CZOLGOCZ

novembre 1901

Per un istante io fui Czolgocz. Nel suo
corpo, il momento di morir venuto,
su le sedia del fulmine ho vissuto
l'ultima vita di quell'assassino.

Mi condusse a la sedia l'aguzzino;
mi parlaron di Dio, credo. Risposi
ghignando. - Fui seduto, ed io mi posi,
inerte, fra le braccia della morte.

Una morsa mi cinse il cranio e forte
me lo serrò. Legaron le mie mani
su i bracciuoli. - Io tacevo - Udia lontani
strepiti, udivo fin tutti i respiri.

Uno seguia con l'occhio i lenti giri
d'un orologio. - Si appressava l'ora.
Fra due minuti io sarei morto. - Allora
io vidi (e avevo gli occhi chiusi), un uomo,

brutto di sangue innanzi a me. Quell'uomo
era l'ucciso. - Vidi disparate
forme bislacche: labbra insanguinate
di piaghe - il sagou presso casa mia -

la venditrice di banani - mia
madre - la neve di Polonia - un moro
di Broadway, coi grandi occhiali d'oro -
il morto. - Vidi sangue - Udii una voce

che mormorava: E' già l'ora. - Un atroce
scoppio senza rumor mi divorò
le membra; sangue, sangue m'abbagliò,
m'inondò... Poi la Tenebra... - Io sentivo

la Morte - Un gran Silenzio . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

GLI AGNELLI

settembre 1902

Venia da lontano ai macelli,
cacciato a sassate da un uomo,
un branco lanoso d'agnelli.

Accanto alle porte, sbarrate
così che parevan le bocche
enormi di belve affamate,

correndo un altr'uom si parò,
e verso quegli antri le bestie
con urli e con gesti cacciò.

Costretti cosi da due lati,
gli agnelli, tremanti d'angoscia,
ristettero tutti, aggruppati

dinanzi al timor dell'ignoto.
Parevano un sol corpo. Tutti
avevano lo sguardo immoto,

fissando le tragiche porte.
Poi fecero insieme un gran balzo,
e andarono verso la morte.

IL CAOS

marzo 1906

Il vecchio Dio senza nascita, che non ricordava principi,
stanco era e desiderava una fine.
Egli stava nello spazio unico e senza confine
della passata eternità sommerso
solo con l'universo.
L'universo non era che tenebre cieche, vapori
nereggianti, boati rimbombanti nei cavi gorghi
dell'abisso immensurato,
mostruosa poltiglia di pianeti, di soli
sospesa nel vuoto:
era cosi, immutato, fin dall'imprincipiato remoto.
Allora il vecchio Dio pensò di cambiar l'insensato
Caos e d'assegnare
un qualche fine a se stesso.
Fe' un gesto e nacque il complesso
prodigio del mondo solare,
s'aprirono altri enormi occhi nel buio,
rotaron gli sciami degli astri vestiti di raggi o di fumo.
Ed Egli disse: Nel mondo che allumo
io voglio dissolvetmi: nasca
da me la vita, ogni bella e tremenda
forma, che salga in perpetua vicenda,
finché da me, solo Dio,
nell'eternità ch'io rifaccio,
s'espanda un popolo fatto d atomi miei,
e ognuno con le proprie forze dovrà rinnovare
quello che ora son io! ".

E il Dio si scompose
in germi primevi nell'infinità delle cose.

IL PRIMO CUORE

marzo 1906

Ei fu da prima un sottile
brivido: come un legger tremolio
di linfe a un fiato d'aprile.
Gli diede anima il fruscio
timido dei roseti, poi quello delle foreste,
l'ansare degli oceani,
il rugghio delle tempeste,
l'ardente roboar dei vulcani.
E nacque intero: e accogliendo
in sé le voci e le vite di tutte
le cose, sue primitive sorelle,
- come loro divino e tremendo -
egli ritmò la sua vita
col palpitar delle stelle.

