiremi del console Duilio
che stroncaste l'orgoglio
di Carthalo, già domo a Lilibeo,
lo schianto del navilio
rotto e disperso, l'ululo del reo
nemico, l'alto streper delle torte
buccine di vittoria,
i rantoli di morte,
tornavano talora, col gorgòglio
dell'onde, su lo scoglio

di Panària, come una memoria
labile quando giunse d'oriente
altro stuolo, recandoci altra gente
dominatrice, gli ultimi bastardi
pronipoti latini
videro la bell'isola di fuoco
all'ombra della selva di stendardi
degli Emiri, fiorire
d'inattesi prodigi saracini.
Emula di Granata
e di Bagdad, sonò per ogni loco
la fama di Balermi profumata
d'aranci, con sue cupole di croco,
coi marmorei steli
dei minareti lancinanti cieli
di turchese, con le sue Cube e Zise
tra stellare di zagare e giasmini
in mezzo a rose imbalconate assise.

Ma dal mare che tutta la ricinge
come equorea corazza
e che le incombe come verde Sfinge,
giunsero le novelle sue fortune.
Le saettìe degli Altavilla, i fragili
palischermi corsari
involatisi ai mari
nebulosi, condussero la razza
dei guerriglieri biondi
a infrangere le invitte mezzelune.
E per la prima volta
Sicilia tese la gemmata mano
al Piemonte lontano;
la grande idea d'Italia nel cuore
d'un magnifico barbaro fu accolta.
Dalle oranti basiliche,
dai castelli turriti,
dagli operosi borghi,
tornarono le genti
sicule alle lor miti
fatiche, ai sogni e ai consueti amori.
Da la reggia vegliante
sovrana fra Kemonia e Papireto,
da Monreale a Cefalù fragrante,
i re normanni, intenti
ad opre di bellezza,
eternavan nel marmo e nei fulgori
de' musaici il lor popolo lieto.

E tu, Costanza imperatrice, pia
siciliana, dal tuo ferreo trono
germanico, ricinto di perpetua
bruma, traesti a più solare meta
il figlio dalle flave
chiome, di cui alto tuttora è il suono,
padre dell'italiana poesia.
Tu spiri sempre, Vento di Soave,
ed i boschi dei lauri, fra l'intrico
delle rame, bisbigliano, qual fremito
d'arpa, il tuo largo nome di poeta
e imperatore, o svevo Federico,
Brillano eterne al sole
le parole d'amore e cortesia.
Per te vibrò il leuto
di Piero delle Vigne, e per te dette
le rime di velluto
alle sue ballatette
Jacopo da Lentini; e con divina
grazia, come ciclami
silvestri, su per gl'itali paesi,
gittò suoi sirventesi
Guido de le Colonne da Messina,

Ma rombano le squille
vendicatrici sulla Conca, ai primi
fiati di primavera
ghirlandata di rose.
Santo Spirito fa Vespro iracondo!
Le giovinette spose
s'appressano all'altare
terribili e ànno per monili stille
di sangue. Corre per i campi, opimi
di strage, l'urlo che percuote il mondo.
Travolto alfine in mare
è  l'angioino: sia
distrutto ogni suo germe sulla terra
redenta. Aiuta! aiuta,
almirante Ruggero di Lauria!
Sfonda col tuo sperone
La galëa del figlio del ladrone
di Francia, chiudi la ventenne guerra
spegnendo l'atra fiamma
nella tirrena onda; l'urlo giocondo
di vittoria risuona:
«Sicilia ed Aragona !»
Tu scrivi «Libertà» su l'orifiamma.

Libertà, baluardo
effimero di dritti inermi, presto
concussa! Abbeverato del veleno
delle discordie, il popolo infingardo
s'adagia sullo strame
dell'inopia che ormai solo gli apprestano
gl'ingordi forastieri. Invan l'onesto
Gian Luca Squarcialupo
s'aderge contro la baratteria:
la sua spada non scocca che un baleno.
Meglio uccide l'infame
stocco fraterno che lo coglie a tergo
tra gl'inchini, nel cupo
tempio: — Santa Maria
Annunziata, il sangue sul tuo altare
darà più tardi fiore
e frutto! Sarà dopo centrent'anni,
il grande e puro cuore
di Giuseppe D'Alesi a fare usbergo
di sé alle guaranzie siciliane.
Su, dal quartiere della Conceria,
seguiamolo all'assalto coi moschetti
strappati ai primi vigili spagnuoli
travolti, con le pale
dei carbonari, con le partigiane
dei pescatori, con le stanghe dei
lettighieri, con l'asce
dei legnai, coi trincetti
dei ciabattini, coi
burini e coi mazzuoli
dei battiloro, fino con le penne
degli scrivani, coi sassi e coi petti
dei bardassi, via! consoli, plebei,
borghesi, siamo un'altra volta noi
di Palermo, del regno!
Via, dietro il Capitano Generale,
a Palazzo Reale,
a ghermire e impiccare sulle antenne
della piazza — scontando la vergogna
loro ed il nostro sdegno —
quei quattro lupi della Catalogna!

Muta il dominatore ed il suo sgherro
coi secoli; non muta
l'indomito odio contro lo straniero.
L'alba del quarantotto
udrà il proclama vergato col ferro
e col sangue: «Borbone,
dal dodici gennaio è decaduta
per sempre la sleal tua dinastia.
Prima città della rivoluzione,
Palermo, con Ruggero
Settimo, in faccia al mondo, ecco, à già rotto
i suoi ceppi » Che importa
se tradisce il destino,
se tutta Italia cede? Non è morta
la volontà. Domani la campana
della Gancia, squillando a mattutino,
urgerà nell'esilio
Francesco Crispi, affretterà da Quarto
il nocchiero dell'ultimo riscatto,
precederà la diana
suscitatrice di Calatafimi
1'Italia di Virgilio
d'Augusto e Federico, qui sarà
cementata di nuovo in un sol patto.

Così, di gloria in gloria
trascorsa, la solare isola volge
al compimento di sua grande istoria.
Sentinella avanzata
dell'italica gente nel sonante
Mediterraneo, sta
come nave ancorata
che s'appresta a salpare
per l'ultima vittoria.
Il Mongibello è l'albero maestro
e le sue fiamme sono la bandiera.
Va, isola guerriera,
il tuo fato gigante
prediletta ti vuole
in seno alla gran madre
Italia; con ardore
rinnovato con lei va incontro al sole
del tuo nuovo destino —  tricolore.