L'AVO

gennaio 1907

L'avo antichissimo aveva
ucciso una belva
con la prima arme, foggiata
dalle sue mani: una mazza
fatta d'un ramo nodoso.
Carico della preda, egli con l'eva
compagna andava sotto l'intricata
ombria d'una vastissima selva,
d'onde sbucarono alfin sulla riva
d'un largo fiume profondo e spumoso
ov'era il forteto più rado.
Quivi sostaron, fermati
dall'impossibile guado.
Dinanzi a sé, oltre l'acque,
aperto egli vide il cielo crepuscolare
che il sole trascorso
illuminava - e pareva un aereo mare
di fuoco. La donna ebbe il corpo
ignudo percorso
da un brivido. Ed egli allora giacque
- pesto - con lei - stanca - sul greto eguale
e soffice della riva:
nella notte che saliva
la tenebra fu loro coltre,
la selvaggia verzura guanciale.

Giacquero - premio alla lotta diurna
E lì, nella febbre d'amore,
con la brancolante mano rude
egli palpava la dolce persona
di lei, ed in un folle errore
il talamo fatto di terra:
tepide entrambe ed ignude.
E allora, sotto la volta notturna,
parve a lui nel momento gaudioso
per quel grembo voluttuoso
di posseder tutta la terra!

Poi, non dormì: troppe stelle
ammiccavan, guardandolo, in cielo.
La compagna, coperte le belle
nudità soltanto dal velo
fulvo dei copiosi capelli,
ora ansava col lieve respiro
del sonno, posando la testa
sul villoso petto di lui.
Correva come un anelo
e gigantesco sospiro
tra le roveri della foresta.
Giungeva ogni tanto dal fondo
dei recessi fronzuti il barrito profondo
d'un giovane mammuth in amore.
Svolavan neri per il cielo a stormi
con acuto sussurro d'ali
squamose dei sauri enormi.
Scoppiava, con schiocco di bacio,
il boccio gigante d'un fiore.

Allora, tra il vasto concerto di tante creature viventi,
parve al solitario vegliante
di percepir tutti i palpiti
e tutte le vite latenti
nell'ombra: il piacer tumultuante
ancora nelle sue vene
gl'ingigantì l'anima: intese
d'un'inaudita forza tutte le sue fibre piene.
Come percosso da un vento
improvviso, ebbe un trasalimento
immenso. D'un tratto comprese
che il tremolio d'oro nei bui
recessi del cielo, e le fiamme del trascorso giorno,
e tutte le cose d'attorno,
visibili o occulte, esistevano solo per lui!

E poi che l'alba, ad uno ad uno,
cominciava a cancellare
gli astri nell'arco men bruno
del firmamento, ei si levò gigante
alto brandendo tremendo il gran ramo reciso.
Svegliò con voce tonante,
che gli echi biechi fe' raccapricciare,
la compagna; divelse un gran tronco
a metà infranto dal fulmine,
lo lanciò all'acque, montandolo insieme con lei,
lo guidò tra le spume
che gli turbinavano fino sul viso.
E toccò l'altra riva, alfine. Con balzo giocondo
premé la terra, ne prese due pugna
e se ne intrise la fronte
e il petto. Poi mosse - fendendo securo le brume
che ancora chiudean l'orizzonte -
alla conquista del Mondo.

FIGLIUOL PRODIGO

Aprile 1908

«Tu preferisci i doni
che giungono, io quelli che porgo:
ecco perché non m'intendi.
Cotesta tua saggezza sente
un po' d'impotenza, un poco
d'accattonaggio. La mano che tendi
è arida e cava; la mia invece è ardente
come il mio cervello e il mio cuore.
La tua tirchia felicità
sta appesa al labile filo
del capriccio o della volontà
altrui: la mia felicità
sta tutta nell'arbitrio mio.
Poiché Dio è colui che dà,
io più di te son fatto a simiglianza di Dio.
E mi libero, e godo a donare,
a largire cosi vita, amore,
anima: tanto piu salgo
quanto più son leggero.
E che importa se domani
non mi si renderà quello
che ò donato?
Essere amato
è bello; ma è ancora più bello
amare! ».

GIOBBE

marzo 1907

Giobbe, putrido in un letamaio,
consunto dalla lebbra, a poco a poco
si spegneva; e, volgendo
gli occhi velati al cielo, con un roco
guaito non cessava d'implorare
lo Spirito tremendo:
- Jehova, dal fondo d'ogni mio guaio,
senti almeno l'ultima preghiera:
Tu che sei tutto quello che nasce
e che s'estingue, l'aurora e la sera,
tu che spargi sulle tue creature
le gioie e le ambasce
senza numero, se sazio
non sei ancora di tanto mio strazio,
annientami pure.
ma odi, per essere giusto:
Tu m'ài distrutto col fuoco
perfino ogni più strema capanna,
ogni più tenero fusto;
m'ai ucciso gli armenti;
m'ài inghiottito con gli uragani
i pingui navigli;
m'ài orbato dei figli;
m'ài ridotto a raccoglier per cibo
quel che sdegnavano i miei cani...
e sempre l'infinita
tua possa struggitrice ò benedetto.
Ma ormai questo poveretto
che ti fa? che ti fa? Nulla egli vuole
per lo straccio di vita
che gli rimane, fuor che di tenersi
e benedire
le ricchezze comuni che non vide
quando credeva d'aver tutto: un alito
della tua aria, un raggio del tuo sole.

DON GIOVANNI

giugno 1927

«No: gli è che ciascuna
à pel nostro cuore o pei nostri
occhi un vezzo nuovo, un incanto
diverso. Se poi ci appressiamo,
lo vediamo spesso svanire.
Oh, potere in una
soltanto riunire
tutti i vezzi e gl'incanti del mondo,
le gioie disseminate
in tutte le donne incontrate
nella scorribanda affannosa
da bocca a bocca, da cuore a cuore,
e che non è in fondo
piacere, ma pena, amarezza
continua! Trovare in quella
sola quanto chiediamo
inconsapevolmente alla vita:
la purità,
la bellezza,
la bontà ».

MARESCIALLA DI MIREPOIX

ottobre 1907

- Staffiere, tu troppo t'indugi
ad allacciare in ginocchi
il mio stivalino.
Bada: sciuperai tutti i fiocchi
e i galloni alla nuova livrea
con dispetto del nobil mio sposo,
a star tanto chino.
Impallidisci? oh, che idea!
Su, poveraccio, che ài?
Dimmelo: io ti prometto
che ti darò quella cosa
qualunque che mi chiederai.
- Oh, mia signora, non oso!
Preferisco tenermelo in petto
come una malattia che consuma,
questo desiderio impossibile.
- E, dunque, troppo terribile?
E' quella stessa ragione
che ti muove sempre a spiare
i miei passi, a contemplare
(nascostamente, tu credi)
il mio ritratto, di là, nel salone?
Ti piaccio molto, dunque, staffiere?
Oh, non turbarti, non cadere
un'altra volta ai miei piedi,
ma per non deliziartene, come
poco fa, se svieni. Piaccio
a tante altre, ed illustri, persone:
al re, ai marescialli, ai baroni,
ai poeti, ai ministri: perché
non dovrei piacere anche a te?
- No, non è piacermi... Io vi metto
al posto di Dio!
- Sarebbe allora l'amore,
il vero, quello che ò letto
nei poemi di cavalleria?
O quell'altro, verissimo anch'esso,
e scientifico, di Diderot?
Là, là, ragazzo mio!
Sia fatto di sogni, di belle
parole, o di voglie, l'amore
di tutte quante le intellettuali
bestie che ò conosciuto,
dopo breve o lungo volo
chiede solo raccoglier le ali
in coppia oscena su un letto
anche senza coperte di velluto.
Vieni, dunque: amami dove
vuoi, nella mia camera fragrante,
nel tuo bugigattolo oscuro...
Ma perché io ti dia la corona
di mio perfettissimo amante,
più delle gemme, dei fiori, dei versi
degli altri, tu che mi saprai
dare, o che mi saprai dire?
- Nulla, signora. O, forse, soltanto
la gioia, nuova per voi, di scendere
nel mio fango, per dare a me l'incanto
di salire!

.

PETÖFY

maggio 1904


- «Generale, nelle paludi d'Hanzag,
dove trovò la morte quasi un quarto
della brigata Zichy,
s'è pure perduto
mentre correva alla battaglia, il prode
Petöfy. Egli fu veduto
sul cavallo slanciato al galoppo,
col pennacchio svolazzante
al vento del mattino,
dirigersi contro il pericolo.
Da lontano il comandante
lo volle avvertir con le grida
di non spingersi troppo
a sinistra: ebbe un gesto di sfida.
Ad un tratto il cavallo vacilla
sotto lo sprone, va ancora
innanzi, cempennando, squilla
un nitrito, ed al fin io vediamo sparire
tra le nebbie: l'eroe era grande
e luminoso all'aurora.
S'udi un'altra volta nitrire
il suo cavallo, lontano...
Poi la caligine si dissipò
e non c'era più alcuno sul piano ».

E Bern si levò
la pipa dalle labbra e con un tremito
appena nella voce, disse forte:
- «Voi v'ingannaste, soldati
d'Hanzag; male vedeste
e non immaginaste la morte
del nostro poeta guerriero.
Non le paludi funeste
sono il sepolcro suo nero.
La nebbia dell'alba fu il velo
roseo che scese dal cielo
e lo assunse, qual semidio,
in lidi più eterni, a più chiare
albe: Petöfy è salito a pregare,
cantando il suo inno di guerra,
lassù, più vicino a Dio,
per noi che restiam sulla terra.
La persona sua ci fu tolta
in trionfo! Non lapide o fossa
per lui ne le zolle; ma, come
tutte le anime eroiche sue sorelle,
per lapide avrà la gran volta
del firmamento, dove la spoglia ora monda di rossa
strage sta, vigilata da le stelle».

DIVENIRE

dicembre 1907.

L'inerte materia non s era ancora ravvolta
nel freddo mantello,
che senti come dilatarsi da un gaudio celato
palpitando un'altra volta
d'un benesser di vita novello.
Fu come un dissolversi lento
e crescente di tutte le membra,
un disgregarsi d'atomi fecondi,
quale, dopo millenaria attività, nel popolato
spazio, dal ribollimento
irradiante delle nebulose,
esuberanti di vitalità si scagliano i mondi.
E ogni cellula del corpo morto
visse di sé come il mondo
nuovo che, appena espresso
dal fiammeo grembo di forze complesse, à un secondo
suo ardor d'esistenza indefesso.
Cosi, sotto molteplici forme,
egli dalla sua morte trasse molteplici vite.
Venne per vie infinite
- in umore attraverso la terra
grassa, in fluido galleggiante
nell'aria, in fecondante
corpuscolo - a dare alimento
a tutta la famiglia enorme
degli esseri che àn nella vita sensibil dimora.
Tornò ad esistere ancora
nella linfa vitale
che abbevera la quercia ed il frumento;
del cervello immortale
si nutri un frutto che offerse le pure
soavità del sapore
a ristorare umane creature;
e nacque dal cuore
travolto nel tacito esilio
delle zolle opprimenti, qual palpito
supremo, un fiore vermiglio.

Ma ci fu pure qualcosa
di più tenue, di più leggero,
che si stacc6 da lui per andare più su, più lontano,
nello sconfinato impero
dell'eterno, nell'arcano
azzurro, ardente e radiosa
come una stella.
E qui da prima fu, nella
cognita immensità,
come una lieve nave di gioia, fendendo i celesti
oceani. Ad una ad una
raccolse, fulgida messe, le verità
più sconosciute, apprese le parole
più secrete. Ed alfine, compito
il suo divino viaggio
attraverso la notte infinita
che squarciava per lei ogni gramaglia,
si dissolse nel fuoco del sole,
a benedir con un raggio
l'occulta e rinnovatrice bontà della morte che agguaglia
l'eterna bontà della vita!

L'USIGNUOLO

luglio 1904


Nella limpidità della serena
notte la voce risonò, vibrando
- calda come un bramito - il suo comando:
"Ragazzi, son dodicimila appena

e noi siam più di mille: ognuno stia
fermo al suo posto e taccia. Eludiamo
il nemico che non vede, ma siamo
pronti a ogni evento ". - Assai lunge s'udia

un rombo sordo che lento sperdevasi
nella campagna senz'eco. Sgorgò
a un tratto un gorgheggio nel gran silenzio
e l'eroe, dimentico, ascoltò.

I cacciatori vigilano: in cielo
è un tremolio d'atomi d'oro. Il canto
dell'usignuolo effonde in quell'incanto
notturno un nuovo fascino: che cielo

puro! che melodia pura! che cuore
puro!... E Lui s'assopì, sentendo in fondo
all'anima destarsi il vecchio mondo
delle memorie, come in un albore

di tenerezza nuova. - " Essi s'avanzano,
generale; restiamo fermi qui?"
Impaziente domandò una stridula
voce; ma, immemore, Egli non udì.

L'uccel gli rammentò quella pianura
verde, teatro di battaglie immani;
le crociere... il Rio Pardo... gli uragani...
e la sua morta senza sepoltura...

"Generale, s'appressano... " ... altre notti
squallide, senza lume e senza pane,
dopo le atroci guerre americane... .
gli rammentò la voce di Ricciotti...

"Generale!... " ... e sua madre, ed il Gianicolo
insanguinato... Un colpo rimbombò.
"Boia d'un mondo!... ". Ei trasali, destandosi,
e il cantore del bosco s'involò.

SINFONIA DELLA NOTTE

aprile 1909

Intensissima vita di luce nell'ampio emisfero stellare.
Giunge a me da lontano - rombo d'un'unica nota melodica - la voce del mare.
La Terra, immota, calda nella sua fecondità eterna, e l'immenso letto mio,
e la campagna m'avvolge col profumato alito pio.
Com'è vasta la notte nella sua prolissa esistenza
ch'essa beneficamente sulla terra, dovunque dispensa!
Solo in quest'ora io vedo una più grande parte del creato.
Io mi sento cosi, solo uomo, come isolato,
galleggiante nel vuoto, sospeso fra l'eterno rotare
dei mondi silenziosi che vedo e d'altri mondi che so immaginare
di là dal mio sguardo, erranti nello spazio nerastro;
so trasportarmi in ogni astro
lucente, e viverne la singola vita, col ritmo gigantesco delle grandi cose;
io vi leggo tutte a volo, grandi leggi misteriose.
Mi parlarono di Tutto e di Nulla: parole vuote di senso.
E' vera soltanto la vita
che mai non cessa, che à per brevi ed eflmere soste la morte, madre di nuova vita.
Ecco, l'anima mia coglie nel silenzio le armonie
di questi incessanti palpiti che giungon per tutte le vie.
Vita della luce, vita dell'ombra. Anche i vampiri volitano pel cielo
in cerca di cibo e d'amore; la belva, nel pronubo velo
della tenebra, cerca la preda e la femina; il serpe striscia
fra l'erbe odorose col fischio
dell'amore; il timido usignolo sfidando ogni rischio,
svola, groviglio di piume, di musica e di desiderio.
In fondo alle acque oceaniche, nell'immutabile imperio
del gelo e del buio, dal tronco della madrepora sboccia
dalla gemmula il polipo, come fior dell'abisso; una goccia
chiude un popolo che di minuto in minuto si rinnovella.
Nei reconditi valli,
sulle cime più invitte, nelle profondità gelose, bollon di febbre vitale i cristalli,
le linfe, il protoplasma. L'emerocale apre gli ebbri suoi petali e muore;
la diatomea in un ora rampolla un milione di volte nell'orgia d'amore;
il pesce argenteo, vogando verso il tropico spande lungo la via
miliardi d'ovuli e fiumi di seme, come un vivifica scia;
ogni attimo nella sua fuga per l'universo errabondo,
segna la fine o il germogliar nuovo d'un mondo.

Ed io ti sento in me, tutta, infinita
voluttà delle cose, prepotente amore della vita!
Se io, uomo fecondo, raccolgo pure nei miei sensi,
nel mio cervello le voci, i palpiti delle cose, piccoli o immensi,
se io posso aderire a questo infinito, non andrà disperso
il mio grido, il mio palpito che risponde all'universo!

LAMPADA

luglio 1928

Le notti, prima di adagiarmi
- deposta ogni cura
diuturna, interrotto ogni gioco -
nell'ombra assoluta
del sonno o nel nebuloso lucore
del sogno, sento una strana paura.
Non so se il terrore mi sia
d'attorno, mi piova sul cuore
da quella gran tenebra muta,
o se si diffonda, s'irradii
nell'ombra dall'anima mia.
Ma allora t'invoco,
perché in te credo, o Signore.
Son solo. Una lampada fioca
presso il mio letto, in un cerchio
breve, angoli e spigoli alluma.
Oltre, ed oltre pareti
e strade e mura, io la vedo, è la bruma.
E' allora che la senza nome
- qualcosa, non so, di terribile e pio -
mi soffia l'avvertimento
di te, la presenza di te, invisibile, o Dio.
Ed ecco, io mi prostro
perdutamente dinanzi
al tuo incombente dominio,
e solo ora riconosco
la vanità della luce
ove io m'agitavo dianzi
con l'altre creature;
riconosco l'abbominio
di questa nostra mondana vicenda.
E sento che la tremenda
notte è la sola, la vera,
l'eterna realtà, più del sole
e de le stelle, lucciole
dell'immensità nera.
Intendo perché questo fioco
lume mi sia come sole
nello scuro dello sgomento.
Il sonno, che a poco a poco
mi fa svanire il cervello, più forte
del mio stesso terrore, somiglia
a questa realtà di gelo
infinita, somiglia alla morte.
Ed io ti prego, Signore,
di farmi sognare dormendo, perché
rimanga come uno spiraglio
sull'anima chiusa. E se il velo
del sonno, uno o l'altro domani,
dovesse non schiudersi più
sopra il mio tacito cuore,
ti prego, o Signore,
concedimi che nell'eternità
di freddo e di buio, che nelle
mie notti senza risveglio
almeno traluca un barlume
di stelle...

LO SCEMO

marzo 1908

Egli sentiva una grande dolcezza
nelle cose; ma più nel sole
d'autunno, quando passava attraverso
nuvole torbide, come
aeree dita d'oro,
per posargli una tepida carezza
sopra le chiome.
Tutte le piccole cose egli amava,
anche; ed a certe parole
armoniose ed ignote
sorridea come a una musica blanda.
Ogni volta che guardava
sua madre egli sentiva disfarsi di tenerezza
e le lacrime giù per le gote
gli scendeano. Balbettava
in suon rauco una domanda
inaudita e rimaneva estatico,
con la grossa bocca socchiusa
da cui pendeva un lucido
filo di bava.

Egli era felice di tante
bontà umili: dell'acqua eguale,
degl'insetti che lasciava passeggiare
sul suo viso, delle piante
fonte... Ma d'una cosa sola aveva paura:
ed era la sua finestra
aperta sulla notte scura
e punteggiata di fuochi
minacciosi...
Per questo morì
disperato, accennando invano,
con balbettii fiochi
che nemmeno sua madre capì,
a quell'ingoiante vano
spalancato sulla notte estiva
che tremendamente l'attraeva in grembo al suo nero
mistero...

PALAFITTE

novembre 1929.

Nella caligine folta
d'un mio ricordo - lontano
di secoli di secoli,
forse - balena l'argento
d'una distesa d'acque
ispida, qua e là, di canne.
La mia memoria ascolta
voci di selve nel vento.
Li, in mezzo allo stagno, celata
fra i giunchi, l'ardua capanna.
Un senso non più bestiale
ma non ancora umano
di cui l'essere mio si compiacque,
faceva riconoscere
a un solo battito d'ale,
a un digrignare di zanne,
la preda cercata.

La preda: non era che preda
la vita, sì per la fame
che per l'amore;
e, quel che restava, pel gioco.
Ogni cosa aveva sapore
di sangue. Soltanto la prima
conquista, la grande, del fuoco,
spirò come un vento d'orgoglio
nel petto del dominatore
che si senti più vicino
alle fiamme del cielo e al soglio
infinito. Ma stava su tutto
- su tutto, sulla natura
che gli si offriva, sul forte
suo volere, che superava
le paure - una cosa oscura
e terribile: la morte.

Essa sola lo annichiliva
col suo quadro d'immobilità
senza fine, col suo gelo
senza rimedio. Essa veniva
talvolta con la zagaglia
d'un simile, tal'altra col morso
d'una belva. La casa sull'acque
lo preservava; ma mai
lo salvava, quando Essa - invisibile -
giungeva dal cielo.
E il cielo e la morte gl'ispirarono la divinità.

Oggi io m'isolo sulle palafitte
del mio orgoglio, nel lago
dell'indifferenza. So tutto
quel che ignoravo, ò distrutto
i feticci, son più agguerrito
contro le cose ed i simili. Prede
innumeri e meno difficili
m'anno offerto, tutte le vie
della vita e ne son sazio. Ma
c'e sempre una cosa che ignoro,
terribile come allora
e paurosa, che spesso mi dà
la nostalgia dell'ignavia
rifugiata nella divinità.
Oh, era forse più forte
il bruto che ancora
in me malamente sonnecchia,
la sua infantile anima
da piteco, che questa mia vecchia
anima allucinata
di buio e d'eternità
che à sempre di fronte la stessa nemica:
la morte! la morte!


TU

luglio 1932.

Tu: altro mistero esistente
nello spazio, come me.
Più inquietante anzi, perché
sconosciuto o solamente

noto pel volto, per la figura,
per la voce, per ciò ch'è esterno;
ma non per la vera natura,
per quanto contieni d'eterno.

Tu. Ti frugo t'indovino
in parte attraverso me stesso.
Ti cerco in mezzo al complesso
mondo, forse mi sei vicino.

Ma sempre, chiunque tu sia,
mio fratello, mio amico,
qualche cosa di te sfugge via,
un tuo pensiero mi è nemico.

Forse perché le cose son più
piccole di noi. Il mondo
non e divisibile. In fondo
a tutto son due nomi: IO - TU.

Per te, son io TU, tu sei IO.
Ma, forte o debole, è solo
chi chiama se stesso io.
Quanti egli chiama TU è stuolo.

Tu d'oggi, tu di domani,
mentre io non sono che d'ora.
Tu sopravviverai ancora,
giungerai a vedere lontani

eventi: leggerai forse un giorno
il mio nome, con indifferenza,
un mio scritto. Sarà un mio ritorno
effimero dentro l'esistenza

tua. La mia entità, che sento
vasta, ricca di sensazioni,
di ricordi e di ambizioni,
per te sarà il guizzo d'un momento.

Tranne che qualcosa di mio
non si riproduca... tranne che
io non riviva, io
non mi ravvisi tutto in te!

GREMBO

dicembre 1933

Grembo della terra, che produce
ininterrottamente e rinnova le creature
e le alimenta, e poi le distrugge
e si pasce di loro polvere e di luce.

Grembo della valle, ove la cheta
fonte s'acquatta ed è come uno specchio
piccolo delle cose eterne ed immense
che passano pel cielo, e l'uccello sperso disseta.

Grembo della vecchia fante o della nonna
ove ci si addormenta bambini, al racconto
sempre uguale e sempre nuovo di stupefacenti fole,
vegliati da colei che non è ancora angelo e non è più donna.

Grembo della compagna d'un'ora, o dell'amata
d'un'esistenza intera, in cui tutta un'umanità
si ritrova eguale, da cui per tutti si trae
eternandoci, poveri e ricchi, umili o eroi, la stessa sola felicità:

grembo d'amore che un di concesse l'ambita
ricompensa a tuo padre, o uomo, la ricompensa di vivere
e di te, frutto, lo fece lieto; grembo di dolore da cui uscisti
avventando il tuo primo grido d'ira e di gioia alla vita!

NOTTE

agosto 1934

La notte. La spaventosa e magnifica
notte! Respiro le sue acque nere
e impalpabili: m'imbevo del lor gelo.
Qualche goccia di luce
mi giunge fino alle viscere
e m'incendia e mi fa trasparente.
Talvolta odo il tacito vento
del vasto rotare
che passa in alto e squassa
gli astri: gli astri stormiscono
come foglie lucenti d'una immensa selva buia.

Verità, immensità ed eternità del buio.
Il giorno è la meteora fuggitiva.
Basta appena salire
oltre il breve diametro solare
per immergersi nella notte
immensa, eterna ed universale.
La mia vita somiglia al giorno.
La mia morte somiglierà alla notte.
Allora anch'io diventerò eternità ed universo.
Buio: ma in cui stormirà
tacita, al vento della rotante
vita eterna, qualche foglia
della gran selva; nelle grandi acque nere
goccerà qualche luce d'astro.